giovedì 26 dicembre 2019

Questa non è una vicenda dell'albergo. 

Ma comincia una mattina, dal mio rientro a casa dopo un turno di notte.

Perchè, salutate le donne di casa, mie signore e padrone, che partono per i rispettivi luoghi di lavoro e studio, mi metto a domire commettendo un fatale errore: lasciare socchiusa la porta di camera.

E non passano pochi secondi, dal mio rannicchiarmi al calduccio sotto le coperte, devastato dalla stanchezza e in rapidissimo approccio al sonno del giusto, che sento saltarmi sopra, sbucato da sotto il letto, l'essere malefico. Il mio nuovo nemico mortale. Il mostro peloso.

Si chiama Ray.

Preparatevi un caffeino. E' lunga.

 

A parte un paio di pesci rossi, di cui peraltro ho tenerissimi ricordi, non ho mai avuto altri animali domestici.

Mio padre, da cacciatore toscano, avrebbe sempre desiderato un cane, ma nel minuscolo appartamento fiorentino non avevamo spazio per un 4 zampe desideroso di corse frenetiche e liberatori latrati. Perfetti in ambito venatorio, come è possibile in un bosco, ad esempio. Quella che, in montagna, è della "Canizza". Ma totalmente fuori luogo nella giungla di cemento.

La Sara, quando stava con i suoi a Pistoia, aveva Mao. Una gatta. Per qualche giorno questo astruso esemplare di mammifero venne anche a casa nostra, quando i miei suoceri dovevano assentarsi per qualche giorno dalla Toscana. Ovviamente, prima che ci venisse l'assurda idea di circondarci di bambine -e mettermi così in totale ed eterna minoranza- mi toccava di tenere la sala giochi totalmente sigillata; perchè quella che sarebbe diventata la camera delle ragazze era, all'epoca gioiosa della convivenza, la "war room" dove tenevo apparecchiati i tavoli per World in Flames, con le mappe strapiene delle pedine necessarie a riprodurre la guerra mondiale. Non potevo assolutamente permettere che questo essere gattoso saltasse sulle mappe e scombinasse l'intero fronte russo (possono essere 200 pedine. Per parte).

La nascita della Camilla mi fece capire che, per quanto riguarda i giochi "campagna", avrei giocato in un altro momento. Tipo mai.

Quindi volevo evitare di tenere un animale domestico a cui si è costretti a pulire il cesso, come già dai tempi degli antichi egizi. I quali, e per me rimane un mistero assoluto, li idolatravano. Io sono più medievalista: lo gatto est lo simbolo de lo demonio.

Poi è arrivata l'estate.

Per evitare la devastante canicola fiorentina, Camilla e Gaia vanno a trascorrere un mese dai miei a Cetica, ridente villaggio sui monti del Pratomagno, 60 chilometri da Firenze. Già feudo dei Conti Guidi, il partito Comunista vi prendeva il 96% (beccati questo, Reggio Emilia), è leader mondiale nella produzione di farina di castagne e alcuni dei suoi abitanti potrebbero rivaleggiare, in quanto a grettezza, coi bifolchi di "un tranquillo weekend di paura". Ma d'estate è una meraviglia.

Le ragazze, fin dalla tenerissima età, hanno l'abitudine alla passeggiata verso l'ovile di mio zio -niente ha devastato le giovani menti italiche degli anime nipponici sulle dolci montanare svizzere- sennonchè odono un flebile miagolio provenire dal fienile.

E ci trovano questo mostriciattolo.

Sporco, incapace di muoversi e con un occhio chiaramente infetto e gonfio come una biglia. Appare evidente che la madre, constatato che era troppo debole, avesse deciso di abbandonarlo per dedicarsi ai cuccioli forti e con maggiori probabilità di sopravvivenza. La natura può essere tremendamente crudele. E i miei zii e cugini non ci badano molto: in campagna la preferenza è sempre verso ovini, leporidi e gallinacei.

Le ragazze decidono di portare il mostriciattolo a casa. La nonna paterna provvede con acqua borica per pulirlo bene e disinfettarlo, oltre ad latte in polvere per gatti e siringa per alimentarlo. Vista la sua cecità, la Sara -e chi altri?- lo battezza Ray. Lui decide di resettare il sistema: "insert coin" e riparte con una delle tante vite gattesche. A dispetto del nome, recupera la vista da un occhio e gli si sgonfia quello infetto, benchè probabilmente non ci veda in maniera chiara, tutt'ora opaco.

Malgrado le mie vivaci proteste, la serrata violenta modello gilet giallo -ho gettato una cartaccia per terra- aver sbattuto i piedi e trattenuto il fiato forte forte forte, Ray è stato portato a Firenze.

Superfluo dire che tra me e lui è guerra.

A parte il monopolio delle attenzioni, che già in questa casa mi poneva al quarto posto e ora relegato al quinto, fuori anche dall'Europa League come la Fiorentina (sigh), con lui nel mezzo non riesco a fare niente.

Devo pulire, e lui mi saltella intorno dando zampate al cencio e pesticciando allegramente il pavimento bagnato. Monta su qualsiasi cosa alta come prima di lui facevano i professori di letteratura quando dovevano vedere le cose da un'altra prospettiva. Rimetto a posto la biancheria nei cassetti, e lui si infila dentro. Devo caricare la lavatrice, e lui salta nell'oblò a curiosare, manco fosse un lander della Nasa, un giorno ce lo chiudo e faccio partire la centrifuga.

Soprattutto, mi ha preso di mira.

La mia grande passione è, quando ho qualche minuto di riposo, la lettura. E quindi mi appoggio sul letto, cuscini dietro la testa, copertina sulle gambe e libro. Finalmente solo, dedito alla mia grande, unica, vera passione: leggere. Che sia un tomo storico di 700 pagine, o un romanzucolo svedese colmo di gente che muore malissimo, o il regolamento di un gioco da tavolo, io devo leggere.

Ma arriva lui.

E salta su. Proprio sui preziosi, benchè orami usati e quindi in teoria definitivamente inutili, "gioielli di famiglia".

E poi mi costringe a carezzarlo. Mi arriva proprio sotto al naso pretendendo le mie mani e producendo quello strano suono da "c'è un rumorino che proviene dal motore, portiamo l'auto a fare la revisione o è meglio se la rottamiamo?". Ma lui non posso rottamarlo, mi è impedito. E le carezze sono un pretesto per distrarmi, tenermi occupato, impedirmi il giusto relax. Vuole portarmi allo sfinimento, li sento i suoi miagolii, fuori dalla porta, quando devo dormire dopo il turno di notte. Egli è il mio nemico mortale. Ma non vincerà. Resistenza.

Al di là di questa eterna lotta tra me e Ray, non posso non essere profondamente contento delle cure applicate dalle ragazze e del suo salvataggio da morte certa. Volendo è un pò una piccola storia di Natale, benchè avvenuta in estate. A 6 mesi d'età, il mostriciattolo è più che mai vivo e vegeto: salta sui miei preziosissimi vinili e ha preso possesso di tutto, soprattutto le copertine del divano, che mi erano tanto care.

Ma non posso dimenticare la frase, pronunciata in questa casa pochi giorni fa, che affermava come "Dobbiamo fare il regalo di Natale a Ray. Ah, e poi, se proprio dobbiamo, anche a babbo". Sento quasi la mancanza degli indiani che scendono dalla camera reclamando "hot uotaaa".

Se continua così, credo che riscoprirò la cucina vicentina.
 




martedì 17 dicembre 2019

Lee Marvin.

Uguale, spiccicato. Stesso muso allungato, stesse guance scavate. Sembra in tutto e per tutto l'attore, preso pari pari da filmoni di guerra come il Grande Uno Rosso e portato nella Firenze attuale. Mi aspetto quasi che entri anche il vecchio Duke.

Bella espressione sorridente e serena, sia lui che la moglie, coppia 70enne.

Arrivano per il check-in, e, come sempre in questi casi, gli chiedo i passaporti per la registrazione.

Mi dà, invece, la carta di credito.

Questi clienti così svagati, con la testa perennemente tra le nuvole, sono fantastici, e lo dico senza ironia. Sono i migliori, i più sereni. I più rilassati.

Pazientemente, con un bel sorrisone, gli spiego che la camera l'hanno già pagata in fase di prenotazione, e non ho bisogno della carta di credito. Mi devono solo dare i passaporti per la registrazione.

Apro i documenti.

Adoro la scritta che leggo sulla pagina accanto a quella dei dati. Dice tutto sulla determinazione di un popolo, sulla loro volontà di libertà ed indipendenza.

We, the people.

Registro e gli chiedo di firmare la normativa della privacy. Che per loro può essere chissà cosa, ma neanche ci badano. Sorridono e si lanciano sguardi d'intesa che m'aspetto esca fuori Frank Capra a dire "Stop, buona la prima". Poi gli do' una piantina della città a cui fornisco le dovute spiegazioni su dove ci troviamo e dove si trovano tutti i monumenti e musei principali.

Mi ascoltano adoranti. Non mi interrompono neanche un secondo, e li tengo lì per un buon quarto d'ora. La maggior parte dei clienti non ci sta, non ha questa pazienza. Mi interrompe in continuazione con domande sciocche o banali tipo "avete il wifi" o "dov'è il centro commerciale". Loro no, loro ascoltano. Soprattutto dove si trovano gli Uffizi. Come fare ad arrivarci.

Agli americani, quando sono così, perdono tutto. Pure l'adesione al GOP e l'aver eletto presidente palla di lardo.

Salgono in camera e ne escono dopo 10 minuti per andare agli Uffizi, ma non fanno a tempo ad uscire che mi richiedono la chiave.

Lei gli dice: -Il golfino è rimasto nella mia valigia-

E lui schizza su per le scale per andare a prendergli il golfino.

Ha più di 70 anni e sale gli scalini a tre a tre. Se ci provo io, mi ritrovo al cto di Careggi.

La signora mi guarda con l'espressione felice della Hepburn quando entra da Tiffany. Si accorge di essere osservata e mi dice: -Così tanti anni ed è ancora così gentile con me. Mi fa sentire sempre come una regina-

E quando lui scende, lei lo bacia ed escono, mano nella mano.

We, the people. Ma per qualcuno vale ancora il God save the Queen.

Una queen tutta sua. Unica. Personale. 

Questo lavoro, a volte, ha un che di poetico.

giovedì 21 novembre 2019

Coppia francese, sui 40.

Alti, distinti, portamento signorile.

Alain Delon e Catherine Denevue a braccetto. Lavorare ad un bancone di un ricevimento alberghiero, a volte, rende mille volte meglio di un qualsiasi 3D.

Intendiamoci: non somigliavano per niente a loro, ma lo sguardo era uguale spiccicato: quell'espressione severa e passionale al tempo stesso, e che rivedi solo in una Marianne che guida i rivoltosi alla Bastiglia, un Bonaparte alla testa delle sue truppe, un De Gaulle che parla ai suoi concittadini da radio Londra e, appunto, i due attori in uno qualsiasi dei loro film. Ben vestiti e curati, che pensi siano lì per sbaglio, e la loro vera destinazione sia il Savoy in piazza della Repubblica, piuttosto che non un semplice 3 stelle nei pressi della Stazione. Pulito e dignitoso quanto si vuole, ma non un superlusso. E non avevano neanche una gran camera.

Ma a loro non importava. Si presentarono al bancone con un accuratissimo e dettagliato programma della loro tanto bramata vacanza toscana: un giorno intero dedicato a Siena ed il Chianti, un altro per Fiesole o Pisa, un altro per quell'altra cittadina... praticamente ogni angolo della Toscana. Un foglio a4 completamente riempito di scritte a penna con un carattere che anche una formica avrebbe faticato a decifrare, un particolare spiccava su tutti: un intero giorno dedicato ai principali musei fiorentini: gli Uffizi e l'Accademia.

Un giorno che noi italiani avevamo completamente dedicato ad uno degli sport nazionali, di cui siamo campioni mondiali.

Lo sciopero.

Come pronuncio la parola “Greve” (e non si riferisce al paesino del Chianti, ma al termine d'oltralpe per sciopero, che si pronuncia senza la e finale) il francese prima strabuzza gli occhi, poi se ne esce con una serie di “merde” che non si sentivano echeggiare sul pianeta dalla vittoria di Bartali sull'Izoard.

Parte in quarta con una serie di improperi verso di “noi”. Un anno intero a programmare questa tanto desiderata visita e “noi” scioperiamo.

E mentre è lì che si incazza come la classica iena a cui viene portata via la carcassa da sgranocchiare, lei gli tocca la mano.E lui si blocca.

E lei lo guarda, negli occhi.

Un phaser settato alla massima potenza non riuscirebbe a fondere l'acciaio meglio di quello sguardo.

-Ecoute moi, ascoltami. Siamo in vacanza. Sei qui con me. Ensamble. C'est pas grave, non è poi così importante-

Per qualche secondo magico, irreale, impossibile da descrivere, in quella hall alberghiera non si sentì volare la classica mosca. Il telefono dell'albergo non squillò. Non entrò, o scese dalle scale, nessun cliente. Nessuna auto passò davanti all'ingresso. C'erano solo lui e lei che si fissavano negli occhi, di quegli sguardi che si capiscono senza parlare, per un'intera vita. Un'eternità di silenzi complici, di comprensioni che solo le vere coppie hanno, e la Piaf che canta in sottofondo.

Ed io lì, con le pupille che voltano prima su di lei, poi lui, poi di nuovo lei.

Spettatore unico di un film che mai nessun altro avrà mai il privilegio di vedere.

Poi il momento magico ha termine, e si passa alla farsa da commediola con Depardieu; lui volta lo sguardo nuovamente verso il portiere e, alzando le spalle, pronuncia un “C'est la vie”. Ma purtroppo rovina tutto cominciando con un “Mais ce n'est pas possible” mentre sbuffa come un mantice, con quella boriosità così antipatica, quel voler a tutti i costi insegnare a noialtri come si vive e ci si comporta, antipatici cugini d'oltralpe, abbozzatela con questa prosopopea, ricordatevi di Berlino e di chi ha alzato la coppa, ed abbassate un po' la cresta di galletti spennati.

Vieni a me a dire che non è possibile? Io ci vivo qui; queste situazioni me le trovo tutti i giorni, bello. E non sono musei: sono scuole, mezzi pubblici, servizi ... Eh, dici bene te “Il faut changer...” a parole, tutti hanno cambiato tutto. Della dozzina di governi che abbiamo avuto negli ultimi vent'anni, il nuovo è già arrivato più e più volte. E non voglio pensare a quello che sta per arrivare, se una certa "bestia" dovesse vincere future elezioni: la merda totale e assoluta. In mezzo a connazionali egoisti a cui non importa niente del prossimo.

Allora intervenne nuovamente lei, che con una voce dolce e suadente in grado di ocnquistarmi lì, all'istante, dice che comunque sono in vacanza e vogliono stare bene, e mi chiede un posto per mangiare.

E poi dicono che siamo noi italiani, quelli che si godono la vita.

Quando rientrarono erano mano nella mano, con quel sorriso che hanno solo le coppie serene e felici, e dopo avermi chiesto la chiave, lui mi guarda e mi fa:

“Florence est magnifique. Bravò”

Bravò, come se fosse merito mio, di essere nato e cresciuto qui.

E mentre se ne salgono in camera, sempre mano nella mano, e sguardo fisso l'uno nell'altra in ascensore, penso che quando sono così, io li adoro, i francesi.

martedì 5 novembre 2019

Non so da dove cominciare, in questa vicenda. Quindi inizierò dalla parte più semplice e banale, per un portiere d'albergo: il check-in.

E' una tripla dall'isoletta che non si decide a staccarsi dall'Europa: nonna settantenne arzilla e scattante, figlia 45 enne dall'aspetto decisamente anonimo e sullo sciatto andante e ragazzino di 9 anni dall'espressione dolcissima e tenera. A cui piace parlare. Quello a cui dò le chiavi e le spiegazioni sulla mappa della città, a cui madre e nonna sembrano decisamente meno interessate. Perchè cercano ben altro, che non i monumenti fiorentini.

Il giorno dopo ho il turno di notte. Mezzanotte passata e, dalla cima delle scale, si palesa il ragazzino.

-Mia nonna è caduta. Sta male-

In un nanosecondo ho già chiuso il portone d'ingresso e sto correndo su per le scale, alle calcagna del piccolo inglese. Entro in camera e trovo la nonna distesa a terra. Bocca aperta, occhi chiusi, un rivolo violaceo sulla guancia. Dire che m'è preso male è poco. Temevo davvero il peggio. Tocco il collo della donna con due dita e sento il battito. Respira anche.

La figlia è davanti a lei con sguardo inebetito. Pronuncia improperi irriferibili, esortando la madre ad alzarsi. Mi rendo conto che è totalmente fuori di testa. L'unico sano sembra il ragazzino. Gli dico che la signora non deve assolutamente rialzarsi e muoversi. Quindi mi attacco al telefono e chiamo il 118. L'operatrice mi ordina di controllare che resipiri e far si che stia ferma nel caso si riprendesse. Cosa non facile da effettuare perchè devo tornare alla reception.

In pochi secondi arrivano i paramedici, auto e ambulanza. Salgono in camera. Una decina di minuti e scendono con la vecchia, che pare abbia ripreso conoscenza. L'hanno messa su una sedia apposita da usare per l'ascensore e poi, una volta nella hall, la poggiano sulla lettiga.

Durante questa operazione la paramedica mi chiede i dati della signora. Sono così agitato che gli dò quelli della figlia, la quale è lì e mi corregge. Mi rendo conto che, se poco prima ero lucido e fermo, con l'arrivo dei paramedici ho cominciato a tremare come una foglia.

Chiedo alla paramedica cosa ha avuto la signora, e lei se ne esce con un laconico -Niente che si possa riferire- che lì per lì non capisco. Il ragazzino invece, ancora spaventato ma lucido, mi chiede se cose del genere sono già successe. E a me viene da dare una risposta stupidissima e pure sbagliata -A me no, non era mai successo- di notte no, ma di giorno eccome.

La paramedica dice che se vogliono, figlia e nipote possono andare in ambulanza con la vecchia, e glielo traduco. Ovviamente accettano. Salgono su e vanno a Santa Maria Nuova, proprio qui dietro.

Un pò mi tranqullizzo, perchè ora la donna è sotto il controllo di professionisti della salute, ma una certa inquietudine resta. Solo che poi arriva una telefonata. Da un numero fisso. Uno 055.

-La chiamo dal pronto soccorso. Lo sa chi ci ha mandato lei?-

La domanda mi lascia interdetto. Io mandato chi? Cosa?

-Ma... perchè?-

-Perchè le signore sono ubriache-

Rimango così, a bocca aperta. Forse costei pensa che glielo abbia venduto io, il vino.

-Le donne hanno un minore. Adesso io che faccio? Chiamo la forza pubblica?-

Rimango basito.

-Allora? Che devo fare? Chiamo la polizia affinchè porti via il ragazzo alla madre ubriaca?-

-Va bene, la chiami-

Adesso è il suo turno di rimanere zitta. Ma poi riprende, più veemente di prima.

-Ma si rende conto che le donne sono ubriache e hanno con sè un ragazzino?-

-Senta, io sono un portiere. La paramedica mi ha detto che la figlia della donna e il nipote potevano andare con lei in ambulanza. Glielo ho riferito in inglese e queste sono salite sul mezzo. Dovevo impedirglielo? Ho in struttura una persona che sta male e chiamo voi, che altro posso fare? Non sono il loro tutore. Se bevono avendo con sè un ragazzo di 9 anni che posso farci? Da qualche parte l'hanno comprato perchè io di sicuro non lo vendo-

-E ora, di questi due, che ne faccio?-

-Li metta su un taxi e me li rimandi-

E così madre e figlio sono tornati in taxi. Ma rimane il mio stupore per la chiamata dell'addetta del pronto soccorso. Adesso è vietato chiamare l'ambulanza per gli ubriachi? Lasciamo che muoiano così imparano ad andare in coma etilico? Se non hai voglia di fare la paramedica e assistere a queste cose, cambia mestiere, diamine! Anche a me hanno dato fastidio due donne che si ubriacano avendo con sè un ragazzo di 9 anni, ma che posso farci? Chiamala dunque, questa forza pubblica con gli assistenti sociali.

La vecchia si riprese e il giorno dopo tornò in albergo. Ma i colleghi mi riferirono che sia lei che la figlia continuavano a darci dentro di rosso.

Una situazione a dir poco triste. Che lascia noi portieri interdetti. Che fare? Non certo fregarcene, perchè abbiamo delle responsabilità. Purtroppo non possiamo fare molto altro. Ma il ragazzo non veniva certo picchiato o costretto a bere. Li vedevo, dei gesti d'affetto tra lui e le due donne. Non era certo una situazione estrema. Penosa, si.

Ma se tu, addetta al pronto soccorso, non ha più voglia di vedere scene del genere -e sono sicuro ne vedi più di me portiere d'albergo- credo ti convenga cercarti un altro lavoro. O, in subordine, non chiamare me incolpandomi delle situazioni in cui vengono a trovarsi gli altri solo perchè miei clienti.

Che diamine.

sabato 26 ottobre 2019

Facebook mi ricorda una storia di alcuni anni fa.

Una cliente bellissima.

Livia.

3 mesi.

Genitori giovani, poco più di vent'anni, molto carini e simpatici, con spiccato accento romanesco.

Scendono dalla camera con le valigie e posano, sul divano davanti al bancone, l'ovetto con dentro la piccola. Mi consegnano le chiavi della camera e accennano ad andare a portare i bagagli in auto.

Ed escono.

Lasciando lì la piccola Livia.

Con le mie non sarebbe mai successo. La mamma sarebbe stata a guardia mentre il babbo (io) portava i bagagli in auto. Il lavoro faticoso sempre all'uomo. Questi due no. Escono entrambi. E smollano lì la figlia.

Non c'è nessuno in albergo, in quel momento. Uno di quegli strani momenti di calma durante i quali non appare nessuno, nè clienti nè colleghi. Nessuna chiamata telefonica. Siamo solo io e lei. Giro attorno al bancone e mi avvicino.

Livia è sveglia, e mi osserva protetta da quel potentissimo scudo magico capace di alzare di migliaia di punti la classe d'armatura, e che passa anche sotto il nome di "ciuccio".

"Ciao piccolina! Ma lo sai che sei bellissima?"

E lei sorride.

Da dietro il ciuccio, che è trasparente, sorride.

Mi sciolgo come Olaf sotto al cocente sole estivo. In una hall alberghiera, la domenica mattina a Firenze, dopo 42 partenze ed il fisico che comincia a dire "Ci si riposa? Ci si mette un pochino a sedere? Che s'abbozza di sta' in piedi?" mi commuovo a vedere questa bellissima creaturina sorridente. Dovrei saperlo, come funziona.
Non è così. Ogni volta è come la prima volta.

I due genitori non tornano.

Passano 10 minuti buoni, e, giuro, non tornano.

"Senti, io, se babbo e mamma non vengono a riprenderti, ti porto a casa. Avrai due sorelle maggiori dolcissime, che ti faranno giocare a tanti bei giochi divertenti. Ti vestiranno da principessina. Ci vieni a casa mia? Ti ci porto, eh"

E lei sorride. E m'immagino già mia moglie che "Ora la riporti dove l'hai trovata!" "ma mi ha seguito fin qui..." "Te lo scordi se pensi che io ricominci con pappette e pannolini!"

Ma io tengo duro, Livia resta con noi.

Invece, anche se dopo ben 10 minuti 10, i genitori tornano a riprendersela. Mi ero ormai convinto di potermela tenere, che costoro se ne fossero tornati a Roma dimenticandosela completamente. La gente, in albergo, dimentica veramente di tutto. Anche se questa sarebbe stata davvero una dimenticanza storica. Per fortuna, Livia era nei loro pensieri. Avevano solo difficoltà nel ripiegare il passeggino e profonda stima a fiducia nel portiere. Fiducia, posso assicurare, assolutamente ben riposta.

Ma per quei 10 minuti è stata tutta mia. Per quei 10 minuti, insieme a Sara, Camilla e Gaia, c'era anche Livia.

"I am your father" anche se per pochi minuti. O come si dice qui a Firenze: "Sono i'tu babbo"

domenica 13 ottobre 2019

Metodi motivazionali per portieri d'albergo.
Perchè capitano giorni in cui vorresti ucciderli tutti, ma non puoi farlo.
(E' nel retro di un pannello che pubblicizza il bar dell'albergo. Devo amettere che lavoro con colleghe/i che hanno grandi momenti di genialità)
 
 

sabato 5 ottobre 2019

Niente preamboli. La cruda realtà dei fatti, così come accaddero.

Quasi l'una di notte, arriva una telefonata.

E' un tassista. Afferma di aver depositato qui due clienti, una mezz'ora prima. Due maschi piuttosto alticci, ben vestiti ma anche tatuaggi e barba incolta come va, incomprensibilmente, di moda. Hanno lasciato un cellulare nel mezzo.

Ricordo i due. Erano stracolmi di alcool, e camminavano attraverso la hall ondeggiando da una parte all'altra. Il problema è che avevano con sè la chiave della camera. Dove lavoro chiediamo ai clienti di lasciare la chiave quando escono e riprenderla quando rientrano. In questa maniera devono passare dal bancone e parlare con noi portieri. A volte è necessario per dargli informazioni. Spesso richieste da loro stessi. O comunque vedere bene in faccia la persona. Riconoscerla.

Costoro, malgrado le esortazioni al check-in, erano usciti portandosi dietro la chiave. Al loro rientro notturno gli avevo chiesto se l'avevano con sè, e uno dei due tipi si era limitato a mostrarla, estraendola dalla tasca. Ma non ero riuscito a vedere il numero della camera. Se mi avessero detto dove erano, avrei potuto chiamarli e dirgli che uno dei due aveva lasciato il cellulare nel taxi. Non posso quindi sapere chi siano costoro. Il tassista mi lascia il suo numero e m'informa che staccava verso le 5 del mattino. E per almeno una dozzina d'ore non avrebbe ripreso servizio. Prendo nota.

Non ce ne sarebbe stato bisogno.

Dopo un'ora circa mi appare, davanti al bancone, uno dei due. Intendo com'ero a far uscire i conti del giorno, rimango sorpreso nel vedermelo piombare, come una furia, giù per le scale. Perchè, a parte un cellulare all'orecchio, indossa solo un paio di slip.

Dire che è agitato è poco. Si muove come se fosse posseduto da Pazuzu, da una parte all'altra del bancone. Dice cose incomprensibili, e sta parlando in un inglese osceno. Infarcito di "bloody!".

Chiamo il tassista, che con voce allegra, mi dice di aver risposto al telefono che aveva trovato in auto, e gli ha confermato che sta arrivando a renderglielo. Presumo che il cliente abbia chiamato con il telefono dell'amico; telefono che si porta appresso e che non staccherà dall'orecchio neanche per pochi secondi.

Riattacco e gli confermo che il tassista è in arrivo. E lui che fa? Si fionda fuori dall'albergo.

Non posso credere che stia succedendo, ma è così: sto seguendo un tipo praticamente nudo. Esco. Lui, scalzo, è già in mezzo alla strada. Più avanti, venti metri circa, una smart sta uscendo dal parcheggio. E lui agita la mano a chiamarla.

-Ma cosa fai? Non è quello il taxi-

Malgrado l'ora antelucana è un continuo viavai di gente che passa e osserva divertita questo tipo che si agita, praticamente nudo, in mezzo alla strada. E io, sulla soglia dell'albergo, che lo esorto a tornare dentro. Potrebbe succedere di peggio?

In quel preciso momento, passa un'auto dei carabinieri.

Per un paio di secondi ho la tentazione di rientrare e chiudermi dentro, lasciando che i militi lo impacchettino e lo portino a San Salvi. Che riaprirebbero solo ed esclusivamente per lui. Invece rimango lì che agito la mano e lo chiamo. E il caraba che gli dice, in italiano "Ma che minghia fai, sei nudo. Torna dentro, dai, c'è il portiere ti chiama, miii!" E l'altro che gli replica in inglese parole sconnesse.

Ma per fortuna appare magicamente il taxi.

Felice come un bambino quando arriva il grande omone barbuto addobbato di rosso, il tipo accorre verso il taxi, e riempie l'autista di "thank you". Costui ride, e indica me, ancora lì sulla soglia. Ma il matto non accenna minimamente a smettere di ringraziarlo. Ci sta almeno un quarto d'ora, poi finalmente si decide. Saluto l'autista, che contraccambia ridendo a più non posso. Il cliente rientra dentro l'albergo con il suo cellulare, e poi se ne sta mezz'ora al banco a dirmi che aveva dato al tassista 20 € per la gentilezza, prima che, finalmente, si decida a tornare in camera.

Certe persone sono così, non si rendono conto di esporsi al ridicolo. Ok, sarà stato anche l'alcool, ma un minimo di abbigliamento e una calzatura almeno indossala.

E comunque, quel che mi ha inquietato maggiormente, è che non ricordo di avergli visto, tra le mani, i 20 € che ha poi dato al tassista.

venerdì 13 settembre 2019

Le clienti americane, quelle brutte.

Quelle che vogliono il servizio del 5 stelle super lusso, ma prenotano in un 3 stelle. Quelle che agiscono senza pensarci e poi pensano di cambiare le cose in corso d'opera. Quelle che usano l'arroganza come ragione di vita, sia con un portiere d'albergo perchè non le accontenta nelle loro richieste sia con la prima ministra danese perchè non gli vuole vendere la Groenlandia.

Quasi a mezzanotte, arrivano queste 3 clienti, stesso cognome, sui 30-40 anni, fabbricazione familiare di serie. 3 ragazze in carne, cosa che a me, mingherlino di 65 chili, è sempre piaciuta moltissimo, ma purtroppo anche gonfie di ignoranza grezza e antipatia gratuita.

Considerazione zero del mio miglior sorriso, il che già promette malissimo. La femmina alfa del gruppo lancia la prima polemica: noi abbiamo la colazione inclusa.

Cosa che non è.

Con calma e pazienza, le spiego che vi sono varie tariffe, e questa è una scelta del prenotante. Con colazione o senza. Nel secondo caso risparmi, ma la mattina mangi altrove, non qui. Ma a loro non torna. Sbuffano. Si fanno spiegare come entrare sul wifi e guardano la prenotazione. Dicendo che -Ora le facciamo vedere che è compresa-

Alzo le spalle. Che posso fare? Niente. Si sono sbagliate; hanno prenotato senza controllare attentamente, e non vogliono ammetterlo. Ho in mano la piantina della città -che fornisco di serie a tutti, perchè tutti devono avere lo stesso trattamento di riguardo e la stessa gentilezza- ma intanto mi metto a fare altre cose. Non posso stare lì ad attendere i comodi altrui mentre manovrano sul telefono.

E' quasi mezzanotte e le tipe passano una mezz'ora a guardare la prenotazione per trovare una colazione inclusa che non c'è. Ma perchè non te ne vai a letto e ti rilassi? La vacanza non dovrebbe essere fatta per questo? Ti cambia così tanto la vita se per una volta non mangi in albergo e non svuoti il buffet?

A un certo punto se ne viene fuori con una dichiarazione strabiliante:

-Domani la camera tripla è in vendita a xy € giusto?-

So una sega io. -Si- rispondo deciso.

-Ma noi paghiamo axb €, quindi possiamo anche fare colazione, no?-

-Mi spiace, ma questa notte c'è la tariffa del sabato-

-E perchè è così alta, mentre la domenica è bassa?-

-Perchè tutti vogliono venire a Firenze, il sabato. E quindi la tariffa è più alta. E' la legge del mercato-

Continuando a essere il più possibile gentile, gli fornisco la piantina, ma prima che possa spiegargli dove siamo, la prende e si avvia all'ascensore. Stizzita, arrabbiata, nervosa.

Non posso farmi carico dei problemi altrui, anche se purtroppo il nervosismo della gente finisce per ricadere su di me. Hai sbagliato a prenotare, sii causa del tuo mal.

Escono per andare a mangiare e rientrano che sembrano più tranquille, ma non salutano. Ignorato completamente.

Mi chiamano dalla camera, verso l'una e mezza, lamentando che l'aria condizionata non fa.

Chiudo l'ingresso e corro su per le scale.

Busso. Mi aprono. Entro. La camera non è calda, ma si sente che l'aria non è accesa. Manovro il termostato e il fancoil si mette in moto. A quel punto una delle tipe sbraita indicando il termostato ma a una velocità e un accento che pure io, che mi ritengo aver studiato l'inglese a sufficienza, fatico a capire. Credo si lamenti che a loro, manovrando, non fosse partita. Ma che ti arrabbi a fare? Ora funziona, dai, puoi dormire bene stanotte. Alzo la mano verso il fancoil, installato nel controsoffitto, e sento chiaramente il getto di aria fredda arrivare.

Ma ormai le tipe sono preda della rabbia, e mi cacciano in malo modo non prima che una di loro abbiamo chiaramente detto, affinchè capisca, che il posto è "disgusting". Hanno una delle camere più spaziose. Per un 3 stelle in centro, qualcosa di notevole. Davvero non so cosa si aspettassero.

La mattina, quando scendono, faranno una discreta polemica. Attesa. Perchè nelle consegne ho scritto una descrizione dettagliata del loro comportamento, a beneficio dei miei colleghi. Ma si trovano di fronte la dolce Giorgie, che a dispetto del soprannome, può essere molto diversa dal personaggio dell'omonimo manga.

Sorridendo ma con fermezza, le spiega che l'aria condizionata funziona, verificato dal facchino salito in camera quando sono scese per il check-out. Non ci saranno 18 gradi come in certi super alberghi nuovi di edificazione, ma hai dormito con 23 gradi in un edificio costruito prima che i tuoi avi si imbarcassero sul Mayflower, direi che puoi accontentarti e fartela bastare. Ma le tipe sono comunque arrabbiate, decise a rovinarsi la bile e la vacanza. Insistono che hanno prenotato la colazione. La dolce Georgie, dopo aver rimarcato che no, la colazione non è compresa -vede qui, la prenotazione su internet? Room only, no breakfast- gli dice che -sarà nostro piacere se desiderate accomodarvi in sala, l'albergo è lieto di offrirvela-

Ma loro sbottano stizzite che -No, non possiamo, dobbiamo andare via-

La dolce Georgie non è più tanto dolce. Direi piuttosto che ripercorrerebbe le orme del conte Vlad, viste le sue origini. Senza più sorriso, stampa la ricevuta per intero, con sorpresa delle ragazzone yankee che si aspettavano lo sconto, e gliela piazza sotto al naso. Pin e tasto verde. E, come sempre in questi casi, addio e grazie di tutto il pesce.

Però che stress!

ps. Minacciavano recensioni negative.

Non è arrivato niente.

martedì 27 agosto 2019

Sono una fava.  

E' che dovrei farmi un pò più gli affari miei che non entrare in polemica. O farmi prendere da questo mio personale viziaccio di interessarmi dei problemi altrui. Non sono uno che dice "me ne frego". Io sono uno da "mi interesso".

E però si, ci sono dei casi per i quali fregarsene va bene, e con alcuni è pure doveroso dire "e allora fai un pò come ca**o ti pare. Io me ne sbatto"

Grosso

Massiccio

Inca**ato

Il cugino orso di Boris Johnson. Lo zio carogna di Nigel Farage. Entra con la rabbia di Riccardo III quando non trova un cavallo. Indossa una camicia che l'ultima volta che venne lavata, sul trono inglese c'era ancora un uomo.

E appoggia i gomiti sul banco.

-Voglio bere- in perfetto accento british.

Abbiamo il bar, ma a quest'ora è chiuso. Gli dico di provare fuori. Senza degnarmi di una risposta, esce.

Rientra dopo un'oretta, inondando la hall dei vapori di una distilleria irlandese. Prende la chiave poi indica il bar, immerso nell'oscurità. Come lo era prima, d'altra parte. Gli dico che è chiuso.

-Senti, lo so che te hai un bar, laggiù al buio. E so che c'è un frigo. E so che nel frigo ci sono le birre. Io ho bisogno di una di quelle birre-

Testuale, tradotto dall'inglese.

Dire che sono sorpreso è poco. Conosce l'albergo. Ma è colmo di alcool fino all'inverosimile, se gli fanno il test la macchinetta esplode. Non mi va di riempirlo ulteriormente, se poi sta male?

Ma lui insiste.

Io dico: -E' chiuso-

E lui: -io non mi muovo di qui fino a che non mi dai una birra-

Veramente, non so cosa fare o dire. Non mi ero mai trovato di fronte a una tale determinazione.

Mi incattivisco anche io. Sguardi arrabbiati, seri, pesanti. Da parte di entrambi. E va bene, se la metti così, tanto peggio per te. Se ci tieni proprio tanto a ridurti in queste condizioni, chi sono io per impedirtelo? Mi avvio verso il bar.

-You are sweet- sei gentile, mi dice lui.

-You are drunk- sei ubriaco, gli rispondo io. E lui ride.

Apro il frigo, prendo la birra, la stappo e gliela porto.

-Io ho delle responsabilità, nei confronti dei clienti-

-E lo apprezzo tantissimo, sul serio. Fai bene il tuo lavoro. Ma io voglio la birra. Non posso dormire se non ho la mia ultima birra. Puoi segnarmela sulla camera-

Puoi scommetterci che lo farò.

4 notti di lavoro io, 4 giorni di soggiorno lui. E ogni notte, puntuale, rientrava alle 2 e chiedeva una birra. Rientrando in condizioni pietose.

Mi sono sentito un avvelenatore. Provo tutt'ora, dopo già qualche mese, un discreto senso di colpa. Certo, non sono affari miei, tanto peggio per te, ma io mi preoccupo. Mi dispiace.

A volte questo lavoro è un serio tormento.

martedì 13 agosto 2019

I turisti americani, quelli belli.

Grandi, grossi e paciocconi. Sovralimentati a quantità abnormi di proteine animali e bibite zuccherate, ma con una simpatia e una carica umana forte, unica. Quegli americani che sono simpatici e divertenti. Con battute folgoranti, e che spesso noi non capiamo perchè, anche se abbiamo studiato inglese da una vita, lo abbiamo fatto dalla penisola, e quindi tante cose le perdiamo. Non riusciamo ad afferrarle. Ed è un peccato.

Quegli americani a cui, ammettiamolo, dobbiamo la nostra cultura attuale. Perchè la settima arte ha raggiunto il massimo, sia come qualità alta che anche come qualità scadente -il trash- solo negli States. E dobbiamo molto, a loro. La nostra vita stessa è permeata dal cinema americano.

Un pomeriggio rientra in albergo questa coppia americana. Grande e grossa.

La signora prende la chiave e va in camera. Il marito si ferma un attimo a riposare su uno dei divani della hall. Perchè è una calda giornata estiva, di quelle afose come solo a Firenze può essere. E dopo la camminata dai musei all'albergo, ha necessità di riposo. Non riesce neanche a fare l'ultimo sforzo per andare su in camera.

Ha una maglietta con una scritta inconfondibile.

Faccio una cosa che, sul lavoro, non andrebbe mai fatta, ma in questo caso più che giustificata: prendo il cellulare. Lui capisce subito, neanche ho bisogno di chiederglielo. Stira la maglietta bene, affinchè si legga. Scatto.

Bisogna me la procuri anch'io, una maglia così. Ma con la scritta in toscano: "io sono i'tu babbo"

 

sabato 27 luglio 2019

Ieri ero in turno pomeridiano, e mi è successo un vecchio classico di questo lavoro:

lo scherzo telefonico.

La telefonata falsa, in un albergo, verte sempre sullo stesso tema: richieste assurde. Ad esempio se avevamo camere per un centinaio di persone. O altre amenità simili che non mi va di nominare perchè non ne vale la pena. Ma sono sempre richieste impossibili da accontentare. Non che alcune domande da clienti veri non siano altrettanto improbabili; tipo aggiungere un letto in più in una camera singola appena prenotata perchè "siamo in due", ma di solito si riconosce molto bene la voce adolescenziale dall'altro capo del telefono. Oltre al fatto che la chiamata, sul centralino, è sempre "anonima". Non appare mai il numero.

Il ragazzetto di ieri chiama e protesta per cose senza senso. Ovviamente, come sempre in questi casi, riattacco. Ma costui insiste: richiama furioso, mi dà dello stronzo e "ti denuncio!". Spera di trovare un portiere d'albergo nervoso, di quelli che urlano a loro volta con tanto di parolacce, magari pure bestemmie. Perchè starà registrando la telefonata da postare poi su qualche social.

Ma ha sbagliato bersaglio. Io alzo le spalle e riattacco.

Torna alla carica più volte fino a che, passata una mezz'ora, arriva un'altra voce (un suo compagno di merende) che si presenta urlando come "comando dei carabinieri, lei ha una denuncia" che è davvero di cattivo gusto, visto il lutto che ha colpito l'arma proprio ieri. Stavolta, perfidamente, metto la chiamata in attesa. E ce la lascio una decina di minuti fino a che non desistono e riattaccano loro. Chiameranno ancora almeno due volte, nel giro di un'ora, ma stavolta in completo silenzio sperando in una mia reazione. Che mi inalberi e urli. Ma anche in questo caso, alzata di spalle e riattacco. Come diceva un mio concittadino: "non ti curar di loro ma guarda e passa".

Gli adolescenti, ma pure ventenni, che si divertono così c'erano anche quando avevo quell'età. E anche allora non li capivo. Non riuscivo a comprendere, tanto per dire, la motivazione a scocciare gente che non conosciamo e potrebbero invece rivelarsi belle persone con cui vale la pena di parlare; soprattutto mi sembrava pazzesco perdere tempo in queste cose quando non ne avevo mai abbastanza per tutte le mie passioni: leggere, suonare la chitarra, giocare a pallone, combattere goblin e orchi in fantasiose battaglie a colpi di dadi da 20.

Eppure la maggior parte delle persone è così. Viviamo nel paese del "fatti i cazzi tuoi" ma poi non se li fa nessuno. Tutti a dare fastidio agli altri. E più lo fanno, e ci riescono, più si sentono ganzi e forti. E ammirati dai loro simili.

Che stress vivere in mezzo a costoro.

mercoledì 24 luglio 2019

C'è stato un periodo della mia vita durante la quale venni colto da un incredibile, appassionato, strepitoso amore per la pallacanestro.

Ancora alle superiori, poco più che quindicenne, mi accorsi come mi piacesse palleggiare il pallone a spicchi. Sentire il tocco morbido delle mani sulla superfice rugosa e passarla di mano in mano facendola rimbalzare sotto le gambe. Ogni sabato pomeriggio andavo in uno splendido campetto in tartan di una scuola media. Una semplice, modesta scuola media con un campo da basket che avrebbe fatto l'invidia di un franchigia NBA, per non parlare dei canestri e delle strutture addirittura rivestite in gomma piuma. A dir poco esagerato. Ma strepitoso. Scavalcavo il cancello e giocavo. Dalle 14 fino alle 16 palleggiavo e tiravo, anche se pioviscolava o sotto i 40 gradi estivi ("non uscite nelle ore più calde" vale solo per bambini e anziani. Non conta se giochi a basket o vai in bici da corsa). Poi alle 16 arrivavano altri coetanei/e e si dava vita a solenni e interminabili partite. In quell'età durante la quale anche dopo 6 ore di intensa attività fisica non senti minimamente la stanchezza.

Tutti ragazzi adolescenti o giù di lì, tutti accomunati dalla passione per una palla da lanciare in un cesto. Tutti poco più alti di 1.70 ma comunque decisi a imparare i fondamentali. Ottenere un 50% di relizzazioni da due e 33% da tre. E posso orgogliosamente affermare che ci riuscivamo. E' un'emozione bella e intensa, quella di lanciare palloni e sentire il tipico fruscio del canestro. E poi, anche nel calcio, ho comunque scelto l'unico ruolo dove si possono usare la mani.

A Firenze, in quegli anni, arrivò un giocatore strepitoso: J.J. Anderson.

I suoi movimenti sinuosi erano qualcosa di incredibile. Come mai un giocatore del genere fosse finito nel piccolo campionato italiano, invece che non nella NBA, per me era un mistero assoluto e imperscrutabile. Ricordo partite dove realizzava 30 e passa punti. Miglior realizzatore italiano, ed eravamo ultimi. Anni d'altalena tra A1 a A2, ma J.J. restava con noi. Una volta eluse il suo marcatore, prese palla in corsa, si bloccò, si alzò in aria di non so quanto ma avrei potuto passare sotto senza chinarmi e, torcendosi in aria di 180 gradi, lanciò da almeno mezzo metro dalla linea di 3 punti. Canestro e sirena, Milano, la grande, potente, inaffondabile corazzata Milano, battuta di 1. Io ero in estasi mistica. Il palazzetto di Firenze, semplicemente, venne giù.

Erano gli anni fortunati durante i quali l'NBA era in chiaro. Si potevano ammmirare gli epici scontri dei Lakers contro Boston. L'avvento dei pistoni di Detroit. L'era di Chicago.

In quegli anni venne alla ribalta un giocatore strepitoso: John Stockton. Un playmaker incredibile, con una capacità di palleggio che io non riuscivo neanche lontanamente a immaginare fosse possibile. Stockton penetrava le difese avversarie come un coltello nel burro, scansando giocatori talmente più alti e grossi, rispetto a lui, che semplicemente spariva. Ma il pallone, magicamente, appariva in mano a Karl Malone, che la schiacciava a canestro. E poi giocavano negli Utah Jazz, che hanno la maglia Viola. Non potevo non fare il tifo per loro, anche se quelli erano gli anni di Michael Jordan, e Utah perse due combattutissime finali proprio contro i Bulls. Stockton e Malone sono tra i giocatori più forti dell'NBA a non aver mai vinto il titolo. Tutt'oggi, Stockton è quello che ha realizzato più assist di sempre.

Sono in albergo. Abbiamo una prenotazione a nome Stockton.

Ammetto che sono un pò emozionato al pensiero che magicamente possa apparire, proprio lì davanti al bancone dell'albergo dove lavoro, il più grande playmaker della storia della pallacanestro, ma la vedo difficile. Insomma, anche se una vacanza a Firenze se la concedono tutti, una volta nella vita, immaginò che lui andrebbe in qualcosa di più che non un semplice 3 stelle. Dignitoso e pulito quanto si vuole, ma pur sempre un 3 stelle. In ogni caso non sono il tipo che si esalta per i vip in albergo. Ne ho visti diversi e non mi è mai importato di nominarli, nel blog. Ma Stockton mi risveglia le emozioni cestistiche. La grande passione per questo sport e anche la nostalgia di quando ero un adolescente instancabile, pieno di energie e di voglia di correre, di sentirmi vivo, di mettere alla prova il mio fisico e le mie abilità.

Si presenta questa famiglia che riconosceresti a miglia di distanza venire dagli States: padre, madre e 3 figli, ragazzi grandi e grossi come armadi.

Il capofamiglia, forse qualche anno appena più di me, esordisce con i dettagli della prenotazione, una doppia superiore e una tripla, e il cognome. E lì non posso non accennare:

-Stockton. Come il playmaker-

-Si, è mio fratello-

E indica uno dei suoi figli, che per l'appunto ha una t-shirt blu scuro con l'inconfondibile logo dei "Jazz". E la mostra con orgoglio, felice che le gesta sportive di suo zio siano ancora note a vent'anni, e migliaia di chilometri, di distanza.

Tranquilli, sereni, felici di essere in vacanza. Una bella famigliola americana che si è anche scusata perchè nella prenotazione avevano indicato la tripla come matrimoniale più letto singolo, e invece volevano 3 letti singoli, essendo 3 figli. E noi li abbiamo accontentati ma con la premessa che "dovremo mettervi su piani diversi". E i due coniugi a ribattere, comunque sorridendo, che "anche meglio, metteteli lontano da noi". Che bello, il mondo, quando trovi persone così. Manca solo di tornare a quando giocavo a basket. Giovane e pieno d'energie.

"Forever young", come diceva quella canzone.

E pazienza, se ero pieno di brufoli.

domenica 23 giugno 2019

 
Nello scrivere un articolo qualsiasi, che sia di un quotidiano o di un blog, è importante mettere in evidenza il punto fondamentale della questione.
Questo articolo, uscito due giorni fa sul Messaggero, non lo fa. Ma dò atto al giornalista di scrivere, in un lieve accenno, la frase fondante, il topic, il punto chiave di tutta la faccenda delle regole crudeli: "se non c'è il tutto esaurito anche prima".
Sta tutto qui.
Noi, come portieri d'albergo e soprattutto come lavoratori, abbiamo il dovere di realizzare fatturato all'azienda. Quindi, vendere le camere. Quando le vendiamo tutte, abbiamo compiuto il nostro dovere e guadagnato la pagnotta.
Ma in quel caso subentra, oltre al cliente e all'albergo, un terzo elemento che il giornalista non considera affatto, nel suo articolo, a parte quel lieve accenno al tutto esaurito: l'altro cliente. Quello che ha comprato la camera il giorno prima e ha tutto il diritto di starci dentro fino all'ora del check-out, quando poi subentra il dovere a lasciarla.
Il giornalista si salva in corner con il consiglio a "informarsi sugli orari degli hotel in cui si soggiornerà". Ok, giustissimo, ma questo non ti salva dalla presenza di altre persone, potenzialmente 7 miliardi, che comprano camere d'albergo per dormirci e seguire gli stessi orari e le stesse regole "crudeli". E' completamente futile scrivere, a un albergo, che si arriverà alle 8 del mattino dopo un volo transcontinentale. Benissimo, grazie dell'informazione, ma i portieri di quell'albergo cercheranno comunque di vendere tutte le camere della sera prima, e se ci riescono (e da portiere spero ci riescano) è ovvio che i clienti del giorno dopo dovranno aspettare che quelli del giorno prima se ne vadano e le cameriere (mai nominate in nessun articolo, peraltro) puliscano le camere in partenza. E se vuoi una pulizia fatta bene, dovrai aspettare un pò di più.
A meno che uno non voglia dormire nelle lenzuola dove è stato uno sconosciuto, ovvio.
5-
Rimandato a Settembre.
ps. mi offro come giornalista. Certi articoli hanno il potere di infondermi una forte autostima. Peggio di certi professionisti non si può fare.

 

domenica 16 giugno 2019

Sono un portiere, lavoro in albergo, e ho appena capito perchè, agli inglesi, dobbiamo assolutamente concedere la Brexit dura e pura.
Non sono ancora pronti.
ps. asciugacapelli sostituito dal manutentore. Bastava dirlo prima. 4 notti e invece di riferire del problema durante il soggiorno, lo scrivono nei commenti alla partenza.


martedì 11 giugno 2019

E così abbiamo un nuovo presidente.

Comisso, neo acquirente della Fiorentina, mi ricorda una tipologia di cliente che apprezzo abbastanza: l'italo-americano.

Come clienti alberghieri gli italo-americani, quelli che sono già alla seconda o terza generazione di nati in quel continente, sono persone tranquille e simpatiche. Non fanno particolari storie sulle camere o qualche altro piccolo difetto: sanno che in Italia l'aria condizionata, ad esempio, non ha la stessa forza di quella negli Stati Uniti, dove la tengono fissa alla temperatura di una cella frigorifera. Sono consapevoli che la stragrande maggioranza delle strutture ricettive italiane sono in palazzi costruiti prima dell'unificazione. Alcuni edificati addirittura quando eravamo ancora signorie e un mio concittadino affermò che "quel bischero di un genovese pensa d'essere arrivato nelle Indie, ma in realtà ha scoperto un nuovo continente. Gli darò il mio nome, tiè!" E quindi con tutte le difficoltà a ristrutturare con gli standard moderni palazzi così antichi. Perchè non facciamo come da loro, che mettono un pò di dinamite, spianano tutto e poi riedificano da zero.

Lo sanno e, accettano le differenze, che altri clienti considerano invece come problemi insormontabili, e si godono il soggiorno.

Il problema è che si ostinano a voler parlare questa lingua. Ma ne ricordano si e no due parole in croce. Esordiscono, alla reception, con quell'italiano impastato che solo loro hanno, con tutte le difficoltà del caso. E quindi mescolano le due lingue.

Noi portieri dobbiamo rispondere in italiano perchè se gli parli in inglese, si risentono e "tu parl italian. Io parl leng di nonna!"

Perciò usiamo entrambi in questo mischione di ital-english che se mi sentisse una qualsiasi delle mie insegnantimi moriva di crepacuore. Oppure mi saltava alla gola modello Homer sul figlio Bart.

E poi, ogni tanto, capita lui: l'italo-americano tamarrone. Bellissimo. Stupendo. Unico.

Un pomeriggio estivo scende un cliente italo-americano di mezza età: sandalo, pantaloncini avana e canotta fantozziana con tanto di regolamentare macchia d'unto sul panzone prominente.

Ha in braccio un enorme pacco stracolmo di biancheria. Grande si, ma sempre biancheria. Sarà 2 etti. Ma si stravacca sul divano della hall distrutto dalla fatica, neanche avesse portato il masso di Sisifo:

"Lei parla ingles?"

"Si"

"E dimmi... dove stare qui laundry?"

Gli fornisco le informazioni, lui va alla lavanderia automatica e rientra dopo aver lavato la sua roba. Dopo una mezz'oretta esce con la moglie: lei una signora distinta, anche vestita abbastanza elegantemente, americana al 100%. Lui con il braccio sulle sue spalle, la stessa canotta macchiata ed un particolare che mi ha riempito di gioia: sigaretta appoggiata sull'orecchio.

Mi ha salutato con l'occhiolino "Noi andiamo mangiare".

Un mito!

ps. speriamo Comisso ci 'ompri qualcuno bono.

giovedì 23 maggio 2019

Un piccolo evento leggere leggero, senza particolari problematiche.

Ci sono gli americani belli, quelli solari, che amano scherzare, che adorano l'Italia, che sono curiosi, che passano ore nei musei, che conoscono l'arte, che, soprattutto, l'apprezzano.

Ci sono gli americani brutti, quelli cupi, che "questo posto è disgustoso" (disgusting), che urlano, che rubano gli asciugamani (anche se lo fanno di più gli italiani perchè #primagliitaliani ), che fanno casino la notte, che votano miliardari panzoni e fdp.

Poi ci sono i militari.

Di per sè, i soldati dell'esercito Usa non sono cattive persone. Abbastanza tranquilli, arrivano qui perchè, se sei di stanza a camp Darby, un giro per Firenze non te lo fai? Anche solo per vantartene con i parenti rimasti nel nuovo mondo, anche se poi il massimo delle visita è un fugace giro per il centro prima di fiondarsi in un qualsiasi locale.

E per costoro dovrebbe ancora vigere il proibizionismo.

Entro in turno di notte che la collega sta finendo il check-in di questi soldati, in abiti civili ma che presentano, come documento, l'immancabile tesserino di "forze armate Nato". Un gruppetto di ragazzi giovani: un biondo alto e secco, l'immancabile ragazzone di colore e 4 "latinos"; messicani o comunque dell'America Centrale che si arruolano per avere la cittadinanza. La versione moderna dei mercenari medievali.

Doopo un'oretta, mentre sono intento a finire le chiusure e lanciare, sul gestionale, il passaggio al nuovo giorno con il magico lancio degli addebiti (fatturazione uber alles), scendono dalle camere per la serata Florence by night. Eleganti e ritoccati, uno dei messicani ha pure una camicia piena di fronzoli, una roba che arriva direttamente dal settecento, e un gilet con decorazioni dorate. Una roba pacchianissima, davanti alla quale pure Tony Montana esiterebbe.

Ci mettono un pò, a uscire, perchè non sono mai tutti assieme. Ogni tanto uno di loro risale su di corsa, chiedendomi la chiave, poi torna ma un altro suo amico ha, a sua volta, lasciato qualche fondamentale oggetto in camera, e risale su. E' tutto un dare e restituire chiavi. Ma almeno me lo chiedono con gentilezza. Su questo, devo ammettere che non ho mai trovato soldati yankee maleducati.

Finalmente escono. Gli ricordo di suonare il campanello, al rientro, perchè mi chiudo a chiave. Rispondono tutti ok, e salutano.

Al rientro, non suonano il campanello. E insistono nell'aprire, benchè la porta sia chiaramente serrata.

Accorro e apro. Sono decisamente ebbri di alcool, ma quello messo peggio è proprio il messicano elegantone. Seduto sul gradino d'ingresso, agita la testa e poi rimette, sul marciapiede, il contenuto della serata. Alè.

Gli altri, che hanno bevuto meno, lo aiutano ad alzarsi e lo sorreggono verso l'ascensore. Io rabbrividisco al pensiero che possa vomitare ancora e proprio lì dentro. Afferro un sacchetto di quelli che diamo ai clienti che vogliono mandare i loro vestiti in lavanderia, e lo passo al biondo del gruppo, che capisce al volo. O beve con moderazione o lo regge bene. Ma non succede altro, per fortuna. Se ne vanno tutti a letto, senza fare ulteriori rumori.

Ma rimane il problema del vomito. Benchè sul marciapiede, e proprio di fronte all'ingresso. E occorre che faccia qualcosa, non posso certo fregarmene. Perciò vado nel ripostiglio a prendere un secchio, lo riempio d'acqua e poi lo rovescio sulla chiazza. Anche questo è lavoro di notte. Torno dentro e ripeto l'operazione altre 5-6 volte. Fino a che ogni traccia di vomito non è finita nel tombino.

Non sono uno che giudica. Da certe condizioni ci siamo passati tutti. Chi per un motivo, chi per un altro, anche se bere fino a questo punto non ha mai una vera giustificazione. Ma questo ragazzo ha poco più di vent'anni. Potrebbe aver passato diversi mesi in un paese mediorientale a rischiare la vita tutti i giorni. Ammazzare gente. Potrebbe aver assistito alla morte di uno o più amici. Per proiettili, o fatti a pezzi da una bomba. Non mi sento assolutamente di biasimare. E comunque siamo in un mondo libero, faccia un pò quel che gli pare. L'importante NON dentro dove lavoro.

E poi l'aver pulito il marciapiede non mi cambierà la vita.

Quella fava del suo comandante in capo, quello si.

sabato 11 maggio 2019

Ho un'opinione: la gente è sempre più sfaticata.

Non perchè lavori tanto, perchè si impegni duramente, perchè si stanchi in modo particolare con mansioni difficili.

E' sfaticata perchè non vuole darsi da fare, muovere membra e, soprattutto, materia grigia, per ottenere dei risultati. Anche piccoli ma che, sommati con altri, rendono comunque qualcosa.

Forse, più che sfaticata, è annoiata.

Sempre più clienti, piuttosto che scendere di camera e andare a mangiare qualcosa per cena, si fa portare il cibo direttamente in albergo.

Dato che la stragrande maggioranza delle strutture ricettive in zona non ha ristorante ma solo caffetteria, pur di non vestirsi, scendere e uscire, usa il telefono per scegliere, ordinare, e pagare, pietanze.

Non so, io sono diverso. Io scendo. Sento la necessità di muovermi. Un pò perchè mi scoccia farmi recapitare il cibo a casa. E poi, avendo la fortuna di avere, in prossimità, due ottime pizzerie, non mi faccio remore a infilare giacca e scarpe per andare io stesso a prendere la succulenta pietanza direttamente dove la fanno. Da asporto. Diamine, non sono neanche 100 metri.

I clienti degli alberghi invece, sempre meno. E capita spesso di vedersi arrivare, alla reception, una persona con l'immancabile zaino a forma cubica di uno dei tanti servizi di recapito a domicilio. Magari di posti che sono praticamente di fronte all'albergo. Ormai il cliente neanche ci avverte, a noi portieri. Il tipo col cubo si presenta e riferisce il nome del cliente. Lo chiamiamo in camera e costui scende (almeno quello) a prenderselo. Qualcuno ci prova anche a farselo portare su, ma noi non facciamo salire proprio nessuno che non sia cliente e non ci dia un documento (e io non lascio certo il bancone). Così capita pure di veder uscire dall'ascensore, sbuffando, un bolso cinquantenne -ma spesso pure ventenne- in pigiama. E scalzo. Che magari è in una camera al primo piano.

Superfluo dirlo, i residui di tali pasti sono lasciati direttamente in stanza.

Qualche giorno fa la cameriera, in procinto di rifare una stanza, trova delle confezioni di cibo nel frigo bar.

Normalmente è roba che va direttamente nella spazzatura.

Questi, invece, erano perfettamente sigillati nel cellophane.

I clienti, la sera prima, avevano ordinato roba da mangiare via internet. Erano addirittura arrivati in due, di fattorini, a portarla. Da tanta che era.

Molte di queste confezioni le avevano aperte, assaggiato il contenuto e poi gettato. Un monte di roba, ci avrebbero mangiato in 10. Ma ben 3 confezioni, ancora intatte, le avevano messe nel frigo bar. Quando pensavano di consumarle, visto che il giorno dopo partivano presto, non si sa. E non parliamo di una famiglia numerosa: una coppia. Solo due persone. Presi dalla fame, avevano cominciato a mettere spunte su spunte al cibo che vedevano dalle foto sul cellulare.

Gli occhi sono sempre più grandi dello stomaco. Si fossero presi la briga di scendere a una pizzeria nei pressi dell'albergo, avrebbero speso la metà, anche facendosi servire al tavolo.

Le confezioni sono sigillatissime. Come appena uscite dal ristorante. Ce le siamo portate a casa, aperte, messe nel piatto, riscaldate rapidamente al microonde e pappate. Abbiamo forse fatto male?

Come dicono i delfini: "Addio, e grazie di tutto il pesce" (cit.)



domenica 28 aprile 2019

14 anni.

E mi sembra ieri.

Sono cose che non si possono dimenticare. Ti rimangono nella testa, fisse, durature, inavomibili.

14 anni fa nasceva Camilla.

La prima impressione fu drammatica. Perchè noi uomini, nel parto, siamo impotenti. Completamente inutili. Non serviamo a un bel niente.

Ore a cercare di sostenere la moglie durante le doglie, e lei, a ogni fitta, chiede disperata: "Marce, fai qualcosa". E non c'è nulla che puoi fare. E non capisci quel che sta accadendo.

Li ricordo uno a uno, quei momenti. Non c'è molto altro, se non quello: ricordare.

Poi, finalmente, la nascita. E le appoggiano la neonata sulla pancia. E la Sara che se ne viene fuori che "Camilla, finalmente ci vediamo".

E lì piansi. Parecchio.

Ok, basta.

14 anni fa. Oggi è il suo compleanno.

Sarà una bella festa, con un tavolo stracolmo di cibo-spazzatura. Di amiche/ci. Di bibite gassate. Del babbo che gli farà fare dei giochi. Di patatine all'olio di palma. Ovviamente regali. Ho già detto del cibo?

Si ripeterà il 13 Giugno, per il compleanno di Gaia.

Alle ragazze chiediamo ormai, da qualche anno, se hanno preferenza per il regalo. Ci piace così. Hanno dei desideri, una lista anche notevolmente lunga. Ma sarà un singolo regalo. Senza esagerare, senza dilapidare preziose risorse per il mutuo.

4 anni fa la Cami chiese un oggetto che, dal mio personale punto di vista, è utile come un frigorifero al polo.

Un idromassaggio per i piedi.

Un singolo regalo, questo è il patto. Ok, facciamogli 'sta roba. Io sarei anche per andare a vedere per negozi, ma la moglie è tipo spiccio e poco mobile: lo prendo con internet. Tramite quel sito che porta il nome di una foresta. Esistita finchè anche i brasiliani, come gli americani e noialtri, non hanno scoperto il fascino di avere presidenti e ministri dell'interno stronzi e un pò figli di troia.

Prendiamo quindi questo oggettino, che incontrò la sua piena gioia. La ragazza è un tipo a cui piace rilassarsi. Dopo il bagno, adora prendere questo attrezzo, riempirlo d'acqua (è un idromassaggio, seguite bene queste mie parole), collegarlo alla presa elettrica e quindi, comodamente seduta sul divano, rilassarsi e godersi i piedi a mollo con le bollicine.

In famiglia l'hanno provato tutti tranne il sottoscritto. Per quanto ormai quast'oggetto sia presente in questa casa e possa pure fare un tentativo, non riesco a farmi andare bene una cosa che ritengo una vera futilità. Una roba che stava bene nella rubrica sarcastica di Cuore "mai più senza", dove c'erano oggetti come lo scopalasta di padre pio o della propria squadra di calcio.

Ma il punto non è quello.

Su sito dove la Sara ha acquistato l'oggetto, è possibile rivolgere domande sullo stesso agli acquirenti precedenti.

E la Sara riceve questa. Allego immagine. Non credo ci sia bisogno di altri commenti.

Lo so che, per arrivare a quest'assurda domanda ho messo su un discorso lungo e laborioso, ma io sono così: mi occorrono 3 fogli A4 pure per fare gli auguri di Natale.

ps. il regalo di quest'anno, che scarterà tra un paio d'ore, è una stampante. La vecchia funzionerebbe ancora, ma emette un rumore di segheria ogni volta che è in funzione.

Ma non c'è pericolo che ci domandino se funziona anche senza carta o inchiostro. Stavolta l'abbiamo comprata nel classico mega negozio di elettrodomestici.

Auguri, ragazza.

giovedì 25 aprile 2019

Alzarsi il primo pomeriggio e trovare la figlia 2 che chiede di giocare, andrebbe anche bene. Anzi benissimo. Se chiedesse di giocare a uno Splendor, un Imothep, pure un Ticket to ride, guarda.

Ma quando si tratta del "gioco della vita", la storia può prendere un andamento farsesco.

Giocare al gioco della vita con una ragazza di 11 anni significa che:

-Percorso carriera. Io studiare? Mai! (Ps, ha la media del 7. Legge una cosa e la ricorda per mesi, il contrario di come ero io. La odio solo per questo)

-Mestiere scelto: la chef! E che altro? Almeno cucinare le piace. È rimettere a posto, che tocca al babbo. E infatti: " quando avrò il mio ristorante, ti metto a lavorare lì. Laverai i piatti".
Lo ha detto sul serio.

- "Voglio avere dei figli" ma la ruota non gira come vorrebbe (è un gioco di fortuna, di casualità). E si arrabbia. 11 anni, va ancora così. Viola le regole e rigira la ruota. Niente. Rigira ancora, e finalmente esce un bebè. Ovviamente, femmina.
Ma tiene il broncio tutta la partita. Perché vuole un monte di figli. Un asilo nido.
Quando lo avrà veramente, un bebè, e chiamerà per chiedere aiuto, riderò di gusto.

-Bene Gaia, siamo in fondo. Ora contiamo i soldi.
-Aspetta!
Prende un'altra macchinetta, ci infila un piolo rosa e la fa partire dall'inizio.
-Lei è mia figlia. Anche lei farà il percorso e mi aiuterà a vincere la partita.
-A lei fai fare il percorso studio?
-Si, perché lei dovrà studiare!

Mi spiace, nipote.
Hai una madre un po' paracula.

Ps. Questi pomeriggi piovosi sono abbastanza destabilizzanti, per la mia psiche. Non vedo quasi l'ora di essere in turno e trovarmi un indiano che chiede informazioni assurde tipo "dove si trova la torre di Pisa" su una mappa di Firenze.

Pps. -Ma davvero mi vuoi assumere a fare il lavapiatti?
-Certo. Così non dovrai più fare il turno di notte.
In fondo, vuole liberarmi. A modo suo.
Buona Liberazione a tutti.



lunedì 1 aprile 2019

Lavoro in albergo, sono un portiere.

Sono anche una persona con le mie idee, i miei pensieri, le mie ragioni. E non me ne vergogno affatto. Ma quando sono sul posto di lavoro tendo a non esprimerle. Ad esempio, quando mi capitò un cliente, anni fa, che dichiarava la sua contrarietà alla presenza di un giocatore di colore in nazionale (Balotelli) solo perchè, appunto, di colore. Oppure un avvocato di regione che non nominerò che, dopo avermi chiesto se ero di Firenze e alla mia risposta affermativa, se ne uscì che "prima o poi voi comunisti vi spazziamo via tutti" (non ci riuscì la banda Carità, pensavate di farcela voi?). O quello che, inserita nella plastica che protegge il documento d'identità, aveva la foto di mussolini (minuscolo intenzionale) e declamava tutto fiero il suo credo.

In questi casi il bravo portiere lascia perdere. Sappiamo benissimo che sono provocazioni del ca**o. Gente stupida che cerca lo scontro. La diatriba. La polemica. Beh, non ne vale mai la pena. A che pro mettersi a discutere di queste cose? Farsi il sangue amaro con persone che vediamo solo 10 minuti nell'arco di un'intera esistenza? Uno sta zitto, fa un bel sorriso e passa la carta di credito del cliente nel pos. Perchè alla fin fine quello conta. E grazie di tutto il pesce (cit.)
 
Anche se comunque all'ammiratore del duce lanciai una frecciatina sul bunjee-jumping. Ma non la capì.

E non mi stupisco, che non l'abbia capita.

Con qualcuno però, vale anche la pena, di esternare come la si pensa.

Vale assolutamente la pena.

Sono in due.

Check-in regolare: documenti, registrazione, informativa sulla tassa di soggiorno, orario colazione...

-Ehm... abbiamo richiesto una camera matrimoniale...-

Senza alzare lo sguardo, prendo la pratica e leggo. Si, camera matrimoniale. Guardo la lista arrivi: è effettivamente assegnata la camera giusta, con letto matrimoniale.

-... spero non sia un problema...- prosegue lei.

Con tono molto titubante.

Alzo lo sguardo dalle mie scartoffie. Sguardo leggermente sospettoso. Giusto perchè mi piace aggiungere un pò di suspence.

-Perchè dovrebbe esserlo?-

E sorridono. Tutte e due.

Lei e lei.

-Avete comprato una camera. Avete fatto una richiesta legittima. E noi vi accontentiamo-

Due sorrisi che si allargano.

-E non è solo per l'acquisto di una camera qui dove lavoro. Siete qui per vedere Firenze, la mia città. E' ovvio che io, e miei colleghi, faremo il possibile per rendere il vostro soggiorno memorabile. Perciò, ecco qui una piantina della città-

E passo 10 minuti a dargli tutte le informazioni su musei e quant'altro. Perchè è giusto così. Perchè si deve vivere sereni.

E loro lo erano. Più di tanti altri.

Ringraziano. Prendono chiave e piantina e si avviano all'ascensore.

Mano nella mano.

Distolgo lo sguardo. Non per repulsione, assolutamente. Per pudore. Mi sembra di intromettermi in affari che non mi riguardano. E in effetti è proprio così.

E comunque, anche se alla fin fine la questione di fondo, quella decisiva per noi portieri, è che i clienti, chiunque essi siano e cosa abbiano deciso di essere nella vita, paghino il soggiorno, resta il fatto che dove c'è amore c'è famiglia.

E basta.

ps. bancomat o carta?

domenica 24 marzo 2019

Finlandesi.

Sono, senza ombra di dubbio, tra i migliori clienti che ci siano. Come tutti quelli della penisola scandinava sono cordiali ed educati. Salutano sempre ed adorano l’arte fiorentina. Pagano e non creano problemi. In più i finlandesi hanno nomi buffi come Lekakhula, Kakavonen, Muukka, Pirikkunen, Kakkula (giuro, tutti veri), insomma, una roba che va dai racconti per bambini alla Gianni Rodari ai film scurrili alla Alvaro Vitali: in ogni caso ci si fanno due risate tra colleghi.

Ma ovviamente, anche con loro non mancano casini di vario genere.

Mi capitarono, ormai quasi venti anni fa, un nutrito gruppo di finnici, una trentina di persone, quasi tutti belli anzianotti, anche sopra gli 80 anni. Probabilmente reduci della guerra d’inverno coi sovietici. Insomma, duri ma col sorriso. Rientrano la sera dopo cena, e mi chiedono dei bicchieri in vetro perché hanno comprato del Chianti e non è carino berlo nei bicchieri di plastica. E ci mancherebbe anche. Così gli indico il bar, e mi avvio a prenderli. Mi giro per vedere se mi seguono, e infatti uno di loro mi viene dietro, uno dei più anziani.

Troppo anziano.

Inciampa e va a sbattere la testa conto lo spigolo del cassapanca di legno all’ingresso del bar. E’ una bella cassapanca, avrà un paio di secoli. Legno duro, massiccio, ci teniamo dentro la carta intestata. E’ ovvio che tra una capoccia finlandese e una cassapanca toscana non c'è proprio partita: la Toscana vince.

Essendomi, proprio in quel momento, girato, mi sono visto tutta la scena, ce l’ho ancora in testa al rallentatore: il vecchietto di Helsinki che incrocia le gambe e va giù di testa come come un tuffatore in piscina, e la capocciata sulla cassapanca.

Mi rendo subito conto che s’è fatto male di brutto. Lui si rialza e dice "Ok, ok!" Ma ok un tubo, grondi sangue che sembri appena uscito da un episodio di Band of Brothers! Lo costringo a mettersi a sedere e gli osservo la testa: tra i radi capelli bianchi si nota un bel taglio profondo, con il sangue che scorre copioso. Perchè non ha battuto pieno, ma di striscio sullo spigolo. E in quel momento, lui fa per rialzarsi; lo inchiodo subito alla sedia: ma te sei matto! Hai scansato i proiettili russi, lassù in Lapponia nel ’40, e ti fai dissanguare qui da una cassapanca toscana? Nel mio hotel??? Ma te sei fuori! Ordino alla moglie, che da brava nordica ascolta disciplinatamente senza interrompermi, che il marito non deve alzarsi, assolutamente. Lei capisce e gli appoggia la mano sulla spalla; e lui lì fermo e zitto, chiaro indice di sottomissione alla parte femminile della famiglia (cosa che peraltro avviene spesso anche a casa mia…). A quel punto mi fiondo alla cassetta del pronto soccorso, vedi che il corso a qualcosa è servito? Inzuppo il cotone di disinfettante e torno dal finnico; appoggio il cotone sulla ferita ed ordino alla moglie di tenercelo bene, premendo con forza, cosa che fa subito (il marito ormai è rassegnato e subisce in silenzio. O forse si è reso finalmente conto che trattasi di cosa seria, visto che quel che gli cola lungo la guancia e gli macchia i vestiti non è sudore, ma sangue). Quindi mi previpito al telefono per chiamare il 118.

Ovviamente comunico subito all’operatrice il problema: il taglio sulla testa che perde sangue, ma che il soggetto sta bene e non è in pericolo di vita. La tipa mi dice ok bravo ora non lo tocchi più ed aspetti l’ambulanza. Bene, mi tranquillizzo, anche perchè sto tremando come una foglia. Io, il mio, l’ho fatto. Ora devo solo attendere gli esperti del settore, affinchè compiano il loro dovere.

L’ambulanza arriva in pochi minuti, e i soccorritori si precipitano dentro… smollando l’ambulanza nel mezzo alla strada. Ovviamente bloccando il traffico. Dopo neanche 3 secondi che i paramedici sono al capoccia nordica dentro un tassista che si lamenta del parcheggio selvaggio dell’ambulanza. Al che il paramedico ribatte che lui ha un’urgenza e quando ci sono le urgenze non sta a sottilizzare e gli altri si attaccano perché può esserci un pericolo di vita, e la vita viene prima della fretta di un tassista… non ha tutti i torti, ma io avevo detto all’operatrice che non era urgente. Vabbè, dopo il breve battibecco (ho il mio daffare a calmarli, perché avevano già cominciato ad alzare la voce enteambi, e quando due fiorentini alzano la voce si possono superare i 200 decibel), il paramedico torna sull’ambulanza e la parcheggia… meglio (con una ruota sul marciapiede, di traverso… ma comunque le auto ed i pedoni passano… più o meno…), quindi torna dentro ad assistere la collega paramedica che sta esaminando la ferita. Si portano via il danneggiato, che tornerà in albergo dopo un paio d’ore, con un’evidente fasciatura in testa a coprire i punti che gli avevano applicato. Li mostrò orgoglioso a tutta la combriccola, il giorno dopo alle colazioni e io, che ero presente perchè avevo pomeriggio-mattina, notavo interessato che tutti lo guardavano con una strana ammirazione.

Un italiano sarebbe stato additato come un pirla.

Ah, particolare interessante: la moglie non seguì il marito nell’ambulanza fino all’ospedale. Smollò il marito ai paramedici ed andò a dormirsela in camera. Non so se fosse freddezza tra coniugi o freddezza nordica; all'inzio propendevo per la seconda ipotesi, ma poi mia moglie mi fece notare che molto probabilmente la signora finnica voleva bersi il famoso chianti con gli altri componenti della gita.

Evidentemente sopra i 60 conta più l’alcool dei rapporti tra coniugi.

Spero solo in quel di Helsinki.

lunedì 11 marzo 2019

Qui sul libro delle facce c'è questo giochetto, uno dei tanti, sul postare un libro e taggare amici. 10 libri, uno al giorno, nessuna spiegazione.

Io faccio come mi pare. Essendo stato taggato, me la gioco a modo mio.

Un libro e una spiegazione di 30 cartelle dattiloscritte. D'altra parte, facebook e un qualsiasi blog -come questo- lo permette. Perchè limitarsi a pochi caratteri quando si può scrivere in abbondanza? Lasciarsi andare alla furia creativa digitando freneticamente sulla tastiera? Non siete presidenti degli Stati Uniti con i capelli arancioni e una pancia grande quanto un planetario, con la misera limitazione di twitter e poco cervello: sdatevi.

Quindi mettetevi comodi, che è lunga.

Nei primi anni '90 ero solito comprare, oltre ai fumetti della Bonelli (ho una mega libreria marca svedese stracolma di Mister No, Dylan Dog, Tex e Martin Mystere) anche Linus; celebre rivista di fumetti chiamata come il noto personaggio dei Penauts, fu la prima a portare questa striscia in Italia. E la prima anche a portare un altro capolavoro fumettistico di cui ora parlerò.

Prima però questa:

In fondo alla rivista c'era questa pagina di annunci.

Oggi c'è la rete, e si trova veramente di tutto. Si fanno amicizie nei modi più disparati e ci comunica con perfetti sconosciuti senza stare troppo nel dettaglio. Di tanto in tanto, su questo forum sociale, mi arrivano anche richieste di amicizia da parte di avvenenti figliuole dalle procacissime forme. Profili falsi, creati adeguatamente allo scopo di attirare i 50enni come il sottoscritto.
Rifiuto tali amicizie solo perchè non sono nipotine di capi di stato mediorientali e perchè non ho una cantinetta adeguata al bunga bunga (se avessi una cantinetta, sarebbe perennemente apparecchiata con un wargame).
Ma nei primi anni '90 c'era, appunto, Linus. E questa pagina di annunci.

la stragrande maggioranza era roba da cuori solitari. In fondo Linus non era una scelta sbagliata. Chi leggeva quei fumetti, e soprattutto ne capiva il senso, erano menti indubbiamente più elevate che non le lettrici di Cioè o i maniaci del Guerin Sportivo. Speravano, costoro, di trovare la/il compagna/o di vita dalla cultura abbastanza elevata.

Io mi chiamo fuori, non mi sono mai sentito così elevato.

Comunque mi piaceva la rivista. Ma accarezzavo anche l'idea di trovare amicizie fuori dalla cerchia scolastico-fiorentina. Misi un annuncio. Solo scambio di semplici lettere. Niente ricerche di cuori solitari; a quei tempi il mio unico amore era la sfera. Intesa sia come da calciare sia come vista calciata. E quando dovevo osservarla era obbligo farlo dalla Fiesole. Soprattutto in quegli anni, quando un certo bomber argentino la scaraventava nelle porte avversarie.

Non divaghiamo.

Mi rispose una ventina di persone. A parte un ragazzo, erano tutte donne.

Mi scrissero da tutte le regioni d'Italia. Non scherzo, praticamente tutte. Anche il mistico Molise. Esiste. Giuro. Mi scrivevano da Campobasso (su Isernia, mantengo riserve)

Ovviamente dovetti anche provvedere a una scrematura. Non potevo certo mettermi a scrivere a tutte. Sarebbe diventato un lavoro. Poi, col tempo, persi molti contatti. E' fisiologico avvenga. Almeno così credo.

Con Marina Silvia, no.

Con lei, per qualche strana, splendida, stupefacente ragione, abbiamo trovato una simmetria comune. Un qualcosa che ci faceva dire "non smettiamo. Continuiamo a scriverci. A dirci quel che ci frulla per la testa. Finchè ci va".

Ci va tutt'ora.

Ok, abbiamo smesso con le lettere vere e proprie. Quelle scritte a mano, con l'emozione di trovare la busta della lettera affrancata nella cassetta della posta. Il piacere unico della lettura di chi ha speso tempo ed energie per muovere una penna su di un foglio di carta. Adesso abbiamo il libro delle faccie e, in subordine, whatzapp.

Ovviamente abbiamo anche avuto l'onore di incontrarci di persona. Conosce mia moglie, di cui hanno in comune la regione Lombardia, e sono entrambe donne di grande cultura e intelletto.

Silvia (io la chiamo col suo secondo nome, in onore di una biondina che mi garbava quando avevo 16 anni, sono passati 30 anni, chissà com'è andato, il viaggio di una vita lì con te -cit. Ligabue- Silvia originale) abita a Milano e fa l'avvocato.

Adoro immaginarmela mentre si alza in piedi ed esclama "Mi oppongo!" e battersi strenuamente contro il procuratore distrettuale. Non è colpa mia. Ho guardato troppo i telefilm americani per immaginarmi i processi italici. Non avendo mai -per fortuna- preso parte ad un processo, non so come funziona qui. Inoltre Silvia parla spagnolo a un livello che io posso solo sognarmi, avendolo studiato il giusto per capire che "una almoada mas" significa che il cliente chiede un cuscino supplementare in camera. E spero nient'altro.

Alla Silvia dedico Bill Watterson.

Perchè un fumetto e non un libro?

Intanto perchè lo scoprii proprio tramite Linus, che ne pubblicava regolamente le strisce, e poi perchè Calvin & Hobbes è grande cultura. E' uno dei fumetti più straordinari mai creati, e sono sempre stato dell'idea che non si può assolutamente delegare alla sola letteratura la diffusione del sapere, il piacere della conoscenza, il gusto della scoperta di nuovi orizzonti. O quel che è. Da questo punto di vista ero, e sono, favorevole al premio Nobel a Dario Fo e Bob Dylan. Se non siete d'accordo, gne gne gne.

Calvin -spiego per chi non lo conoscesse, e raccomando una sua lettura- è un bambino di 6 anni con una tigre di pezza -Hobbes- che nella sua mente è un essere vivente dotato di propria personalità. Nelle strisce in cui sono presenti solo loro due, Hobbes è vivo e interagisce col suo amico umano, con tanto di conversazioni anche approfondite. Quando nelle strisce appaiono altri personaggi (principalmente i genitori di Calvin) Hobbes è una normale tigre di pezza.

La straordinarietà del fumetto sta proprio nella fantasia scatenata del ragazzino, capace di stravolgere la sua realtà spesso banale (la scuola, il bullo che lo tormenta, le regole imposte dai genitori o dalla baby-sitter) in avventure speciali e totalmente fuori dal normale. Così maestra, genitori e baby-sitter diventano mostruosi alieni mentre lui, che incarna ora l'astronauta Spiff ora Stupendus Man (con tanto di maschera e mantello), vive straordinarie avventure stracolme di libertà. Per me Watterson merita il premio Nobel alla letteratura. Assolutamente.

Due mesi fa venne in albergo un'allegra famiglia americana: genitori e figlia di pochi anni. La piccola aveva con sè un cagnolino di pezza. E ci parlava. Smise di farlo solo nel pochi secondi in cui i genitori discutevano con il portiere dell'albergo (io) per la chiave della camera. Ma potevo benissimo vedere, nei suoi occhi, un cagnolino vero e proprio.

Lo teneva in collo, lo accarezzava, lo stringeva come si fa per un bene preziosissimo, un oggetto caro e personale, una persona amata.

Ecco, il termine giusto è proprio quello: una persona amata.

Lo abbiamo avuto tutti, un peluche, un giocattolo, un balocco che ci teneva compagnia quando eravamo piccoli, e che era vivo. Ai nostri esclusivi occhi. La Sara, laureata in scienze dell'educazione, direbbe che è un "oggetto di transizione". Io ci vedo il primo vero, e forse più sincero, amico.

Non ricordo quale era questo mio amico. A quei tempi giocavo con i soldatini Atlantic. Tedeschi e inglesi che si combattevano in perenni e strenue battaglie (gli inglesi in divisa kaki e pantaloncini, quindi truppe dell'8^ Armata). Già allora il mio aspetto ludico-guerriero era emerso prepotentemente (e sono uno che ha fatto il servizio civile e non possiede il porto d'armi).

Di amici veri non ne ho tanti. Alla fin fine sono un tipo solitario. Mi piace, quando non ho la famiglia in giro per casa, starmene seduto sul divano a digitare sul pc. Leggere. Progettare giochi da tavolo che non verranno mai pubblicati. Giocare su board game arena. Si, anche stirare e pulire casa (mi obbligano).

Però Marina Silvia è una delle mie amiche.

Le dedico il libro. Rigorosamente in inglese.

(sapendo del suo amore per la lingua iberica, avrei potuto dedicargli Mortadelo y Filemon. Capolavoro assoluto. Magari, un'altra volta)

 

venerdì 8 marzo 2019

C'è una cosa che accomuna tutti noi umani con qualsiasi altro elemento, animale, minerale e vegetale, di questo pianeta, anzi, di questo universo conosciuto.

La data di scadenza.

Perchè non vale solo per yogurt o quotidiani di satira, come diceva Michele Serra. Vale anche per tutti noi (e spero che quella di tutti noi sia il più in là possibile) e le cose che ci circondano.

Farò un esempio pratico:

Qualche anno fa ero in turno pomeridiano. Mentre mi accingevo ad arrivare all'albergo ero continuamente fermato da indiani che mi offrivano, alla modica cifra di 5 eurini, un mazzettino di mimosa, elegantemente avvolta in un cellophane trasparente con fiocchettino rosa allegato. Erano le 14.30 dell'8 Marzo.

Verso le 21, in un momento senza clienti al bancone, mi affaccio un attimo per aprire e far entrare un po' d'aria fresca, quando un altro indiano, lì sul marciapiede, si avvicina e mi offre anche lui un prodotto della festa delle donne: 1 euro. Approssimandosi la data di scadenza del prodotto, il suo costo subisce un crollo vertiginoso modello venerdì nero di wall street. Presumo che, all'uscita dall'albergo dopo il turno, verso le 23, avrei potuto trovarlo anche a 50 centesimi. Dopodichè alla mezzanotte l'invenduto avrebbe preso la via del cassonetto. Prodotto scaduto, fine della vendita.

Ora, chi legge il mio blog è in prevalenza un collega, cioè un albergatore, quindi uno che sa di cosa sto parlando. E confido nel fatto che chi non lo è capisca che una camera d'albergo ha la stessa data di scadenza delle mimose dell'8 Marzo: la mezzanotte. Magari il portiere di notte, se è fortunato e bravo, riesce anche a vendere una camera pure alle 4 del mattino a chi passa nottetempo, ma su internet, nelle varie piattaforme di vendita, il giorno finisce. Scaduto, stop, fine dei giochi; il prodotto (le camere invendute) è marcio e prende la via del cassonetto (virtuale). Si passa alla vendita del giorno successivo.

Ma il problema è che non tutti sono intelligenti come voi che leggete. Certa gente non ci arriva proprio.

Telefono.

-Hotel xxxxxxxx buonasera, sono Marcello, come posso aiutarla?-

-Siiiii.... mmmhhhhh... ecco..... si, 'nsomma, se volemo fa un soggiorno a Firenze, che me sa dì er prezzo?-

Ora, voi capirete che una voce femminile, presumibilmente di mezza età, che esordisce così, non è proprio il massimo della clientela desiderata da un portiere. Mancano diversi e numerosi fattori fondamentali, in particolare:

-a) quante sono le persone che soggiornano;

-b) in che date volete soggiornare;

-c) un "buonasera", elemento forse anche più gradito.

Ma il mutuo che grava sulle spalle di noi portieri esige che ci si comporti a modo per finalizzare la vendita, quindi cerco di sfruttare tutta la mia esperienza sul campo.

-Certamente signora. In che date volete venire a Firenze?-

-Dar 3 ar 5-

Dato che il 3 era già passato, presumo che si stesse riferendo al mese successivo. Perciò vado sul sistema ed imposto già il mese per far uscire le tariffe. Nel frattempo, pongo un'ulteriore domanda alla signora:

-Camera matrimoniale presumo-

-Si certo, 'na matrimoniale, ma che se pensa, che vengo sola?-


Mi garberebbe risponderle "Sounasega io che vuoi fare della tua vita", ma devo essere professionale. Palla avanti e pedalare, ecco le tariffe:

-Bene, signora, una camera matrimoniale arrivo il 3 partenza il 5. Il costo, comprensivo di prima colazione e tassa di soggiorno, è xx € a notte-

La signora, senza neanche rispondermi e abbassare la cornetta, si mette ad urlare.

-A Frà, a camera costa xx euri, che ne pensi? A' prendemo?-

E da qualche altra parte di quella casa, che ho chiaramente definito trovarsi nella Capitale o quanto meno nei prossimi dintorni, il marito risponde anche lui con voce a 564 decibel, ben udibile anche dal sottoscritto:

-Daje!-

Frà è uno di poche parole. Ma concise.

Agguanto un foglio per le prenotazioni e trascrivo tutti i dati necessari: data di arrivo e partenza, cognome dei clienti, tipologia e costo della camera, numero di cellulare del cliente. Quindi gli chiedo un prepagamento per la prima notte.

E questa cosa non gli torna affatto.

-Ma perchè dovemo pagà se nun semo ancora rivati?-

Così passai almeno 30 minuti 30 a spiegare alla signora che in alta stagione abbiamo bisogno di una garanzia per la vendita della camera. In bassa stagione possiamo anche prendere la prenotazione non garantita con tempo limite (se il cliente arriva entro quell'ora bene, altrimenti rivendiamo la camera) tanto abbiamo molte camere che rimangono vuote perchè è, appunto, bassa stagione. Ma che in alta stagione non è così, e se non la comprava lei la rivendevamo subito ad un altro signor Rossi, o Smith, o Yamasa, che voleva venire a visitare Firenze.

Non c'era verso, non lo accettava.

-Mi scusi, ma io nun ve pago. Nun la pago una cosa che ancora nun c'ho! Ho viaggiato in tutti l'alberghi der monno e nun m'hanno mai chiesto una cosa simile-

E' sempre così, quando a qualcuno c'è qualcosa che non va, noi siamo l'unico albergo del pianeta dove si chiede una carta di credito od un prepagamento. Non lo fa nessun altro. Solo noi siamo i cattivi. Perchè il cliente ha sempre ragione. La signora ha viaggiato "in tutti l'alberghi der monno". Ormai è l'esperta mondiale in vendita alberghiera.

Alla fine, preso dallo sfinimento, le proposi un tempo limite per le 12. Venite qui, vedete la camera e la pagate. Ma se non siete qui entro mezzogiorno, io la rimetto in vendita.

-Ma perchè? Ma se noi se volemo facce un giro e venì la sera?-

-Signora, le ripeto: io devo avere la garanzia della vendita della camera. Se voi non venite la camera mi resta invenduta, per il 3-

E questa se ne esce con la dimostrazione che il suo cervello era posizionato su "off". E soprattutto, che è bene non mangiare a casa sua, non sia mai che metta al fuoco una braciola scaduta il 22 novembre. Del 1992.

-Vabbè, si nun vendete la camera er 3 la rivendete er 4, che problema c'è?-

A quel punto lasciai perdere. Mi limitai a dirle che quelle erano le condizioni, e poteva solo prendere o lasciare. Lasciò.

La data di scadenza, per questa tipa, non esisteva.

Ne ho dedotto che a fare la spesa e preparare da mangiare, in quella casa, ci pensi Frà.

A' Frà, semo tutti con te.

Foppedittelo.