lunedì 31 dicembre 2018

La definirei così:

la gente è bella.

Lasciamo un attimo da parte la rabbia sconsiderata di esseri meschini che, pur di arrivare al potere, scatenano i più bassi istinti dell'essere umano. Riponiamo in un angolino remoto del nostro pianeta, e della nostra mente, i twittatori seriali e gli urlatori da blog così come i parcheggiatori in luoghi in cui non hanno diritto, i creatori di murales osceni e incomprensibili -andrebbe creata una macchina del tempo solo per spedirli tutti nella bottega del Verrocchio, che li prenderebbe per un orecchio e gli urlerebbe che loro non sono come il piccolo Sandro Filipepi, guardate come disegna bene lui, capre che non siete altro, ora fuori di qui e andate ad arruolarvi nella milizia per combattere i pisani-, gli insudiciatori delle strade, quelli che il terremoto gli fa crollare il rudere che la famiglia possedeva nell'ottocento e loro dichiarano che era la prima casa pur di avere i contributi del sisma affermando che ci vivevano in 7, compresa la zia zitella che sta a Londra da vent'anni o il cugino con cui hanno litigato e non si fanno neanche gli auguri di Natale. Rimuoviamo tutte queste persone incapaci di far altro nella vita se non mancare di rispetto al prossimo. Via tutte queste cose brutte, sciò scio.

La gente è bella. Tutto qui.

Sarà il loro sorriso solare, la loro gioia di trovarsi in vacanza, la spensieratezza di visitare luoghi nuovi ma così carichi di storia e cultura che gli scrittori francesi sono preda, a cotanta vista, di improvvisi svenimenti.

La gente, quando è serena e rilassata, dà gioia di vivere.

Te la fornisce in un modo che neanche se ne rende conto se non ci si ferma un attimo e non si riflette che "ehi, però quella persona è simpatica. Chissà ad averla conosciuta meglio, a farci due chiacchiere al tavolo, magari sorseggiando un bicchiere di una qualsiasi liquido fornito di bollicine o un minimo di gradazione alcolica, o entrambe le cose". Invece capita di vederceli passare davanti fugacemente; e sappiamo benissimo che non potremo mai approfondire il discorso. E rimarremo con il dubbio se quella persona avesse mai potuto essere uno di migliori amici di sempre, o persino l'amore di tutta una vita, o comunque qualcuno/a per cui valeva la pena di spendere una notte insonne, una virile stretta di mano, due risate contagiose, persino una testa appoggiata sulla spalla.

Con il lavoro che faccio, me ne capitano in continuazione.


1- Taciturno.

Non una parola, non un saluto, neanche il minimo cenno del capo a dare assenso su quel che gli sto dicendo: orario colazione, orario check-out, come accedere al wifi... niente. Il buio più totale. Prende la chiave della camera e sale su. Più tardi scende, posa la chiave sul bancone ed esce. Senza dire niente di niente.

Due ore dopo rientra.

Ha con sè un sacchettino dall'inconfondibile colore tipico dell'ambiente calcistico di questa città. Il più bello. Il più caratteristico. E quel simbolo rosso in campo bianco così speciale. Unico.

Gli consegno la chiave. Poi punto l'indice sul sacchetto e faccio apparire un sorrisetto sardonico:

-Ottima scelta-

Si blocca, ma solo per un attimo. Giusto il momento di realizzare. Di comprendere. E di lasciarsi andare alla soddisfazione di essere stato notato. Per un gesto. Un gusto. Un emozione.

-Eh... si... in realtà tifo per un'altra squadra, ma sono sempre stato un simpatizzante. Malgrado tutto. Perchè io sono sempre andato oltre alle stupide rivalità. Vede... non esiste un simbolo più bello-

Scappa per le scale, quasi imbarazzato. Ma io insisto.

-E qual è la sua vera squadra?-

Senza girarsi verso di me, alza l'indice e lo scuote a destra e sinistra.

-Non glielo dico!-

Mi rimarrà un pò di dubbio, ma ho anche il sottile piacere di sapere che neanche 8 o 12 o financo 57 scudetti di fila potranno mai eguagliare il Giglio. Che durerà molto, molto più in là. Anche quando la parola "calcio", su wikipedia, reciterà "finchè è esistito è stato uno sport molto popolare, il più seguito al mondo prima dell'avvento del rollerball".


2- Perchè gli americani sanno essere così simpatici? Perchè portano sempre con sè quell'ironia così speciale e particolare? Non lo so, non me lo so spiegare, ma certuni hanno una spiccata predisposizione per il calore umano.

Coppia cinquantenne, lei con guanciotte rotonde e paffutelle e lui con baffoni allla Tom Selleck, che si presenta al bancone. Mi chiedono un ristorante cinese.

Faccio per prendere una piantina della città, ma decido di cambiare tattica. Uno che conosco direbbe "giocatela alla Zeman".

Sguardo serio, accusatore. Che esprime chiaramente il concetto: sei in Italia e mi chiedi un cinese?????

Capiscono subito. Ridono di gusto. Alzano la mano e, a scusarsi, esclamano:

-Lo so, ma cerca di capire, siamo in Italia da 10 giorni, sempre pasta!-

Non posso dargli torto, sono uno a cui il cinese non è mai dispiaciuto. Ce n'è uno in zona. Uno dove, 19 anni e mezzo fa, ci portai una certa ragazza. Una che ogni tanto incrocio per le stanze di casa e mi lancia dietro le ciabatte.

Ma commetto un errore madornale. E' domenica. E' chiuso. Uno di quei cinesi che è chiuso un giorno della settimana. Sarà perchè è una trattoria cinese storica, una delle prime in città.

Tornano con un'espressione che lì per lì mi spaventa, con lui serio e lei che sembra Anne Wilkes in procinto di rimproverare Paul Sheldon. Ma non appena mi danno la notizia che hanno trovato chiuso e assumo un'espressione di imbarazzo e rincrescimento, si mettono a ridere. Lui se ne viene fuori così, e ve lo scrivo in inglese:

-Strike one!- (che sarebbe un pò come "primo errore") Mi informa che ne ho ancora due, alla terza sono "out", eliminato.

Mi chiedono altre informazioni della città, e a quel punto, se potessi, gli racconterei tutta la storia di Firenze. E sono tranquilli, non se la prendono del mio errore perchè, lo dicono loro, "è parte dell'avventura" (it's part of the adventure, proprio così, letteralmente). Un qualcosa in più da raccontare a figli e nipoti del loro viaggio in Italia: il portiere che sbaglia l'indicazione e loro che girellano per il quartiere fino a trovare un altro posto dove cenare. Una cosa di cui ridere, non da arrabbiarsi, come invece fanno ben altri clienti. Home run per loro.

E tutto ciò mi fa sentire ancora più in colpa, accidenti.


3- Ragazza portoghese con un gran cesto di capelli ricci e la pelle ambrata.

Dico ragazza anche se è quasi quarantenne, ma essendo io ormai alla soglia del mezzo secolo, la vedo come una ragazzetta giovane.

Porta con sè un sorriso a bocca chiusa, leggero e dolce al tempo stesso. Un'espressione serena, quasi paradisiaca. Ma anche un corpo di quelli che fanno voltare lo sguardo a tutti, uomini e donne. Gli uomini per la bellezza, le donne per un pizzico d'invidia.

Poi volano gli schiaffi, ma intanto si sono voltati tutti.

Mi scende la mattina della prevista partenza chiedendomi se ho la camera per un'ulteriore notte. Gli faccio un buon prezzo e mi paga senza battere ciglio. E mi chiede:

-Lei sorride sempre?-

-Solo con chi lo merita-

Mi ripaga mostrandomi due file di denti bianchissimi. Un'immagine che ho ancora davanti a me, se chiudo gli occhi. Se ripenso. Ed è facilissimo.

Ci sono popoli che si sono fatti le guerre, per il sorriso di una donna. Io invece allungo verso di lei il pos e gli pongo la richiesta -Pin e tasto verde, per favore-

Paride e Menelao disapproverebbero duramente. Ma qui dentro comanda lo spirito di Scrooge McDuck.


4-Signora dai capelli arruffati e l'espressione confusa.

-A...avete ancora una camera?-

Con la stessa tonalità drammatica e speranzosa di -Siamo riusciti a pareggiare?-

Cerco inutilmente di calmarla, ma rimane agitatissima, come una gazella che si ritrova improvvisamente in mezzo a un branco di felini predatori. Mi passa la carta di credito, ma non ricorda il pin, e manovra il cellulare alla disperata ricerca del magico numerino.

Le prendo la mano:

-Ha una camera. Per stanotte dorme. Non ci insegue nessuno e qui dentro è al sicuro. Va tutto bene-

Mi fissa negli occhi per un'istante sufficente ad un pasto natalizio, poi mi pone, a bruciapelo, una domanda assurda:

-Lei è sposato?-

-Si-

Fissa rassegnata il pavimento.

-Peccato-

Posso rispondere in un solo modo:

-La prossima volta-

Qualche minuto dopo aver espletato pagamento e le informazioni alberghiero-cittadine, mentre è in ascensore e la porta si sta chiudendo:

-La più bella risposta di sempre-

Ma mi aveva anche posto la domanda giusta. Avesse chiesto -Abbiamo vinto?- non sarebbe stata la stessa cosa.


5- E' tornato.

Persone con cui parli pochi minuti, ma ti sembra di conoscerli da sempre. Di esserne amico dalle elementari. Di aver condiviso nottate a parlare e bere, esultare ed abbracciarsi su una gradinata, suonare e cantare davanti a una tenda e la pallida luce di un lampione da campeggio.

Qualche anno fa postai la storia di questo inglese, più o meno della mia età ma secco secco, con una bella barba curata e capelloni lunghi che sembra appena spuntato da un festival sull'isola di Wight -e non mi stupirei se ci fosse stato veramente- in vacanza in Toscana. Si era portato dietro la chitarra ma, all'aeroporto, aveva scoperto che non poteva passarla come bagaglio a mano, e costretto a pagare 50 sterline come extra nella stiva. All'arrivo in Toscana aveva viaggiato e suonato, ma al momento di rientrare in patria -teoricamente ancora con noi europei- non aveva voglia di sborsare altri soldi per portare indietro uno strumento che gli era costato pure di meno. Così, nell'ultimo albergo del suo soggiorno toscano -proprio qui- ci aveva lasciato la chitarra. Aveva chiesto se qualcuno di noi lavoratori suonava e visto che ero in turno, nonchè l'unico con un passato sulle 6 corde, me l'aveva regalata.

Poi non avevo saputo più niente. Finchè non è tornato.

Me lo trovo una notte, io che sto per iniziare il turno, lui e la moglie che tornano in stanza, ed è tutto un abbraccio. La moglie mi disse che lui rimuginava sempre, ridendo, sulla chitarra. Per tutta la vacanza. Al che gli chiedo perchè non ci avesse scritto, all'arrivo, in modo che gliela avrei fatta avere, ma non ci aveva pensato. Aveva un altro percorso. Poi, per gli ultimi giorni di questa nuova vacanza in Toscana, avevano deciso proprio di tornare a soggiornare qui.

Timidamente, mi chiede:

-Ma ce l'hai ancora?-

Quasi come se avesse paura a richiedermela.

Ovviamente la notte dopo gli ho portato la chitarra. Che ho sempre considerato sua. Che è sempre stata al sicuro, qui a casa mia. Che non aspettava che il suo ritorno. E per qualche giorno ha potuto suonarla, felice come un bambino con il suo primo lego Battlestar Galactica. Magari i vicini di stanza non saranno stati felicissimi, ma lui mi ha sempre assicurato che non la suonava mai la notte. E comunque, chissenefrega. Se uno non è capace di apprezzare la vera musica -quella inglese- è una cattiva persona non merita di dormire serenamente.

Quando vuoi, amico, la chitarra è qui. Magari un giorno sarò io a visitare l'Inghilterra. E riportartela. Chissà.


6- La maggior parte dei clienti è sempre sulle sue, con noi portieri. Non sono chiacchieroni tranne che per lamentarsi dei problemi della camera, che la colazione dovrebbe avere più varietà di briosche, pane fresco, lasagne e tiramisù pure. Perchè in un 3 stelle si pretende un trattamento da ristorante di lusso.

Molti no.

Non esprimono parola, non accennano neanche a un sorriso quando gli si fa il check-in. Quasi neanche sembrano ascoltare le informazioni basilari -l'orario colazione, quello di partenza, le indicazioni dell'hotel e degli Uffizi sulla piantina che forniamo- il niente proprio.

I clienti anonimi, li definisco io. Entrano ed escono che alcuni neanche riescono a esprimere un minimo cenno di saluto. Immagino, credo, penso, per timidezza.

Poi, una mattina, una di queste clienti, una donnina spagnola con un'espressione così anonima ed estranea che passerebbe inosservata anche al raduno mondiale dei venditori porta-a-porta, ci lascia, al momento del check-out, uno dei questionari dell'albergo. Con queste poche righe, in italiano, ma che non riesco a togliermi dalla testa. Perchè di quetionari con belle parole su di noi ne riceviamo molti -senza modestia- ma questo.... beh, ha un suo perchè.


Io mi auguro di trovarne ancora, di persone così. Che li troviate voi. E che voi possiate esserlo per qualcun altro. Una persona speciale senza averla mai conosciuta. Pochi minuti dove si scopre che l'umanità, quando vuole e si impegna, sa essere, come dicevo all'inizio, bella. Persino splendida, in certi casi.

In tempi come questi ne abbiamo un disperato bisogno.


martedì 18 dicembre 2018

Una volta ero uno studente.

Quando si è in questa bellissima condizione il tempo trascorre in maniera diversa, rallentata, con una sequela di emozioni molto più amplificate.

Studiare, per quanto appassionante possa essere per chi ama stare sui libri, comporta molta concentrazione. La mente pulsa dei concetti che si assorbono direttamente dall'inchiosto applicato sulla carta, i neuroni schizzano a completare sequenze logiche, idee, formule, eventi. Tutto quel che ne consegue.

Ma lo studente ha anche un grande vantaggio: il tempo.

Lo studente ha il 100% del tempo serale dedicato allo scazzo. Dal lunedì all'altro lunedì, senza soluzione di continuità, quel tempo gli appartiene. E' solo ed esclusivamente suo.

Il mio modo di impiegare quel tempo era giocare.

Io giocavo tutte le sere: due volte a settimana con i guanti a esercitare il mio ruolo di portiere nei piccoli e sacri templi calcistici in erba sintetica; ad adorare, e praticare, il supremo dio pallone. Prima ancora di diventare portiere d'albergo, ero un portiere di calcio a 5.

Ma tutti gli altri giorni erano dedicati al gioco da tavolo.

E a quei tempi, due decadi fa, esistevano solo due tipi giochi: quello di ruolo e quello di guerra.

Sui primi posso dire di averli provati tutti, a cominciare dal Dungeons & Dragons del mai abbastanza compianto Gygax. Ci manchi tanto, Gary. Ma devo ammettere che poi provai anche Vampiri, Mage e tutto il cucuzzaro della WhiteWolf.

Passai, per un breve periodo, anche per le carte di Magic. Quando uscirono fu un colpo di fulmine totale. Conobbi dei ragazzi con cui mi spostavo per la penisola giocando ossessivamente, partecipando a svariati tornei. Ne vinsi pure uno, a Livorno. Credo fosse il '95.

Poi trovai il mio amore. Quello definitivo. Totale. Unico.

La strategia.

L'unico e il solo: World in Flames. Creato da Harry Rowland, un australiano, è il classico gioco con le mappe piene di esagoni e pedine che rappresentano tutte le forze che parteciparono al secondo conflitto mondiale.

Eravamo in 6, a giocarlo. 6 matti che si sfidavano a colpi di dadi nei combattimenti, dove il fulcro erano sempre il Barbarossa (l'attacco tedesco alla Russia) e gli scontri di flotte nel Pacifico. E possiamo dire, dopo dozzine di partite, di aver manovrato tutte le potenze possibili.

Tra cui l'Italietta fascista.

World in Flames è uno di quei pochi giochi sulla IIGM dove l'Italia non è una semplice appendice della Germania, ma una nazione a sè stante. Con le sue unità e la sua indipendenza di movimento.

Intendiamoci, non è che sia tutta questa gran potenza. Sostanzialmente ha una discreta flotta, un pò d'aviazione e una ribongia di fanteria dalla scarsità imbarazzante. Soprattutto, produce pochissimo.

Le fortune dell'Italia, in World in Flames ma anche in altri giochi simili, dipendono essenzialmente da due fattori: a) se l'alleato tedesco presta qualche unità (meglio se dei caccia e una divisione di carri) da impiegare in Libia e b) da quanto l'inglese decide di impegnarcisi contro piuttosto che picchiare su tedesco o giapponese.

A una di queste partite manovravo proprio l'Italia. Il giocatore inglese, sottovalutando l'italiano (o forse sottovalutando Marcello, il che ha molto senso) decise di non concentrare gli sforzi in Mediterraneo. E ci portò poche unità.

Colsi la palla al balzo: dichiarazione di guerra, flotta italiana che esce nel Mediterraneo orientale in gran forze e sbarco della divisione di marina (i famosi marò) a Port Said. Chiusi il canale di Suez proprio quando l'inglese aveva quasi tutte le sue navi nell'Oceano Indiano, a contrastare la flotta imperiale nipponica.

Mi ersi in piedi su una sedia, pugni sui fianchi e mascellone fiero. In quel momento nacque la leggenda di benito marcellini.

Tengo a precisare: sono sempre stato di sinistra. Ma quando si gioca, un pò di "ruolo" ci sta tutto. Insomma, stavo manovrando l'Italia, e sappiamo bene com'era il nostro paese a quei tempi, con tutta la sua retorica drammaticamente patetica, l'esaltazione nazionalistica a uso e consumo di un ristretto ed esaltato gruppo di persone, la cialtroneria di chi pensa di poter battere con facilità contadini greci dimostratisi invece molto agguerriti (figuriamoci poi inglesi, russi e americani) e soprattutto, come avvenne storicamente, sconfitte su sconfitte. Subito dopo quest'effimera vittoria, benchè culminata con la presa dell'Egitto, il giocatore inglese decise che Marcello aveva avuto il suo effimero momento di gloria: portò subito nuove unità, e in breve mi sloggiò dall'Africa. Successivamente entrò in guerra l'americano, e a nulla valsero le mie suppliche verso il tedesco, affinchè mi prestasse panzer e messerschmidt: tutto preso dal battersi in Russia non mi degnò di un bel niente, gli alleati sbarcarono in Italia e benito marcellini penzolò.

Poi è arrivato il lavoro d'albergo. E anche i miei amici hanno cominciato a lavorare. Impieghi diversi dal mio, ma sempre qualcosa di impegnativo che toglie tempo prezioso all'attività ludica. Per non parlare delle famiglie, che iniziano con esseri di sesso femminile che "visto che il fine settimana lavori, mercoledì mi porti al cine", e sono incapaci di comprendere il concetto di "attacco sulla tabella della blitzkrieg perchè ho i carri"; senza contare che dopo, a giro per casa, si muovono anche nannette/i desiderosi di attenzioni e cure. Perchè questo tipo di giochi non si fanno in una sola serata. Occorrono lo spazio per tenere le mappe con le pedine sopra (quindi un luogo esclusivo e dedicato all'uopo, lontano dalle ingerenze dei figli e/o animali domestici) e soprattutto più e più sessioni di gioco (dalle 21 alle 24 circa), e trovarsi una volta a settimana con le stesse persone per riprendere da dove avevamo interrotto. Solo l'intero fronte russo possono essere un centinaio di pedine (per parte). E se uno di noi non può per impegni lavorativi o familiari, giocare con assiduità diventa un problema. Per me, con il lavoro che ho, è praticamente impossibile. Se sono di pomeriggio, finisco il turno al bancone alle 23. A sessione di gioco quasi finita. Se sono di notte, comincio alle 23. E esco di casa alle 22.15.

Così mi sono ridotto ai giochi da tavolo, che si fanno in due ore. Quando sono libero vado da un amico che vive paurosamente vicino casa mia e organizza partite (collabora anche a una rivista on line: Ilsa magazine). Ci va chi c'è e può (io molto poco), e si passano un paio d'ore a giochi da tavolo vari. Roba, appunto, che non dura mesi, ma molto meno. Al limite pure una mezz'ora, se si tratta di un "filler", cioè un gioco "riempitivo". Però vabbene lo stesso. Mi sono pure messo a progettarli, i giochi da tavolo. Con scarsissimi risultati, visto che i miei prototipi si ostinano a non funzionare. Sono stato pure all'ultimo Lucca Games, a far vedere uno di questi tentativi di creazione di un gioco a due autori famosi. Che l'hanno, ovviamente, cassato. E' penoso, cambia qualcosa. Tipo il 90%.

Già, Lucca games. Trent'anni fa, era tutto diverso.

Inanzitutto non c'erano ancora i cosplay, cioè quegli allegri mattacchioni che si travestono come i protagonisti di manga giapponesi o filmoni hollywoodiani e che, così agghindati, vanno a giro per la cittadina. Anzi, la manifestazione non prendeva neanche tutta la città, ma solo due tendoni piazzati fuori dalle mura: uno per il comics e uno per il games. E nemmeno tanto grandi, a dire il vero.

Ancora preda del triplo stato di studente, single e disoccupato, mi accingo, una bella domenica, ad andarci. Arrivo, prendo un biglietto da una fila non eccessiva e, dopo una breve e fugace occhiata al comics, mi avventuro nel regno del games, dove ancora dominano i giochi di ruolo e la strategia.

Mi siedo a un meraviglioso e stupefacente tavolo verde, con collinette artificiali, alberelli, casette. Da un paio di scatole accanto noto spuntare soldatini e carri ottimamente pitturati. Un bel tattico, un gioco dove la singola unità non è un'intera divisione ma proprio il singolo carro o il singolo plotone di fanteria. Ogni tanto ci vuole anche questo.

Il dimostratore, un tipo alto e secco allampanato con il pizzetto, mi accoglie con il sorriso e l'entusiasmo scalpitante di chiunque tenga a dimostrare un gioco che contempli manovre tattico-guerriere. Muove, da una mano all'altra e manco fosse una palla da basket e fossimo su un parquet, un foglio plastificato stracolmo di tabelle di combattimento. Mi chiede di attendere per vedere se arrivano altri aspiranti giocatori. Dopo un pò si avvicina un ragazzetto con un gran cesto di capelli, e anche lui si siede ad aspettare ulteriori potenziali giocatori.

Se ne presentano due.

Uno è talmente insignificante che neanche lo ricordo. Non pronunciò una singola parola, non lanciò mai neanche il dado. Se ne stava lì seduto in disparte, testa china, a osservare il suo amico. Curioso soprammobile portatile del primo elemento, maschio alfa della situazione.

Entrambi completamente paludati di nero e con la testa rasata.

Non salutano, non sorridono, non chiedono nient'altro se non un "che è 'sta roba?" con una sgarbatezza che sto quasi per dirgli che "il bar è laggiù, buona giornata", ma sono preceduto dal dimostratore che, dopo un pò di sconcerto iniziale, non si perde d'animo e comincia a spiegare: scontro tattico tra russi e tedeschi, io vi spiego le regole e voi giocate.

Il nero guarda con disprezzo quello con il cesto di capelli, che neanche lo considera, e sta piuttosto piazzando un panzer davanti a sè, poi volge lo sguardo al dimostratore e se ne esce, sibilando: "Io, i comunisti, non li voglio. Dammi i tedeschi"

Io e cesto di capelli ci osserviamo, e sento benissimo i suoi occhi dirmi "sono due cazzoni". Li conosce già. Ma ora sono lì a giocare, non mi va di farmi coinvolgere dalle dispute politiche lucchesi. Alzo le spalle. Per me giocare non è mai stata una questione politica, e i veri giocatori non si fanno problemi a manovrare solo una parte e non l'altra perchè sono i "cattivi". Si gioca, punto. Mi alzo. Cesto di capelli mi segue. Giriamo il tavolo e ci mettiamo dove sono le unità russe. I due skinheads si mettono dove stavamo noi.

Il dimostratore evita abilmente qualsiasi discussione possibile partendo subito con le spiegazioni del gioco, in realtà molto semplice. Il solito schema dei tattici: A muove, B spara. A spara, B muove. Poi ci sono le azioni speciali, tipo ricaricare. Dopo si inverte l'ordine di turno. Il movimento si fa sulla mappa con un righello. La fanteria si muove, chiaramente, meno dei mezzi meccanizzati. I quali hanno molto più movimento su strada che in campo aperto.

Lo scopo del gioco è chiaro: i russi devono prendere il villaggio prima del 5° turno, quando arrivano, dal fondo del tavolo, 3 carri Tigre tedeschi. I russi iniziano con un bel pò di T-34, i tedeschi solo due panzer IV e fanteria con pezzi anticarro. In pratica: noi dobbiamo andare all'assalto, loro sono sulla difensiva e devono resistere prima dell'arrivo dei rinforzi.

Prepariamo segretamente il set-up, e cesto di capelli dimostra di saperci fare: dividiamo in due le forze, lui attacca dal campo aperto, passando davanti alla collinetta, io faccio la strada. Più lunga ma più veloce, e diretta al centro del villaggio

Testa rasata numero 1 posiziona la fanteria crucca sulla collinetta.

Il dimostratore accenna alla possibilità di cambiare: la difesa migliore è nel villaggio. Dietro le case, la fanteria può tenere la posizione assaltando i carri russi che entrano. Ci sono vari posti dove piazzare i pezzi anticarro e i due panzer. Pezzi di casetta diroccata che mani delicate hanno dipinto con tanto di muro annerito dal fuoco, altri alberi lungo la strada... non c'era che l'imbarazzo della scelta.

-Io gioco come mi pare!- E' la laconica risposta.

Il dimostratore alza le spalle. Tanto peggio per loro. Cominciamo il gioco. E, come previsto, la fanteria tedesca, sulla collinetta, non viene considerata minimamente. Per colpirci, sparando da lassù, dovrebbe fare un 20 perchè, righello alla mano, è troppo distante. Poichè l'obbiettivo è prendere il villaggio, ignoriamo la fanteria nemica. Io mando i miei carri lungo la strada, cesto di capelli per la campagna, aggirando da due lati la collinetta.

I nostri avversari -in realtà solo uno, l'altro continua a non pronunciare una parola, non ci osserva neanche- spara con i suoi due carri contro di noi. Colpisce uno dei nostri T-34, che quindi risulta distrutto. Ma neanche il tempo di esultare -per gli avversari- che entro nel villaggio con i miei carri. Per mancare i panzer nemici dovrei fare solo 1, 2 o 3 lanciando il dado da 20, mentre con tutti gli altri risultati centro il bersaglio perchè la distanza è ridottissima. E sparo con 3 carri, quindi lancio 3 dadi. Faccio centro tutte e 3 le volte. Praticamente lo polverizzo.

Lo skinhead lucchese accenna alla possibilità di far scendere la fanteria dalla collinetta e assaltare il villaggio, ma il dimostratore lo deride: -Fammi capire: ci sono ben 5 carri posizionati dentro ai ruderi di un villaggio con cannoni da 76 mm e mitragliatrici, e tu vuoi lanciarci contro, in campo aperto, la fanteria?-

-Ma... sono i tedeschi...-

-Anche i tedeschi si arrendevano, quando la situazione era disperata! Questo è un viaggettino in Siberia, sola andata-

A questa risposta quello rimane così, a bocca aperta. Poi si alza, da un colpo a un paio di alberelli di plastica facendoli cadere e sibila, sprezzante:

-Che gioco di merda!-

E se ne va, seguito dal fedele cagnolino.

-Ma chi diamine erano?- Chiediamo io e il dimostratore, all'unisono.

-Mi spiace- risponde il ragazzetto con cui avevo appena condiviso questa schiacciante vittoria -A Lucca abbiamo anche di questa gente-

-Beh, gli hai appena fatto un c... così!-

-Ed è una grande soddisfazione, credimi-

Ci comprammo entrambi il regolamento del gioco, appena 10.000 lire. Un ciclostile vecchia maniera con ogni possibile scenario: legioni romane, milizie medievali, napoleonici, guerra civile americana e, ovviamente, il secondo conflitto mondiale. I modellini no, quelli ci si dovevamo comprare, e dipingere, per conto nostro. Ma non sono mai stato un appassionato pitturatore di miniature.

World in Flames rimane il mio amore. Difatti ho comprato la nuova edizione. Che mi è costata metà di una rata del mutuo, ma valeva assolutamente la pena.

Lo so, non ho il tempo e lo spazio per giocarlo ma dovevo assolutamente averlo.

Il ludomaniaco (da non confondere con ludopatico) non sente ragioni. Mai.

A parte, ovviamente, il turno di notte. Lui ha ragione sempre.