sabato 19 dicembre 2020

 In tanti anni di portierato alberghiero mi è capitato di incontrare anche i calciatori. Due, a essere precisi. Entrambi avevano giocato negli stessi anni di Maradona e Paolo Rossi. Per questo mi sono tornati in mente.

Ovviamente non hanno soggiornato in albergo quando erano ancora professionisti. Perchè quando sono in attività, se giocano nella Fiorentina hanno casa qui, se invece giocano contro la Viola soggiornano, con tutta la squadra, in un albergo lontano dal centro, dove può posteggiare il pullman della società.

Passarono da dove lavoro da ex professionisti.

1: Uno famoso. Uno bravo. Uno che vinse. 

Era con una ragazza con vent'anni di meno e venti centimetri in più. Dormirono -eufemisticamente, immagino- in albergo. Ero di turno il pomeriggio del loro arrivo e la mattina dopo, alla partenza.

Lui: elegante, rasato, curato. Lei: faceva voltare la testa anche alle statuine del presepe.

Arrivano in auto. Lui un macchinone che avrebbe ripianato il mutuo del sottoscritto e di tutto il condominio, lei in smart.

Mi chiedono, dopo accurata reciproca ispezione laringoiatrica lì, davanti al bancone in attesa del loro turno, se alla partenza possono pagare in assegno. No, mi spiace, non accettiamo pagamenti con tale metodo, peraltro ben indicato da apposito cartello proprio al bancone, davanti a me. E il garage? Stessa cosa, non lo accettano. Contanti o carta.

La mattina dopo, dopo colazione, scendono per il check-out e, come mi immaginavo, tirano fuori il libretto degli assegni. E pretendono di pagare con quello.

Fu una dura mattinata. Di litigo. Di arroganza. Di presunzione. Come successo con tanti altri clienti non vip. Ma questo me lo ricordo bene perchè è, appunto, uno che ha giocato nel calcio professionistico.

Ovviamente sia io che il garagista tenemmo il punto: carta o contanti. Era ovvio che non gli avremmo fatto un favore solo perchè da giovane aveva fatto sfracelli con la palla. Pagarono e andarono via sbraitando. 

2: venti anni fa, come allenatore della Fiorentina, arrivò il turco Terim. Vennero a vedere una partita due suoi connazionali, che, mi dissero, giocavano a calcio nel Galatasaray proprio con Terim, quando erano giovani. Quindi anche loro ex professionisti e, indubbiamente, riconosciuti da tutta la Turchia -il calcio turco degli anni '70 non era decisamente così famoso, qui- Gentilissimi, nessun problema, nessuna arroganza, alla partenza lasciarono al bancone una maglia del Galatasaray per un altro ex calciatore, che fa collezione. Costui, vincente, famoso e che vive a Firenze, passò in albergo qualche ora dopo:

-Buongiorno, sono venuto per...

-La maglietta, certo, eccola qui (l'avevo appoggiata sotto al bancone)

-Grazie, grazie, gentilissimo.

Due battute due, ma simpatico, affabile, cortese.

Se mi dovesse capitare un altro ex calciatore, spero sia del tipo 2.


lunedì 7 dicembre 2020

 E' molto difficile che noi portieri si faccia amicizia con i clienti. Intendo vera amicizia, ovviamente. Non una semplice conoscenza.

In più di venti anni di lavoro d'albergo ho fatto vera amicizia con due clienti. Uno è Simon, l'inglese di Manchester che mi lasciò, in fedele custodia, la sua chitarra. E che gli rendo tutte le volte che viene in Toscana. Beh, veniva. Aveva programmato di tornare a Luglio, ma è saltato ogni cosa. L'avevo già invitato a casa mia, per una cena, ma per il motivo che tutti sapete, è saltato tutto. Per ora.

Chi riuscii a invitare, molti anni fa, è Regina.

Regina è americana del Connecticut (e come orgogliosamente tiene a precisare, lo stato ha votato Biden), ha poco meno dell'età di mia madre e in passato era praticamente di casa, all'albergo. Voleva sempre la stessa camera, dalla cui terrazza si può vedere il Duomo. Ci stava anche due settimane, con puntate in altre zona d'Italia, soprattutto nei posti dove suonava Sergio Cammariere, di cui lei è una "groupie", come la Sara per i Take That. Comunque lei ha fatto amicizia davvero con tutti i dipendenti, ricevendo vari inviti. Io la invitai a cena a casa due volte, e lei portò dei regali per le figlie, quando erano ancora piccoline. Ad esempio due calze da befana personalizzate per loro. E gigantesche, per riempirle mi parte una rata del mutuo; i dipendenti della Ferrero hanno la mia fototessera in tasca, tipo santino.

Ma non è di Regina che voleva scrivere, bensì di suo padre Joseph. Il loro nome di famiglia è Kiska, che tradisce una lontana origine ungherese, ma da generazioni sulla costa orientale degli States.

Joe nacque nel 1920, da una famiglia decisamente numerosa -4 fratelli e 5 sorelle- e crebbe negli anni delle grandi spedizioni aeree. Il periodo dove dei matti spericolati percorrevano miglia e miglia su trabiccoli in legno e tela. Spesso rimettendoci la buccia. Ma non per questo meno ammirati, anche se il più amato di tutti fu quello che non cadde mai, cioè Lindenbergh. Perchè erano i suoi anni. Quelli delle grandi trasvolate.

Joe si innamorò di quegli eroi e del volo. Della conquista dell'aria. Del grande sogno dell'uomo di imitare gli uccelli. Così imparò a volare. Su un biplano, come avveniva in quel periodo.

Ma un biplano monomotore non poteva bastare, a Joe. Lui era uno che non si accontentava. Un motore era troppo poco. Neanche due. E nemmeno 3. Joe voleva andare al massimo.

1944. Inghilterra. Sui campi del sud dell'isola si trova la Mighty Eight, l'ottava forza aerea statunitense. Sono dotati dei migliori ferri del periodo: 4 motori Wright "Cyclone" da 1200 cavalli ciascuno, 13 Browning da 12,7 mm, 3000 chilogrammi di bombe da lanciare sulle fabbriche nazi.

Ragazzi di vent'anni, piloti, navigatori, puntatori e mitraglieri, che volano sul continente con il loro carico di distruzione -da wargamista, adoro questi termini- e compiono il loro dovere. Come facevano anche tanti altri, in guerra. Dentro scatole in acciaio con i cingoli, o in navigazione sull'oceano, o come semplici fanti armati di fucile e granate. E' così. Tremendo, crudele, atroce. Senza retorica.

Joe affrontò la guerra con il coraggio e la spavalderia dei suoi anni, oltre alla ferrea volontà di combattere il fascismo. In divisa è uno splendore, un sorriso solare che mostra tutta la forza dei suoi 22 anni. E' grazie a ragazzi come lui se io, ai miei 22 anni, indossavo una maglia da calcio e non la divisa militare.

Mentre erano in volo sulla Germania lo squadrone di B-17 viene attaccato dalla flak, la contraerea. In quel momento Joe, che era il secondo pilota, si trovava al posto del primo. Viene ferito, e l'aereo è duramente colpito. Devono lanciarsi, e sono sopra il territorio nemico. Lui e i sopravvissuti sono quindi presi prigionieri e finiscono in uno Stalag, un campo di prigionia. Ci resterà 13 mesi, prima della liberazione. 

La foto più bella è quella fattagli dai tedeschi, per l'identificativo del prigioniero. Si può vedere la sua spavalderia, la sua arroganza di fronte al nemico. Il suo sorriso sardonico sembra che dica "anche se mi avete catturato, i miei commilitoni arriveranno presto, cari i miei Fritz, e vi prenderanno a calci in c..."

Dopo la guerra Joe si dedicò a tutt'altro impiego: andrà a lavorare in campo ottico, tra l'altro collaborando anche al progetto del telescopio Hubble. Ma continuò ad avere la grande passione del volo aereo. Tra l'altro costruì una replica di un Focke-Wulf 190, e ci volava nel tempo libero. Un caccia del nemico, di quelli che tentavano di abbattere i B-17, perchè Joe non portava rancore e odio, e ammirava la tecnologia. Mi sarebbe davvero piaciuto vedere le espressioni degli abitanti del Connecticut nel vedersi sorvolare da un caccia con la croce teutonica (e pure la svastica). Poi anche lui, come me, ebbe due figlie, quindi non poteva non essere una persona speciale.

Non ho mai avuto l'onore di conoscerlo, purtroppo. Joe morì a 91 anni, nel 2012. Regina mi inviò le foto del funerale: ad Arlington, il cimitero di guerra statunitense. Quello come noi europei vediamo nei film, con la bara coperta dalla bandiera e portata dal carro trainato dai cavalli, e la squadra di soldati, in uniforme da parata e guanti bianchi, che spara in cielo le salve di fucile.

Tutto qui. La storia di un ragazzo del '20 come mio zio, anche lui militare e sopravvissuto, di cui ho già raccontato molto tempo fa. Ma il racconto non termina qui. Per chi è pratico d'inglese, vi lascio il rapporto di Joe sull'ultima missione, scritta nel capo di prigionia e, molti anni dopo, trascritta da Regina leggendo i suoi appunti.

Vale assolutamente la pena. E se non sapete abbastanza l'inglese, non vergognatevi a usare il traduttore. 


Joseph W. Kiska

“My Last Mission - April 13, 1944”

written on August 31, 1944, while a POW at Stalag Luft I (Barth, Germany)

(transcribed from handwritten notes in pencil)

Was awakened by C.Q. at about 3:00 a.m.  I was already tired as I could only manage to get 5 or 6 hours sleep as we flew missions every day for the past few days.  I finally manage to leave my nice, warm bed and get into my cold clothes.  We all walked down to the mess hall to eat what we didn’t know but, to this day, that was the last egg I had.  Caught the jitney and rode to briefing, which was at 5:00 a.m.  We were briefed on what looked like a real long raid to me.  Augsburg.  The route certainly did look long time on the map on the wall.  Pavia, our left waist gunner, was grounded with frost bitten hands so he was replaced by Jim Cullan, who was going on his first raid.  

Take-off was for about 7:00 a.m.  I went to Q.M. with Radman to get him red sun glasses, everything went swell.  I passed around the escape kits and chocolate bars and gum.  We carried forty-two 100-lb. incendiary that day.  We were flying 016, which we flew on our first mission.  We flew over England as usual and, after we were formed, we were on our way.  We entered the Continent between Ostend and Dunkirk, seeing no flak.  We were at 16,000 till we got near Frankfurt, then we clinched to 21,000 ft.  We had 47s for escorts, and they stood in close.  703 dropped out of formation when we were pretty deep and we took his position as #3 ship.  The view was terribly good as you could see the snow on the mountains and the castles near that area.  We finally turned on our I.P. and we could see flak ahead.  It looked pretty intense but we thought nothing of it as we rode through it before, which was as bad.  

The Navigator was riding in Bombardier’s seat and he dropped the bombs a few moments early.  The Pilot never knew as he was on V.H.F.  [RK note:  Although dad was officially the “co-pilot,” he was in the pilot seat on this mission, the pilot in the “co-pilot” seat].  A few seconds later we were in the middle of it.  You could feel that they were pretty close as it sounded as if pebbles were thrown against the ship.  The top turret was hit and plexiglass spread.  About a second later my left hand felt ajar so I looked down; I had a flak hole in my hand and the blood spurted out.  I held my hand over it and it felt ok.   

The interphone system didn’t work; shifted radio around but no use.  Had to feather #3 engine as manifold pressure fell low and engine was only windmilling.  Engine #4 was afire so we feathered that and we dropped from formation and turned right, losing altitude.  The other engine didn’t seem to run right.  Flak was tracking us right along as we flew alone.  A 47 pulled up alongside.  It didn’t seem as we could make Switzerland so the pilot told me to get out.  I pulled the warning switch as I was on the pilot side.  I told Engineer to go out.  I pulled the emergency release on the bomb bay, then threw off oxygen and helmet and went up into the nose to tell Bombardier and Navigator to get out.  I left through the lower escape hatch.  It wouldn’t jettison so I just sat on it and slid off.  I cleared the bomb bay pretty good .

I was clear of the ship and I got the last glance about 150 feet below it and it was a strange feeling to see it pull away with #4 sending out a stream of smoke and flame.  I was kind of groggy but, when I hit the cold air, I was ok.  I could see the blood on my hand turn a light pink as it was freezing.  It sure was nice just floating through the air.  I dropped from about 20,000 to 10,000 feet before opening chute – what a jerk.  Everything seemed so quiet.  In my left hand was the ripcord, which I threw away and watched as it fell away.  As I neared the ground it got warmer.  I noticed large pine trees and I didn’t like the idea of landing in one.  I swayed back and forth, I could see farmers on plows as I neared the ground.  I could feel the warmth rising from the ground.  

I landed near a farm with a farmer with rifle, waiting.  I braced up for the landing and hit ok.  I opened the first aid packet on my parachute and put a compress on my hand.  Took my chute off and, by that time, a farmer with a rifle was frisking me.  I put up my hands and he was amazed to find that I had no small arms.  There were quite a few people in this village, which had many religious statues about.  I was taken to the first house and was given water to drink.  I ate some of the candy in my escape kit.  I soon got used to the people staring at me; they seemed to be pretty nice.  A little later, as the pain increased in my hand, I gave myself a morphine injection and laid down for awhile and fell asleep.  

I was awakened by a German officer who had a car waiting, and off we went.  Was about 5:00 p.m. then.  We drove for about 5 miles and stopped at a little town.  The scenery on the way was pretty nice, mostly farm land with cattle roaming about.  At this town I was joined by my Engineer.  At first I pretended not to know him.  We were then taken to another town where we went to a building where there were German enlisted men.  We were searched and everything was removed from my pockets.  We stand there for about a half hour where the men sure sized us up. 

I was then taken to a hospital where I had the piece of flak removed, and I spent about 3 hours there.  When I was gaining consciousness  after having ether, I was being questioned by nuns as to the target we hit.  They asked if we bombed Munich.  There were many German soldiers at this same hospital.  At about 10 I was taken to a truck where I saw the Bombardier and Navigator, also Engineer, but that was all.  I asked where the others were.  He said two of them were in the box on the truck.  They were the Pilot and Left Waist Gunner.  We were told to get on the truck.  We went about 20 miles not saying much all the way but sure did a lot of thinking.  I was lying down on the open chutes that have been collected from the crew.  

We finally arrived at where we got quarters for the night.   We were stripped of all belongings – watches, rings, identification tags.  Here I found out that the rest of the bodies were supposed to have been in the ship.  Also was told by the Navigator, who was the last one out of the ship, that the Radio Operator would not jump.  He was to have summoned the men in the waist and had as he went through.  The Bombardier and Engineer and Navigator went out the Bomb Bay.  The Navigator was the last one out alive, and he left at about 8,000 when the ship went into a dive.  He could not force the Radio Operator to jump, so he had to leave to save himself.  The Ball Turret Operator was in his turret when we hit.  The Radio Operator was at his table.  The ship burned on contact with the ground and blew up, leaving quite a crater.  

I slept exceptionally well, as I had  morphine injection and anesthesia.   Breakfast was coffee and hard bread – and I mean hard.   The weather was real warm, much warmer than England.  About noon the bodies were ready for burial, and we saw them for the last time.  They loaded them on a truck and they were off.  The guards were very social, we passed the time very fast.  We left at 7:00 that night for Frankfurt.  We changed trains a few times.  We talked with many German soldiers who were from the States.  One was from Milwaukee, Wisconsin.  At one stop the soldiers were infuriated when they lost their compartment to us, so we had to get off and wait for another train.  We saw soldiers from all branches and all kinds of uniforms.  We rode all night and got to Frankfurt the next noon, where we got interrogated .  We were only 2 hours in Solitary, then taken out to the regular camp across the street.  We stayed there [RK note:  at Dulag Luft] for 2 days – met about 7 or 8 of the other fellas from my group who were shot down a few days prior to me.  The place was pretty dirty, and I was glad to get out of there.  We finally left and rode on a freight train 2-1/2 days and arrived at Barth [RK note:  at noon on April 20, which was Hitler’s birthday?] 











mercoledì 25 novembre 2020

Ricordo che una volta, tanti e tanti anni fa, ancora non lavoravo neanche, ero un semplice studentello e non sono neanche sicuro che fossero le superiori, una volta, dicevo, morì una persona che i miei conoscevano.

"Bene che è schiattato! Ha fatto passare una vita d'inferno, a quella povera donna"

Questa era la frase che sentii dire. Che mi colpì. Oltre a tutta una serie di epiteti nei confronti del deceduto. Credo che sia l'unica forma di vera rivalsa che possiamo permetterci nei confronti dei violenti, delle persone cattive, degli autori di insopportabili soprusi: parlarne malissimo quando sono morti.

Non giudicai allora e non lo farò adesso. Ma devo ammettere che sono un pò anch'io, in quel modo.

Episodio di diversi anni fa, tornatomi alla mente proprio oggi.

Ero di notte quando vidi piompare giù dalle scale, come una furia, una ragazza abbastanza giovane. Era letteralmente sconvolta. Fece praticamente volare giù la valigia dalla rampa. Ma quel che mi colpì fu un ben altro particolare: un forte rossore su una delle guancie.

Mi disse che doveva andare via subito. 

Io le proposi di chiamare la polizia, ma lei disse subito di no. Voleva solo scappare, fuggire lontano.

Le proposi la stazione, dove avrebbe potuto prendere un treno, benchè al momento ancora fosse notte fonda e il primo treno del giorno non ci sarebbe stato per almeno un'ora. Lei disse di no: se lui esce e mi cerca?

Gli dico che è andata all'aeroporto.

No, la stazione centrale è troppo vicina all'albergo, voglio andare più lontano.

Aveva una paura folle. Il terrore puro.

Allora vada alla stazione di Campo di Marte. Dalle 5 in poi ci sono treni che vanno a Roma. O Arezzo. O comunque a sud. E' lontana, le chiamo il taxi.

Mi chiese la conferma, un pò titubante e sospettosa, e non potevo darle torto. Si, è una stazione lontana. Lui non la raggiungerà.

Lei uscì e aspettò, un pò tranquillizzata. Chiami subito il taxi sperando che lui non scendesse proprio in quel momento. Mi preparai anche a un eventuale scontro fisico, non avevo intenzione di farlo avvicinare a lei. Ma il taxi arrivò prima. Usciì e spiegai la destinazione al tassista -la ragazza parlava solo la sua lingua- poi le augurai buona fortuna. Lei ringraziò. E non potei non notare le lacrime che le scorrevanoo, solo in quel momento, lungo le guancie.

Pochi minuti, e scese lui. Con la valigia.

Non ricordo neanche la faccia, poteva avere l'espressione e i tratti delicati di Jake Gyllenhaal in Brokeback Mountain, gli avrei comunque offerto la mia accoglienza più gelida. Non mi alzai neanche in piedi, stavo seduto sul panchetto con il ginocchio appoggiato al bancone, digitando distrattamente sul computer e dandogli la minima attenzione. Stavo tentando di resistere alla tentazione di saltare il bancone e dargliene tante. Ma tante.

Chiese se una ragazza era passata di lì, come se io, in portineria, ci stessi per caso. Risposi di si, senza neanche guardarlo in faccia. Alla stazione, 5 minuti a piedi, poco più avanti dell'hotel. 

Mi dette la chiave e stava per andare via, al che lo bloccai e, piuttosto rudemente, gli chiesi se aveva intenzione di restare ancora, visto che aveva comunque un'altra notte già pagata. Lui mi confermò che non sarebbe tornato. Io neanche risposi; presi la chiave e stavo per rimetterla a posto, al che lui mi chiese una conferma: questa stazione qui?

Gli risposi che Firenze è piccola, e non ci sono altre stazioni. E lei aveva detto che voleva andare a Milano, c'è un treno alle 6.

Se ne andò definitivamente, quasi di corsa, per una ricerca inutile. Addebitai una notte ulteriore, feci uscire il conto -non c'era ancora la tassa di soggiorno, erano davvero tanti anni fa- e lasciai la nota ai colleghi del giorno che la camera era partita in anticipo. Nel frattempo speravo che, mentre correva da una piattaforma all'altra cercando lei, cascasse sul binario proprio quando stava sopraggiungendo il regionale da Empoli. 

Perchè se lo meritava tutto, di essere tagliato in vari pezzi dalle rotaie.

domenica 15 novembre 2020


Pensavo che la mia regione fosse già rossa, per quanto il partito al potere non sia proprio dello scarlatto inteso in senso politico. Da oggi comunque noi toscani lo siamo in senso di pericolo epidemico.


Non ho assolutamente voglia di ragionare su cosa è giusto e sbagliato, lo fanno in tanti, troppi. Qualcuno si è preso la responsabilità di questa decisione, e come è costume italico, chi non ha la responsabilità si dà alla critica. Personalmente so che una malattia potenzialmente mortale circola tra noi. E che bisogna averne paura e proteggerci. E che molti nostri concittadini la combattono negli ospedali. Rischiando tantissimo. Anzi, rischiando tutto.


Però non sono neanche il tipo che si fascia la testa. Ho voglia di un ultimo giro in centro città, prima che scatti il rosso. Protetto da mascherina e gel, evitando mezzi pubblici, usando le mie gambe e scansando tutti, arrivo sotto al Cupolone.


I miei sentimenti sono sempre stati contrastanti, in questi miei giri per il centro; intanto, lo ammetto, non posso non apprezzare la facilità di passeggio. Una volta era praticamente impossibile, c'era una folla continua di persone ovunque, anche nelle viuzze più minuscole. Si ascoltavano le lingue più diverse. Oggi sento solo il dialetto fiorentino e si cammina senza scansarsi continuamente. 


Tuttavia non posso non considerare che l'assenza di turisti ha demolito il mio mestiere. Gli alberghi sono chiusi e noi portieri siamo a casa. Lo stato ci paga la cassa integrazione, e tant'è. Si tira la cinghia e si risparmia il più possibile, anche se non riesco a non farmi mancare, almeno una volta al mese, l'acquisto di un bel libro e/o di un nuovo gioco da tavolo. Più spesso e che o.


Ma quel che mi manca veramente è il contatto con il turista. Con le persone che vengono a visitare la mia città, i monumenti, i suoi musei e le opere contenute all'interno. I sorrisi e la serenità, su visi di qualsiasi età, sesso, etnia, di chi vuole godersi una vacanza culturale. E, perchè no, anche i musi lunghi, le richieste arroganti, certa antipatia gratuita. Perchè, anche se questi clienti sono una minoranza rispetto agli altri, anche loro mi ricordano di quanto mi manca questo lavoro.


Ho bisogno di tornare dietro a un bancone. Di sorridere e dire buongiorno/buonasera. Di mostrare una mappa della città agli avidi di conoscenza. Poi dicono che sono i brasiliani, quelli che soffrono di nostalgia. Ho più saudade addosso di tutta Rio.


ps. ho fatto la foto senza occhiali perchè, con la mascherina, mi si appannano. Se proprio devo camminare a tentoni, tanto vale lo faccia senza. 

Sono più figo. 

Per un cinquantenne.


sabato 17 ottobre 2020


Una storia che avevo scritto e non ancora pubblicato. Di quando l'albergo era aperto.

Può sembrare brutto denigrare il proprio mestiere, ma a volte ho l'impressione che fare il portiere d'albergo sia un pò come vendere un'auto usata: devi convincere il cliente che il mezzo che ha acquistato è perfetto, rombante, affidabile. Anche se in realtà è un catorcio immondo con ancora il mangianastri e l'unico fattore positivo è che il precedente propretario ci ha lasciato dentro una cassetta degli Steppenwolf.

E in quel caso conta moltissimo il sorriso smagliante del rivenditore. Ovviamente.

Un bel pomeriggio dell'anno scorso mi si presenta una ragazza australiana. Dico ragazza, benchè abbia quasi la mia età, perchè ha dei lineamenti dolci, un viso pulito e un'espressione bella, sorridente. E poi ho bisogno di sentirmi giovane anch'io.

Ma non ci vuole molto a capire che è una cliente difficile. Di quelle che pretendono. E ha prenotato una singola.

Le singole, in un 3 stelle, non sono mai un esempio illustre di camere da evidenziare. Sono stanzette semplici e minuscole. Con un lettino largo appena 70 centimetri, se è un vero singolo. Magari a volte capita di trovare un letto "francese", più largo, ma stiamo parlando di un albergo nel centro di una città vecchia di secoli, non si può pretendere di trovare la piazza d'armi. Io personalmente non mi sono mai fatto troppi scrupoli: ho dormito in posti lillipuziani e con un grado d'igene appena sopra a quello dei personaggi western interpretati da Terence Hill dopo che sono stati trainati per tutta l'Arizona da un cavallo. Alberghi come quelli dove lavoro io sono superiori di infinte grandezze, e pur nel loro limite sono camere pulite e soprattutto perfettamente funzionali. Se uno è in grado di comprenderlo, ovviamente.

Le clienti come questa no. E lo intuisco subito.

Espletate le formalità del check-in, che avvengono con grande agilità perchè lei è una persona curiosa e interessante, con un alto grado di attenzione, spirito e la giusta dose di informalità, attendo che salga in ascensore al piano per poi cominciare la mia attesa. Breve.

Come immaginavo, la vedo uscire dall'ascensore dopo pochi minuti.

Non ha un'espressione contrariata, ma leggermente delusa si. E però è abbastanza sorridente. Ci si può lavorare.

E qui esce fuori il rivenditore di auto usate.

Pazientemente, le spiego che questa è la tipologia di camere singole a Firenze. In Italia. In Europa. Ovunque nel mondo vi siano centri storici costruiti quando ancora Colombo doveva effettuare la sua crociera transatlantica. Almeno per questa categoria di alberghi, certo. Pagando una fispola di soldi in più si può andare in strutture ricettive di categoria superiore e quindi ben altre camere. Ma nei 3 stelle sono così. Cerco quindi di evidenziare gli aspetti positivi della camera a lei assegnata.

In primo luogo, anche se si trova alla fine di un corridoio lunghissimo, modello Overlook hotel, la stanza è silenziosissima. Ben lontana dalla strada dove possono arrivare sia i rumori delle auto sia le urla belluine di strani personaggi inebetiti dall'alcool alle 3 del mattino. Il secondo punto a favore della camera è che il bagno della stessa ha la finestra. Non è un "bagno cieco", con aereatore, come sono la quasi totalità dei bagni albergheri: qui c'è una vera finestra. Da aprire per far entrare l'aria fresca.

Ci pensa. Nel frattempo le dico che altre camere singole disponibili, per quel giorno, non ne ho. Si può vedere per l'indomani, ma con affaccio sulla strada. Che può essere rumorosa.

E lì si rende conto che di tutti gli altri alberghi che ha visitato in Italia, quella è senza dubbio la camera più silenziosa in assoluto. Si convince. E' piccola, sia la camera che il box doccia, ma funzionale. Resta. E il giorno dopo non cambierà perchè ha dormito benissimo malgrado il materasso un pò duro a cui non è abituata, ma quella è una scelta della proprietà che segue gusti soggettivi.

4 giorni, e ogni volta che rientra in albergo sorride contenta. E serena. E felice della visita di Firenze. E saluta tutti. E mi chiama per nome. E alla partenza lascia al banco il questionario con varie annotazioni. Perchè comunque qualche lamentela non se la fa mancare, ma vabbene, ci sta. Il resto invece sono elogi. Per noi del ricevimento. Per me.

Quanto mi mancano, queste clienti. Queste persone. Queste piccole storie. Questa normalità.

Questo lavoro.


domenica 11 ottobre 2020

Immaginate un giovane ragazzo australiano che, alla fine dell'ottocento, osserva gli Ibis volare. 

 E' incantato da questi uccelli. Dal loro modo di spiegare le ali e librarsi in alto, nei cieli.

 Herbert John Hinkler -Bert, per gli amici- vorrebbe essere come loro. Desidera, più di ogni altra cosa, essere nell'aria. E si impegna a farlo. Comincia a studiare l'aerodinamica, allora appena agli albori. E quindi da autodidatta. Inizia con una serie di alianti. Piccoli aeroplanini in balsa che modella lui stesso, con cura e dettagli. Li prova, li testa a lungo, nelle campagne del Queensland. Sono più un gioco, un passatempo, che una vera attività. Ma la passione c'è. Tantissima.

 Ha 11 anni quando arriva la notizia che porterà questa passione a farne la sua ragione di vita. Dall'altro capo del mondo, sulla costa atlantica degli Usa, gli americani sono riusciti nell'impresa che in tanti attendevano: il primo volo di un mezzo più pesante dell'aria, realizzato dai fratelli Wright sulla spiaggia di Kitty Hawk, Carolina del Nord.

 Bert è eccitatissimo. Si può volare. E' possibile applicare un motore a scoppio a un aliante e trasformarlo in aereoplano.

 Da adolescente, si reca a una grande fiera a Brisbane. E lì vede, per la prima volta, un aereo. Un "Bleriot", una copia dell'apparecchio usato dall'omonimo aviatore francese per la prima trasvolata della Manica, da Calais a Dover. Ormai non ha più dubbi, quello è il suo destino. 

Costruisce con le sue mani un aliante vero e proprio, e con quello riesce a volare, seppur per poco. Ma per lui, ovviamente, non è che l'inizio di una grande avventura. Si imbarca -siamo ancora ai piroscafi, ovviamente- e si reca in Inghilterra, dove comincia a studiare i motori e le meccaniche degli aeroplani.

 Probabilmente rimarrebbe sempre un meccanico, se non fosse che, di lì a poco, scoppia la prima guerra mondiale. E Bert si arruola nella RAF. 

 All'inizio viene messo come mitragliere nei ricognitori. Non ha ancora appreso pienamente le abilità di manovrare un apparecchio, quindi deve stare dietro, a prendere immagini del fronte nemico dall'alto, e sparare contro i caccia tedeschi che vogliono impedirglielo.

 Sono aerei rudimentali, fatti in legno e tela, con pochi, scarni comandi. Per un mitragliere la situazione è ancora più tesa: se il pilota viene colpito, per entrambi è la fine. Nella prima guerra mondiale non si portano i paracadute: gli abitacoli sono troppo stretti.

 Bert deve fare tutto il possibile per salvare la vita a sè stesso e al suo pilota: i ricognitori non sono apparecchi da grandi manovre, come i caccia. Ma ha una mentalità innovativa, capace di vedere là dove i costruttori non arrivano; soprattutto, ha le abilità per farlo. Realizza, ad esempio, un sistema per far sì che i bossoli sparati, particolarmente caldi, non finiscano sul mitragliere, ma di lato. Un espediente importante, se il pilota sta manovrando per togliersi un caccia di coda e l'aereo è inclinato o addirittura capovolto. 

 Sempre più pratico, impara a volare e realizza un sistema per mantenere gli aerei dritti, perchè in volo tendono a virare e inclinarsi dalla parte di dove girano il motore e l'elica. Viene trasferito a una squadriglia caccia che opera sul fronte italiano, per dare manforte alle nostre truppe contro gli austro-ungarici.

 Alla fine della guerra, decorato dopo le numerose missioni e, soprattutto, sopravvissuto, si dedica anima e corpo al volo. Gli anni venti sono quelli eroici dei record aerei. Sono piccoli apparecchi, fragili ed estremamente semplici, ma guidati da uomini -e donne, come Amelia Earhart- dotati di tempra d'acciaio, e decisi a sfidare il destino. A portare il limite un pò più in là. Lo sport estremo di quegli anni, ruggenti, vibranti, tragici. Bert Hinkler è ormai parte di questo mondo. Vola in solitario con un piccolo apparecchio, stabilendo record su record. E' il primo a volare da Londra all'Australia, ovviamente in più tappe. Qualche anno dopo vola da New York fino al Sud America e, da lì, fino all'Africa. E poi verso nord fino a Londra. E' il il primo a trasvolare l'Atlantico da sotto l'Equatore. 

 Nel 1933 decide di volare ancora da Londra all'Australia. Lo farà con un aereo di nuovo tipo, un monoplano ad ala alta, più potente. Per battere il record di tempo e fare molte meno tappe. Decolla a Gennaio, per trovare un tempo migliore dal Medio Oriente in giù. Ma sull'Europa non è così. Le condizioni atmosferiche sono difficili. Problematiche. 

Bert però non è il tipo che demorde facilmente. La prima tappa è impegnativa: Londra-Bari. In realtà, per un trasvolatore come lui, quasi una passeggiata. 

 Ma a Bari, Bert Hinkler, non arriva.

Cominciano le ricerche, ma in un mondo privo di geolocalizzazione -i telefoni fissi sono ancora rarissimi- e dove alcune zone della penisola sono ancora selvagge, non è un'operazione semplice. Si cercano testimonianze, per ricostruire i movimenti del pilota. Si scopre che ha attraversato con successo le Alpi e la Pianura Padana. 

 Alcune persone del Valdarno riferiscono di aver udito il rombo di un motore su in alto, sopra le nuvole. Ma in Casentino, questo rombo non è stato sentito. La catena del Pratomagno, che divide le due vallate, a quei tempi era ancora poco praticabile. In inverno sopratutto. Salire lassù significa farsi più di venti chilometri di sentiero a piedi, e con una spessa coltre di neve.

 Dopo quasi 3 mesi dalla scomparsa, due carabinieri, coadiuvati da due pastori che vivono sulle pendici, salgono in cima.

 L'aereo, o almeno quel che ne resta, è lassù. Il corpo del pilota qualche metro più in là. Ha tentato un atterraggio di emergenza, probabilmente per un guasto meccanico, ma il povero australiano non ha avuto fortuna. Scaraventato fuori dalla cabina di pilotaggio, nel contatto dell'apparecchio con il suolo, è deceduto sul colpo. I documenti personali non lasciano adito a dubbi, sulla sua identità.

 L'Italia, in quegli anni, è sottomessa a un governo che, della retorica dell'eroismo, fa uno dei suoi vanti. Il corpo del pilota viene traslato a Firenze e sepolto, con gli onori militari, al cimitero degli Allori, dove riposa tutt'ora. Nel punto in cui venne ritrovato l'apparecchio viene eretto un cippo. Una pietra con una targa a ricordo. 

 Ci passo ogni anno, da lì. Salgo su fino al crinale, in una lunga passeggiata che porta fino alla cima. Quest'anno, per la pausa causata dall'epidemia, ci sono stato ben più di una volta. Bert era un pilota degli anni eroici, di quelli che vivevano al limite. Che praticavano lo sport estremo di quei tempi.

Ciao Bert. Alla prossima estate.

giovedì 1 ottobre 2020

Vengo qui, con questa mia, a esprimere le lodi e profondo ringraziamento per l'attenzione di cui sono stato oggetto da parte del personale del pronto soccorso di Careggi.

 Sabato non mi sentivo bene. Avevo un doloretto al petto, dalla parte destra. Abbastanza all'interno. Lo avevo sentito bene già venerdì sera, nella posizione seduta del posto di guida dell'auto, soprattutto alle sterzate. 

 Dato che avevo anche un pò di mal di testa, il mio timore era che il mio organismo fosse stato assaltato dai covidi, i perfidi animaletti che possono annidiarsi ovunque. Neanche a pensarci, chiamo guardia medica prima e 118 dopo: vada al pronto soccorso. Sono le 13, le ragazze sono spaventate al massimo, ma sono grandi da affrontare la realtà e, soprattutto, di farsi la pasta da sole. Indosso l'armatura necessaria -visiera e guanti d'acciaio, come quello di Ash ne l'Armata delle Tenebre- e mi reco sul posto. 

 La mia prima idea è che mi sottopongano al tampone, e invece no. Almeno, i medici dicono che i sintomi sono troppo pochi. Mi fido perchè le uniche mie conoscenze mediche vengono dalle serie tv americane. A scans equivoci, faranno un controllo. Mi devono prelevare il sangue. Arterioso. 

 Me lo ricordo perchè dovetti sottopormi 30 anni fa, a tale esame, quando giocavo al pallone e le associazioni facevano controllare l'ossigenazione del sangue dei calciatori. E' molto più doloroso di quello in vena. Il dottore è bravo, ma ho una soglia del dolore bassissima, mi mette ko anche Ray -il gatto- cosa che fa anche molto spesso. Per farla breve, patisco. Mentre lui si rimette al pc a digitare informazioni su di me, mi alzo dalla sedia e mi accosto al lettino. Mi risveglio poco dopo che sia lui che l'infermiera mi tengono i piedi verso l'alto.

Vengo appoggiato su una barella e lì, benchè abbia proprio sui miei occhi le luci del corridoio e oda chiaramente un vecchio lamentarsi continuamente, mi assopisco. Poi mi trasfericono in un reparto. 

 Sono sottoposto a: elettrocardiogramma, radiografia, ecografia, ulteriore analisi del sangue perchè ho i globuli bianchi un pò alti, quindi ancora siringa -stavolta in vena- e "farfallina". Secondo svenimento, ma almeno sono già disteso. Via con un "millino" di flebo. 

 Seconda ecografia. Poi secondo millino di flebo. 

 Non voglio prolungarmi oltre. Sono entrato alle 13 e uscito alle 20. Ma mi hanno controllato ovunque. Rigirato come un calzino. Spiegato bene le procedure. Domandato tutto quello che avevo fatto nei giorni prima. Alla fine è venuto fuori che dovevo aver patito il giorno prima, quando ero andato in centro a portare i vecchi libri scolastici delle ragazze per vedere di rivenderli come usato, ed erano particolarmente pesi. Quindi un dolore da sforzo, benchè avessi comunque qualche valore sballato. Hanno preferito controllare bene. Insomma, mi sono sentito davvero curato. E poi avevo intorno delle belle dottoressine e infermiere. 

 Mi sento solo in dovere di ringraziarle. 

 Però non mi bucate più, se ricapito lì. Piuttosto sopprimetemi, ma non fatemi più soffrire.

domenica 20 settembre 2020

Questo post è stato scritto da Monica, insegnante: 

Io stamani sono entrata in una classe, una terza articolata, cioè il risultato dell'accorpamento di due classi (e questo lo vorrei sottolineare per quegli ingenui che credono che quest'anno le classi siano meno numerose), sono entrata, dicevo, ho salutato, ho pulito la cattedra, ho preso il registro elettronico e ho detto: "Bene, cominciamo con l'appello". 

 Subito uno, in primo banco, laterale, vicino alla finestra, ovviamente senza mascherina, tutto stravaccato sulla sedia, come risposta ha fatto un bel rutto a bocca aperta, come se fosse a casa sua, sul divano a guardare la partita. 

 "Scusami, gli ho detto, ma ti pare educazione, alla tua età, a diciassette anni...?" 

 "Ah, mi scusi prof." ha risposto con aria da finto stupido. 

 "Che non succeda più" 

 Tempo dieci minuti, stavo iniziando a parlare, ecco che arriva un altro rutto sonoro dal fondo della classe. Ho guardato con occhi esterrefatti le tre ragazzine presenti in classe, che erano schifate almeno quanto lo ero io. 

 Naturalmente non è stato nessuno. Sarà stato un rutto virtuale. Bene, ho detto, scrivo alla lavagna la lezione del giorno: IN CLASSE NON SI EMETTONO GAS DI NESSUN TIPO. 

 Si sono messi a ridere, mi hanno chiesto se potevano fare la foto alla lavagna, quindi adesso se su internet circolerà questa foto, sapete che l'ho scritta io. 

 Ho spiegato questo, ho spiegato, e lo scriverò anche sul registro, come argomento del giorno. Che in classe non si emettono gas.

 E perché si è arrivati a questo? Che vi ho fatto di male? Io mentre vi devo fare star fermi e zitti, e spiegare la storia e la storia della letteratura con la museruola sul viso e trentadue gradi in aule incandescenti, dovrei controllare che nel frattempo non siate a giocare con il cellulare, dovrei controllare quanti chiedono e vanno e vengono dal bagno e quanti minuti ci stanno, ecco, io devo anche sprecare energie per chiedere rispetto, per spiegarvi che in classe non si emettono gas gastrici e intestinali come se nulla fosse, come se foste comodamente a casa vostra o seduti sul cesso. 

 Ma che vi abbiamo fatto di male, noi insegnanti, per cui non si può più fare nulla, che i presidi ormai ci rispondono in automatico che la responsabilità del comportamento della classe è nostra, e che se non siamo in grado di far valere la nostra autorevolezza, tra le righe, ci dicono, vuol dire che non siamo portati per questo mestiere. 

 Ma che vi abbiamo fatto di male quando dite che siamo buoni solo a prendere lo stipendio e a fare tre mesi di ferie. Quando dite che ci sono anche professori che non fanno niente in classe. E allora? E di impiegati che non fanno niente? E di lavoratori che svolgono male il loro lavoro? E allora? 

 Ma pensate che sia divertente per me entrare in classe con la mia armatura da Don Chisciotte che pesa mezzo quintale, con la voglia di raccontare, di pensare, di scambiare e cambiare idea, e trovarmi di fronte a situazioni come queste? A sentirmi dire all'uscita "m'importa una sega" perché ho detto ad un ragazzo di mettersi la mascherina. 

 E mi fate tenerezza che nelle vostre bacheche siete tutti a chiedere di votare no o di votare sì, voto utile, voto non utile. Che mi scrivete vota questo, vota quello. Io davvero non ce la faccio. 

Mi chiederete cosa c'entra. Nulla. Non c'entra nulla. 

 Lo stesso nulla che ci circonda, che sicuramente a voi non vi riguarda perché i vostri figli son figli educati, son figli da liceo, son ragazzi che poi vanno a studiare all'estero. Ma io che vedo il nulla ogni giorno, e vedo colleghi sempre più stanchi e sfiduciati, davvero, lasciatemi stare una domenica in pace, a leggere poesie, a leggere romanzi, a lucidare la mia armatura da Don Chisciotte per lunedì mattina. Lasciatemi in pace.

giovedì 17 settembre 2020

Una delle cose che mi ha sempre stupito, dei fascisti, è la loro incredibile ignoranza riguardo il nostro paese. Basta farsi un giro sui social dei sovranisti nostrani per trovare una sfilza stratosferica di errori grammaticali pazzeschi -congiuntivi sbagliati e totale assenza di punteggiatura, su tutto- che non possono essere derubricati al T9. E' proprio che non lo sanno, l'italiano. Eppure si vantano dell'appartenenza a questo paese. Come è possibile tutto ciò? Non pretendo che conoscano a menadito le opere di D'Annunzio, che era si un fascistone di *erda ma pur sempre una persona acculturata, però non possiamo proprio considerare italiani persone il cui unico scopo della vita è gonfiare i muscoli, tatuarli con ideogrammi che non conoscono neanche -Ti vanti della tua italianità e ti tatui gli ideogrammi???- e pestare a sangue il prossimo fino ad ammazzarlo. Questa è gente che, se gli si chiedesse se sapevano chi era Philippe Daverio, prima ci guarderebbero stralunati, poi alzerebbero il ditino e accennerebbero che "giocava nella Spal, giusto?" Non sono loro, gli italiani. 

Conosco invece persone che non sono nate qui ma hanno una padronanza della lingua enormemente maggiore, oltre a conoscere i nostri maggiori poeti e scrittori. 

 Disgustato, ho passato questo anno solare leggendo. Sono uno a cui piace tantissimo leggere; la pandemia ha notevolmente aumentato il mio tempo libero e quindi la quantità di volumi che passano sotto al mio naso. Mi limiterò a fare 9 brevi recensioni di quel che ho letto, in questo anno solare, di soli autori italiani. Di stranieri ne ho letti ben di più, ma mi sembrava giusto così. 

 Paolo Longarini - Scrivimi 
 In realtà il libro nella foto è quello precedente di Paolo, che parla della sua esperienza nel tirare su due figlie. Avendone due pure io, mi ci riconosco. Giusto un pò. E' che "Scrivimi" l'ho lasciato nella casa di campagna. Per descrivervi questo romanzo vi dirò solo che me lo sono sciroppato in due giorni due, seduto su un tronco in mezzo al bosco. La protagonista invia lettere al padre senza sapere che in realtà costui ha venduto la casa. Il nuovo padrone manda, a prendersi cura della nuova magione, un perfetto idiota. Questo tizio, ovviamente, si mette a leggere le lettere che arrivano. Posso assicurarvi che, in quel momento, ho pensato proprio "No, idiota, non aprire quelle lettere, non ti riguardan... ecco, l'ha aperte. E ora le legge! E' proprio un deficiente" Grazie Paolo. Ah, sono ancora fermo. Non riesco ad andare avanti. 

 Alessandro Barbero - Benedette guerre 
 Che persona fantastica, il Professore. Potrei stare ore, ad ascoltarlo. Quando ero in turno di notte, in albergo, mettevo le sue lezioni e lavoravo ripetendole. Come quando parla del tumulto dei Ciompi e del furore che dilaga in città. Questa città, la mia. Ho letto due libri, di Barbero. Ho messo il meno voluminoso perchè l'altro -800 pagine- l'ho lasciato in campagna. Ma non vedo l'ora di averne altri. 

 Tania Dejoannon - Un altro giro di smorfia 
Uno dei pochi libri non storici che ho letto. Un insieme di racconti, ognuno caratterizzato da un numero, come nella smorfia, che variano dall'horror, al mistero, al futuro distopico. Molto carino e con una bella prosa. 

 Ritanna Armeni - Una donna può tutto 
 Un bel resoconto, ottimamente romanzato, sulle vicende della ragazze che componevano uno dei battaglioni aereonautici femminili costituiti dai sovietici durante la guerra. La difficoltà nel formarlo per la derisione che le ragazze subiscono dagli uomini, perchè costoro, profondamente misogini, considerano le donne incapaci di combattere. Ma loro insistono. Volano. Combattono. Muoiono. E quando scoprono che i tedeschi le chiamano "le streghe", si gasano a palla e lottano con ancora più determinazione. Le russe, quando si impegnano, sono capaci di rivoltare il mondo. 

 Carla Maria Russo - L'acquaiola 
 Di questa autrice amo tantissimo i romanzi storici. Questo invece verte sulle vicende di una donna povera nell'italia rurale del sud, e le sue difficoltà nell'affrontare la vita in un mondo che sembra volerla sempre escludere e dove la miseria dilaga imperante. Davvero intenso. 

Bruno Giordano Guerra - Fascisti 
 Questo autore è un raro caso di intellettuale conservatore. Molto bravo nel descrivere un regime profondamente corrotto e determinato a controllare ogni aspetto della vita dei cittadini, e a cui gli italiani si sottomisero volentieri. Tenendo conto che oggi ci sono dei nostri concittadini convinti che la mascherina ci sia stata imposta da un regime, siamo proprio un popolo che non studia un *azzo, di storia. 

 Marco Praticelli - L'italia delle sconfitte 
Dal'unificazione in poi, questa misera nazioncina non ha fatto altro che accumulare sconfitte militari. Batoste prese perchè militarmente abbiamo sempre fatto pena. Randellate a destra e manca. Questo libro ne elenca alcune. Epico 

 Sergio Valzania - I 10 errori di Napoleone 
Tanto per non perdere la mia passione per la storia, un grande storico che descrive magnificamente l'Europa d'inizio XIX secolo. E, ovviamente, quel ciclone travolgente che fu il bonapartismo. Con la creazione dell'impero e le sue lotte per il dominio. In qualsiasi scenario europeo. Magnifico. 

 Marco Canetta e Stefania Niccolini - Zhanguo 
 Possiedo questo gioco da tanti anni, ma era parecchio che non ci giocavo. Stasera ci faremo una partita, e così ho ripreso in mano le regole. Un doveroso ripasso. A voi potrà sembrare una cosa stupida, ma a me no. Tutti dovrebbero leggere dei regolamenti. A cominciare da quello principale del paese, altrimenti detto Costituzione. Gli autori li ho visti a Parma, in occasione di un ideag. Spero di poterli rivedere, e provare un loro prototipo. O magari uno mio. Mmmh, meglio di no. Direbbero che è penoso. Buona lettura a tutti. Ne abbiamo bisogno.

domenica 2 agosto 2020

Oltre alle piccole, semplici, anche banali vicende dell'albergo, ho sempre avuto la passione di scrivere storie. Raccontini di fantasia, buttati giù per puro diletto e uso personale. Pochi, in realtà, meno di uno l'anno. Perchè mi risulta più facile leggere. E poi sono pigro.
Questo racconto ha più di vent'anni.



“Oggi mi son dato alla pazza gioia, dedicando tutto il mio tempo a queste incomparabili bellezze. Si ha un bel dire, raccontare, dipingere; ma esse sono al disopra di ogni descrizione.”
Johann Wolfgang von Goethe “Viaggio in Italia”

Hiroshi aprì ancora una volta il libro turistico, e rilesse nuovamente qualcosa della città che si apprestava a lasciare.

"TORRE DEGLI ASINELLI, piazza di Porta Ravegnana.
Questa torre pendente sfida la gravità anno dop anno. Assieme alla più bassa Torre della Garisenda, venne costruita dalla famiglia patrizia dei nel 12° secolo. Nel medioevo, Bologna poteva contare su molte di queste torri, e la vista esterna della città anticipava Manhattan di molti secoli."

Alzò gli occhi e guardò davanti fuori dalla finestra della sua camera d’albergo, cercando di immaginarsi tutte quelle torri. Che spettacolo doveva presentarsi agli occhi del visitatore quella città. Komatta ne, peccato che ora non ve ne fossero rimaste che due. Certo, i tempi cambiano, e adesso aveva davanti una città caotica, con un traffico molto irregolare, ed impazzito, ma anche il centro di Tokyo era così. Come tutte le città moderne.

Riprese la lettura.

"Le torri rappresentavano degli status symbols: più alta era, più potente e ricca era la famiglia".

Un pò come il Giappone di oggi, in fondo. Ogni Zaibutsu, grande compagnia industriale, costruisce il suo grattacielo, e più alto è, più potente è la compagnia. Forse, non sempre i tempi cambiano. O forse sono gli uomini che rimangono sempre uguali.

"La più alta, la Torre degli Asinelli, è alta 97,20 metri, pende verso ovest per 2,23 metri e presenta all'interno una scalinata composta da 498 gradini."

Già, che camminata per arrivare fino in cima, ma ganbare!, ce l’aveva messa tutta, e lo spettacolo era stato emozionante. E poi una torre pendente, lui che conosceva di fama solo quella di Pisa. Ma presto sarebbe andato a visitare anche quella. Non voleva perdersi niente di quel meraviglioso paese.

Ancora affascinato, chiuse il libro e prese la macchina fotografica per scattare ancora una foto, quindi mise tutto in valigia, la chiuse ed uscì dalla stanza. Nella hall pagò il conto e lasciò l’albergo per dirigersi verso la stazione. Faceva un gran caldo, anche se era comunque meno umido che in Giappone: hachigatsu, l’agosto, è il mese più umido, ma anche il più piovoso. Qui in Italia era caldo e basta, e gli piaceva, ci stava bene. Aveva fatto bene a sceglierla come meta, anche i suoi genitori erano stati d’accordo: una grande città come Parigi o Londra poteva contenere dei pericoli, ma non volevano che Hiroshi rimanesse a casa; un bel viaggio per i suoi vent’anni era giusto, anzi, doveroso. Non recita forse il proverbio "kawaiiko niwa tabe wo saseyo", "se i genitori amano i figli li lasciano viaggiare"?

Entrò dentro la stazione, affollatissima. Aveva letto sul libro che gli italiani nei fine settimana estivi hanno l’abitudine di recarsi al mare, per fare il bagno ed abbronzarsi, ed oggi era sabato 2 agosto. In Giappone non c’è questa usanza, non ci si abbronza. Anzi, più la pelle è bianca e più è sinonimo di bellezza. Ricordava di quando era più piccolo ed i genitori lo portarono a Kyoto, e dove aveva visto una Geisha. Gli sembrava così bella, con quella pelle di quel colore candido. Ma chi era lui per giudicare le abitudini degli altri popoli? E questo era un grande popolo; tra poco avrebbe comprato il biglietto per Firenze, la capitale del Rinascimento, e poi Roma, la capitale dell’impero romano. Si affrettò alla biglietteria, impaziente. Erano quasi le dieci ed un quarto; tra pochi minuti sarebbe arrivato il suo treno, e non vedeva l’ora di continuare il suo viaggio in Italia.

Se passate da Bologna, fermatevi a leggere la lapide della stazione. Noterete un nome giapponese.
Quel nome aveva solo 20 anni.

mercoledì 29 luglio 2020

Tutte le estati ci concediamo la giornata picnic, su in Pratomagno.

Cerchiamo sempre di andarci nei giorni infrasettimanali, ma causa pioggia, ci siamo andati sabato. Come immaginavamo, c'era un buon numero di persone.

Potrei polemizzare sugli assembramenti, in particolare la zona barbecue, presa in esclusiva da una ventina di ragazzi che si erano addirittura apparecchiati davanti al fuoco, e parevano pure scocciati quando altre persone si sono presentate lì reclamando la loro giusta parte di griglia. Ma lasciamo perdere. Ah, mascherine zero. Al massimo erano portate sul braccio.

Noi siamo stati previdenti: pane da tagliare e farcire con roba già pronta, posta nel contenitore-frigo. Ci siamo trovati un tavolino in un angolo ombreggiato e abbiamo mangiato. Poi pennica sul prato, al sole.

Ma poco dopo arrivano i fannulloni che mangiano a sbafo.

Alcuni sono marroni, altri proprio neri come la pece.

Cavalli.

La gente accorre perchè sono mansueti, ci sono anche alcuni puledri, e subito si cercano di fare i selfie, come se i quadrupedi capissero i gusti dei bipedi e si mettessero in posa.

Io sto sbucciando una mela da dare alle ragazze, quando uno di questi animali si avvicina.

-Vuoi le bucce della mela? Toh, prendi-

Grosso, ingenuo, fatale errore.

Perchè l'equino non si accontenta. Finite le bucce, mi segue. E si fionda al nostro tavolo.

La Gaia va nel panico e mi urla "Babbo, andiamo via!" mentre getta roba, alla rinfusa, nel contenitore. Io invece rimango come paralizzato dalla scena: benchè privo di pollice opponibile, il quadrupede addenta un sacchetto di plastica trasparente, lo agita facendone uscire l'ultima mela rimasta, sputa la plastica e gnam, si mangia la mela.

Dopo aver finito di devastare il tavolo -devo letteralmente strappargli un coltello di bocca, e lo stupido equino mi sbava pure ovunque- si dirige verso un altro tavolo, ben imbandito con stoviglie di plastica. E con lui, altri cavalli, alla ricerca di nuove, inaspettate fonti di cibo.

Dopo pochi minuti, hanno rovesciato tutto, mentre i ragazzi a quel tavolo tentano di salvare il salvabile.

La cosa positiva è che stiamo ridendo come matti. Tutti a portare via più cose possibili dalle bocche bavose di queste bestiaccie, ma comunque prendendola sul ridere. Non è che si possa fare altrimenti. Non lo si ferma, un quadrupede di un paio di quintali, se decide di andare in un determinato luogo. Tanto vale non prendersela e riderci su.

Cavallo goloso. E anche mangiatore a sbafo.


venerdì 24 luglio 2020

I montanari di quassù, prima che arrivasse la modernità, erano persone semplici. Duri, lavoratori, resi indomiti dalle asprezze del posto, anche allegri per la gioia di vivere in un luogo così speciale come solo le foreste casentinesi sanno essere, ma comunque semplici. Una semplicità che spesso sfociava nell'ingenuità.

Uno di costoro, moltissimi anni addietro, aveva imparato a leggere e scrivere. Si era appassionato in particolare ai grandi classici. Tant'è che ai 3 figli, tutti maschi, aveva assegnato gli impegnativi nomi di Omero, Virgilio e Dante.

Aveva sposato una ragazza del luogo. Una brava donna onesta e lavoratrice, ma molto semplice. Come la maggioranza dei compaesani, non sapeva leggere e scrivere. L'anomalia, se proprio dobbiamo trovarne una, era lui.

Dopo aver lavorato tutta l'estate al proprio podere e raccolto una discreta quantità di patate messe in cantina, il luogo più fresco della casa, e protette da dei teli, l'uomo aveva trovato un impiego stagionale in Maremma. Capitava spesso che, nella stagione invernale, quando in montagna si resta dentro casa, coccolati dal caldo del camino, molti montanari trovassero un lavoro nelle pianure: pastori, carbonai e "pinottolai", cioè raccattatori di pine per estrarne i pinoli.

Prima di partire, va alla bottega del paese per aprire un "conto" a favore della moglie. Come si faceva una volta, quando si diceva "segna" al negoziante. E poi saldare più in là, quando si riscuoteva il salario. Lui sarebbe passato a saldare quello che la moglie avrebbe preso. Comincia proprio lui, prendendo un bottiglione d'olio extravergine. La bottegaia segna sull'agenda. Lui porta la bottiglia a casa, saluta la famiglia e parte.

Quando torna in paese, al termine della stagione lavorativa,  passa subito dalla bottega, visto che la corriera ferma proprio lì davanti. Per saldare il conto. Ma la bottegaia lo informa che, a parte quel bottiglione d'olio preso da lui, non c'è nient'altro da pagare: la moglie non è mai venuta in bottega.

Lui rimane sorpreso. Poi gli viene un sospetto. Paga l'olio, corre a casa e trova che la famiglia è decisamente più paffutella. Di una ciccina morbida e tenera. Tipica di chi si è nutrito, per mesi, di sole patate. Avendo la cantina colma dei dolci tuberi, la donna, nella sua semplicità, non riteneva necessario acquistare cibo diverso e variare la dieta: per tutto quel tempo, per sè e i figli, aveva cucinato solo ed esclusivamente patate.

Però condite con ottimo olio extravergine.

mercoledì 22 luglio 2020

-Ma cos....

-Miao, coccole.

-No, senti, ho voglia di leggere e...

-Purr purr.

-Ma io...

-Ho detto "purr purr"! Lo capisci, bipede? La senti la mia testolina che cerca la tua mano? Non ci sei mai, stai sempre in quel campo...

-L'orto. Strappo le erbacce. Questa mano pole essè fero o pole essè...

-Ecco, bravo, voglio la piuma. Purr purr, così, uno accanto all'altro. Non sei contento?

-No. Una volta, accanto a me nel letto, ci volevano stare le bipedi umane, non i quadrupedi felini....


martedì 21 luglio 2020

Cronache del portiere d'albergo in riposo forzato.

Il bosco ha una caratteristica speciale, unica, particolare.

Ovatta il suono.

In città non avviene. I suoi rumori assordanti come i clacson, i rombi dei bus, i treni che frenano all'entrata della stazione, i martelli pneumatici che aprono il selciato, ti arrivano alle orecchie anche a chilometri, amplificati dai muri dei palazzi.

Nel bosco non succede. Nel bosco cammini in una bolla di pochi metri di diametro.

Certo, in quei metri all'interno della bolla, si riesce a udire suoni nuovi, particolari: insetti che circolano attorno a te, le fronde degli alberi mosse dal vento, animaletti struscianti che filano nel sottobosco al tuo passaggio, il calpestio dei tuoi passi sul ghiaino della strada bianca, uccellini che cinguettano richiami d'amore, beati loro che gli basta quello, a parte costruire un nido con rametti sbavandoci sopra.

Ma basta girare una curva che si comincia a sentire, in lontananza, un suono acuto e costante: il torrente Solano, maggior affluente dell'Arno di questa parte del Casentino. Che si snoda tortuoso nella valle che si è scavato nel corso di milioni di anni.

Decido di andarci. Ho bisogno di sentire il frastuono della "chiare, fresche et dolci acque". E più mi avvicino, percorrendo un sentiero che il Cai si rifiuta assolutamente di segnare, più il rumore aumenta d'intensità. Alla fine c'è un discreto, e piacevole, frastuono.

Potrei guadare e proseguire nel sentiero sull'altro versante della vallata, decisamente più selvaggio che non questo, ma decido, d'impulso, di inoltrarmi nel torrente. Lo facevo con un amico, 36 anni fa. Ne avevamo 14, saltavamo come stambecchi da una roccia all'altra discendendo tutta la vallata. Lo chiamavamo "fiume Trophy", ma mi rendo conto presto che, a causa di quel malefico impiccio detto "fisico che perde colpi", ho grandi difficoltà a rifare le gesta di 36 anni fa. Pur avendo degli scarponi da trekking, rischio continuamente la rovinosa caduta. E sono sudato fradicio.

Dopo un'era geologica e una fatica di Sisifo arrivo alla mia meta: una grande, immensa, gigantesca roccia che degrada dolcemente verso il torrente, a formare una pozza. 36 anni fa mi pareva enorme, in realtà è poco più grande di altre dello stesso fiumiciattolo. Ma è un luogo che ha del magico. E ci si arriva solo dal torrente. Non ci sono sentieri.
Seduto su un piccolo rientro delle rocce che sembra scavato apposta per le mie delicate chiappe, mi godo una frescura incredibile e meravigliosa. 

Come si fa a descrivere un luogo così? Se uno si rilassa, neanche lo sente, il frastuono dell'acqua che scorre. Non ci si accorge nemmeno della durezza della roccia -uso la felpa, comunque- dalla pace interiore che prende. È magico, ecco. È un relax totale, assoluto, immenso. Scatto una foto, poi estraggo dallo zaino un libro e leggo un paio di capitoli. Che scorrono via rapidi e leggeri. 
Ci sono persone che si rilassano solo su spiagge arroventate dal sole. Oppure lanciandosi da ponti -o da un piazzale milanese- con una corda legata ai piedi. O ancora distendendosi sul divano a guardare il pallone. 
Io ho questa roccia che entra nel Solano.
E i piedi a mollo in un'acqua così gelida che non mi meraviglierei di vedere scorrere giù la zattera di Rose e Jack.

Ci passo quasi un'ora. Ma una delle ore più belle di sempre.

Tutti dovrebbero avere, a disposizione di quando in quando, di un luogo magico e tutto personale dove rilassarsi.


lunedì 22 giugno 2020

Memorie passate del portiere d'albergo in cassa integrazione.

Durante il periodo della chiusura girava, in qualsiasi forum sociale, una di quelle foto false che la gente condivide perchè "Nooooo, bada che roba, dai!"

Potrei millantare che io sono furbo e non ci casco, ma in realtà anche io, in passato, ho commesso i miei sbagli condividendo castronerie. E quindi sto mille volte attento e faccio ricerche.

La foto riguardava un gruppo di daini in mezzo a una città e la didascalia indicava che, con l'umanità chiusa in casa, gli animali erano scesi dalle montagne invadendo le strade e riprendendosi il territorio da cui i bipedi sono spariti. Di volta in volta, la località cambiava, ma sempre qualche cittadina italiana.

Nel caso dell'immagine in questione però, ero più che certo del falso perchè, semplicemente, andai sul posto.

Nel Luglio del '99 mi recai in Giappone.

I miei capi di allora, persone bellissime a cui devo il 90% delle mie conoscenze del lavoro d'albergo, mi concessero di radunare le mie ferie in un unico mese in modo da potermi recare nel lontano Sol Levante a studiare la locale lingua. Un mese di studio mattina e pomeriggio e, millanto orgogliosamente, stavo davvero prendendo una certa maestria nel dominare la lingua parlata -lo scritto lo scartai brutalmente- che col tempo ho un pò perso.

Un bel fine settimana presi il bus e mi recai a Nara. Templi meravigliosi, enormi, immersi nel bosco e persi sui monti che circondano la cittadina. Monti non abitati perchè i giapponesi non hanno mai costruito sui cocuzzoli come noi italiani, che dovevamo difenderci dagli eserciti teutonici che scendavano dalle Alpi, e ci veniva più facile asserragliarci in alto e circondarci di mura.

A Nara ci sono migliaia di daini. Liberi di circolare per le strade, manco le vacche dell'India, con bipedi motorizzati che diligentemente si fermano e attendono che i quadrupedi attraversino. Il sogno proibito di mio padre che, da cacciatore toscano, avrebbe sempre desiderato questi animali che, docilmente, vengono proprio sotto di lui. Non avrebbe neanche bisogno del fucile.

Non esistendo ancora wikipedia, non sapevo niente di tutto ciò. Alla scuola mi dissero solo che dovevo vederla. Mi fecero pure prenotare il posto dove dormire telefonando e parlando in giapponese, lezione n°24. Compito svolto con successo, 7+. Parto da Okazaki, arrivo, e mi trovo queste bestie ovunque. Ero stupefatto.

Dopo una lunga giornata di visite e scarpinate, il mio stomaco protesta veemente la necessità di essere riempito. Ma sono circondato solo da quadrupedi che mi annusano e negozi di souvenir. Uno in particolare enorme, gigantesco, stracolmo di ogni genere di oggetti riguardanti la cittadina, oltre che di una comitiva di giappi arrivati dall'Hokkaido -laggiù è quasi tutto turismo interno. Almeno, venti anni fa-

Mi siedo sull'esterno di questo negozio, provvisto di una bella veranda ombreggiata, e i miei occhi cascano su una macchinetta contenente dei biscottini. Manco a pensarci -grosso errore- estraggo da portafoglio una monetina da tanti Yen, infilo nella fessura e la macchinetta mi sputa fuori un pacchetto di biscottini. Finalmente un pò di pace e riposo all'ombra consumando questo snack da uno strano sapore e ....

... i giapponesi della comitiva, che stanno uscendo alla spicciolata dal negozio, mi osservano, mi indicano e ridono come matti. Tutti. Uno di questi giappi, dall'età approssimativa che supera il secolo, chiama pure i suoi amici ancora all'interno. Escono pure le titolari del negozio. E ridono. Ridono tutti. Due ragazze in particolare, con quel modo particolare di ridere e tenere la mano davanti alla bocca. Che mi è sempre piaciuto molto, ma in quel momento trovavo alquanto inquietante.

I miei occhi si posano sulla scritta della macchinetta. Estraggo dallo zaino il libretto degli ideogrammi, regalo di una studentessa cinese in classe con me, e controllo un momento, anche se il sospetto è fortissimo.

Shika no tabemono (lo scrivo nei nostri caratteri)

Shika = daino

Tabemono = cibo

Mi sto mangiando gli snack riservati ai quadrupedi.

Ok, va bene, la mia figura da gaijin ignorante l'ho fatta. Ho provocato l'ilarità dei giappi che ridono di me e di tutti voi che "Italia jin minna baka da yo" -non ebbi la prontezza di spirito di dirgli che ero spagnolo o francese, e poi mi sembrava giusto condividere con tutti voi miei 60 milioni di concittadini- a questo punto, tanto vale dare il resto del pasto ai legittimi consumatori.

Uno dei quadrupedi si avvicina, quatto quatto. Gli allungo il biscottino e lui gnam, se lo addenta in un boccone e manca poco mi prende anche le dita, bestiaccia.

E improvvisamente la popolazione dainesca di Nara accorre al mio cospetto. Non certo per rendermi omaggio, ma perchè si è resa conto che un bipede gli sta fornendo cibo gratuito. #primaidainidiNara, parafrasando uno slogan. E sono circondato da questi stupidi guadrupedi che pretendono il mangiare a ufo, anche quando l'ho finito. E i giapponesi ridono ancora di più. E le ragazze ridono ancora più forte.

Come li odiavo tutti, in quel momento.

Quindi la morale è: non fidatevi delle dichiarazioni sulle foto che circolano su internet perchè no, non è Marina di Pietrasanta.

E non fidatevi neanche del mangiare delle macchinette dei negozi di souvenir.

mercoledì 10 giugno 2020

Cronache del portiere d'albergo in cassa integrazione.

Con la fine della chiusura ho smollato le donne a Firenze e sono filato in campagna dai miei genitori, nel ridente e prosperoso villaggio di Cetica, feudo dei Conti Guidi.

Girellando per il paese si ha la sensazione di potersi trovare di fronte, da un momento all'altro, il conte Guido Novello che chiede validi e coraggiosi vassalli da aggregare al suo drappello al fine di combattere quei bastardi de' fiorentini, appena calati giù dal passo della Consuma e in procinto di scontrarsi con i nostri amici d'Arezzo.

Ovviamente sto scherzando: una certa modernità è arrivata anche qui. La recente scoperta di un nuovo continente, di là dalle colonne d'Ercole, ha portato nuovi, sorprendenti prodotti agricoli. Queste "patate", ad esempio. Dovunque ti giri, per il paese, trovi campi coltivati con questi nuovi tuberi.

Ma non è sempre stato così.

Mio padre, di tanto in tanto, mi interrompe dal lavoro nell'orto e mi porta a cercare i funghi. Lui, 79 anni, che sgambetta su e giù per i pendii casentinesi senza colpo ferire, io, 29 anni di meno, che arranco pesantemente.

A un certo punto, salendo, trovo una cosa alquanto sorprendente: terrazzamenti. Separati da muretti a secco. E siamo nel bosco più fitto.

A domanda, mio padre risponde: "Eh, qui, tanti anni fa, ci si veniva con Vera, Silvana, Achille.... e si raccattava castagne e marroni. Vedi, quello è un castagno. Avrà più di 150 anni"

"Mi stai dicendo che quell'albero è nato prima dell'unità d'Italia?"

"Eh, possibile. Ma andava pulito, vedi che ora ha due altri alberi accanto. E lui è un albero morto, secco. Vanno puliti attorno"

"E questi terrazzamenti? Patate?"

"No. Segale"

"In mezzo al bosco?"

"Mica c'era, il bosco. Era tutto coltivato a segale. Più su ci sono i castagni, ma ne sono rimasti pochi, ora è tutto faggio o abeti"

"Ma in che anni?"

"Eh, all'inizio degli anni '50. Avevamo... neanche 10 anni"

Ragazzett* di neanche 10 anni o poco più mandati dalle famiglie per sentieri -perchè le strade ancora non c'erano- su in alto, una camminata di un 5-6 chilometri almeno, fino al limite dei campi strappati al bosco e al pendio, e lì raccattare castagne e funghi.

L'italietta di fine anni '40, inizio '50. Eravamo così: bimbi che diventano "risorse" già prima dei 10 anni, e spediti subito a lavorare. Contribuire, fin da subito, al mangiare della famiglia, manco si fosse in un gioco di Uwe Rosenberg.

Tranquilli, nessuna morale o paragone con il nostro tempo; solo ricordare come era allora quel "mondo piccolo", come avrebbe detto Guareschi. Bambini che raccolgono e adulti che si spaccano la schiena abbattendo alberi, sbancando parti di pendii, ammucchiando pietre in muretti e finalmente vangare fino alla semina del prezioso cereale. E poi, qualche anno dopo, abbandonare la montagna per tornare vicino al paese. E la natura che si riprende tutto.

Tutto qui. Mi faceva strano questa cosa, ecco. Ti rendi conto come siamo solo momentanei, per il pianeta.

La natura è più forte. Lo sarà sempre. E mi fa un gran piacere dirlo.

domenica 31 maggio 2020

Le cronache dell'orto. 

Anzi

Le cronache "splatter" dell'orto.

Questo è il periodo delle fragole. Almeno, lo è per l'altitudine di Cetica, ridente villaggio del Pratomagno che contiene lo stesso quantitativo di doppiette da caccia dell'intero Wyoming.

Mio padre ha preso due mezzi tronchi, li ha svuotati del legno, riempiti di terriccio e poi posizonati a mezzo metro d'altezza. Quindi seminato le fragole.

Solo che le troviamo tutte smangiucchiate.

-E' stato il merlo- dice mia madre.
-Eh? Un merlo?
-Si, vedi, ho riempito quel sottovaso d'acqua, così beve e si fa il bagnetto.
-E si mangia le nostre fragole.
-Ma i merli sono carini.
-Indubbiamente, ma costui ha tutto: bagno e buffet.

Un paio di giorni dopo, recatosi nell'orto la mattina presto, mio padre trova la scena splatter.

Pezzi di merlo sparsi ovunque.

Sospettato: uno dei gatti che gironzolano attorno alle case dei miei zii. Da vero predatore, ha atteso il momento opportuno nascosto tra il radicchio e gli è balzato addosso.

Mia madre si dispiace, ma il merlo sarebbe andato comunque, a mangiarsi le fragole. Bagnetto o meno. Per bere e lavarsi, gli uccelli devono scendere giù, magari nei fossi, e il paese è pieno di gatti. Sanno sempre dove attenderle i volatili.

Ragazz*, la natura è crudele. E ringraziamo di essere noi quelli alti e grossi, perchè se le misure fossero invertite, saremmo noi quelli smembrati dai predatori felini.

I gatti NON devono conquistare il mondo. Il Covid sarebbe Disneyland, a confronto.

mercoledì 20 maggio 2020

Sono un uomo fortunato.

Si, lo so, sono in cassa integrazione e ancora non è arrivato un centesimo, ma con la fine del periodo di chiusura ho avuto un'opportunità che, nella frenetica vita dei turni alberghieri, non ho praticamente mai avuto in più di vent'anni:

Lavorare nel nostro orto.

I miei hanno una casa a Cetica, paesino del Pratomagno dove ti aspetti, da un momento all'altro, d'incontrare un contadino che ti dice che "siamo nel millequattro, quasi millecinque".

Ovviamente sto scherzando; una certa modernità è arrivata anche quassù, soprattutto per la misura delle jeep presenti, talmente grandi che gli manca solo un cannoncino montato sul tettuccio e il miliziano libico che lo brandeggia (per fortuna costoro, al di fuori della Libia, li si trova solo nel parcheggio del twin pines mall / lone pine mall)

Marzo e Aprile sono il periodo dell'aratura, e dovendo stare in casa a Firenze, mio padre non ha potuto farla. Dopo il 4 è letteralmente volato su. A quel punto sono andato su anch'io. Egoisticamente, ho mollato la famiglia in città e mi sono concesso quello che non ho mai fatto prima: l'orto.

In questi mesi di clausura forzata il campo si era riempito di erbaccia alta almeno un metro. Così, per almeno 3 giorni abbiamo falciato, zappato e arato.

Ragazz*, una faticata devastante! Venti anni di bancone alberghiero e 2 mesi di divano non mi avevano affatto preparato alla vita contadina. Pur avendo fatto un terzo, forse meno, di tutto il lavoro, ero letteralmente distrutto. Mio padre, 79 anni, ancora fresco e pimpante. Io, un vero cencio.

La terra è bassa. Diamine se lo è.

Devo ammettere che è una bella soddisfazione trovarsi poi ai bordi di un campo completamente lavorato. Solo che, sul più bello, quando si tratta di fare i solchi e seminare, piove!

3 giorni di pioggia, accidenti! Neanche la soddisfazione di piantare quelle straledettissime piantine.

Però questa cosa mi ha risollevato tantissimo il morale. E' bello sapere che, se il virus imperverserà perennemente, io vivrò mangiando i frutti della terra, mentre voi rimasti in città cercherete di sopravvivere combattendo tra le macerie e contendendovi le ultime scatolette di tonno rimaste.

Io zapperò la terra e voi sparerete.

.... uhm, devo procurarmi un Kalashnikov. Non posso lasciarvi tutto il divertimento.

giovedì 23 aprile 2020

Scambio di messaggi di posta elettronica -tradotti in italiano- tra il sottoscritto e una cliente dalle idee particolarmente fantasiose, durante un turno di notte di qualche mese fa, prima dell'arrivo del morbo: 

"Chiedo si sapere il costo per un check-in anticipato" 

Non c'è nessun costo per un servizio del genere, per il semplice motivo che non possiamo assolutamente prevedere quando una camera si libererà la mattina -oltre al tempo necessario alla cameriera per pulirla, ovviamente- Certo, ci saranno sempre clienti che chiederanno un check-in anticipato di qualche ora prima. Le 13, mezzogiorno, le 10 del mattino, possibile se un cliente è partito presto e la cameriera la pulisce subito. Possibile pure entrare in camera alle 8 del mattino, ma solo a condizione che non si sia venduto tutto il giorno prima questa camera sia quindi vuota e disponibile. E questo, ovviamente, non lo vogliamo. Cercheremo sempre di realizzare il completo. 

Quindi rispondo che siamo molto spiacenti, non abbiamo questo tipo di servizio.

Dopo un'ora mi scrive questa sorprendente messaggio:

"Qualche giorno fa ho mandato una mail chiedendo di poter fare il check-in alle 3 del mattino, e mi era stato risposto affermativamente. Dopo aver prenotato una camera doppia, il sito dell'albergo mostrava che il check-in è alle 2 del pomeriggio. Io arriverò a Firenze alle 3 del mattino. Posso sempre fare il check-in all'ora che ho chiesto?"

Rimango letteralmente a bocca aperta davanti allo schermo del pc.

Le 3 del mattino.

Alla faccia del check-in anticipato.

E qualcuno di noi avrebbe pure risposto affermativamente? Mi rifiuto di crederlo, sono anni che la squadra della portineria è rodata, mica siamo pischelli qualsiasi che dicono di si a tutto.

Faccio una ricerca tra i messaggi della posta elettronica per cercare lo scambio di mail precedente, che la tipa afferma aver avuto con noi. Ma non trovo niente. Nè con il cognome -portoghese- nè con l'indirizzo di posta elettronica.

Cerco anche nel gestionale: nessuna prenotazione a quel nome. Provo anche a fare una ricerca sui portali delle varie OTA, ma anche lì niente.

Immagino, assurdamente, che in realtà la tipa sappia già che arriverà a Firenze alle 3 del mattino -mi domando come, visto che non ci sono mezzi pubblici, e se ha un mezzo suo, perchè viaggiare di notte?- e magari sappia benissimo che la camera, con ogni probabilità, non sarà ancora disponibile. Quindi lei intende "check-in" ma in realtà chiede solo di lasciare il bagaglio in deposito. Avrà qualcosa di importante da fare di notte. Suona in qualche locale dove tirano tardi? Un focoso incontro intimo che avrà termine alle 2.30 o che comincia alle 3.30 in altro punto del centro storico? Deve girare un documentario di Florence by night e, visto che passa dalla stazione, vuole lasciare il bagaglio? Mi immagino qualsiasi tipo di situazione.

Provo a pensare ottimisticamente: vuole lasciare il bagaglio. La mia mente si rifiuta di credere che questa sia una richista arrogante di avere la camera già alle 3 del mattino. Quindi rispondo: "Gentile Signora, l'albergo è aperto 24 ore su 24, quindi può venire in qualsiasi momento le aggradi e lasciare il bagaglio nel nostro deposito in portineria"

Perciò continuo il mio lavoro notturno in tutta serenità, come sempre dopo aver completato le mail rimaste a sospeso e aggiorato la posta elettronica.

E dopo un'ora e mezza, arriva questo messaggio che definire sorprendente è poco:

"Questo è molto irritante. Ho chiesto la conferma dell'ora del check-in ben prima di prenotare. Avevo chiesto se potevo fare il check-in alle 3 del mattino e mi è stato risposto che "la reception è aperta 24 ore su 24"

Come può immaginare, alle 3, non lascerò i miei bagagli nell'albergo per poi girovagare fuori in città. Nel sito dell'albergo le informazioni sul check-in sono disponibili solo dopo aver prenotato (che non ha senso). Adesso devo cancellare la mia prenotazione e cercare un altro albergo.

Penso che il mio inglese fosse abbastanza chiaro quando chiesi un check-in anticipato nella mia prima mail. Non so chi abbia risposto, ma questo è totalmente inaccettabile"

Sono letteralmente basito.

La prima reazione è scriverle un bel "fuck off" e magari allegarci il meme di un dito medio. Mi immedesimo in Jules Winnfield che recita Ezechiele 25.17 prima di scaricargli addosso tutto il contenuto della 9 millimetri. O le peggio violenze di uno spaghetti western diretto da Corbucci. Cose così. Ma poi mi passa. Non ne vale mai la pena.

Non so perchè la tipa abbia mandato questa mail, che ovviamente allego alla storia. Probabilmente "ce stava a provà". A vedere se le accordavano quest'assurdità, tantopiù che tutti i siti mostrano chiaramente l'ora del check-in. Di tutti gli alberghi, ovunque, sul pianeta. Tiro fuori il diplomatico che è in me per una risposta il più neutra possibile:

"Gentile signora, probabilmente c'è stato un fraintendimento. Se lei arriva alle 3 del mattino del giorno stesso, è molto probabile che la camera sia ancora occupata dal cliente in partenza. Dobbiamo aspettare che costui lasci la camera -è poi, ovviamente, pulirla-

E' possibile che non si venda la camera, il giorno prima, ma come impiegati alberghieri cerchiamo sempre di realizzare il tutto esaurito.

Spero di aver chiarito la situazione bla bla bla"

Dopo di che riprendo il lavoro notturno, ma alzo il volume del pc. Ogni volta che arriva un messaggio di posta emette un bip, e io accorro, curioso da vedere cosa risponde la mattonza, un mix tra matta e stronza; ormai l'ho ribattezzata così.

Invece non arriva nessun'altra risposta. C'è però, quasi alla fine del mio turno di lavoro, una cancellazione. Che di per sè non sarebbe niente di particolare, visto che prenotazioni, modifiche e cancellazioni arrivano a ritmo continuo, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ma questa mi colpisce perchè il cognome è portoghese, come quello della mattonza. La mail è diversa, ma ho come il sentore che fosse proprio costei perchè nelle note di questa prenotazione c'è proprio scritto "early check-in". Faccio una nuova ricerca sulla mail, ma non appare niente, nessuno scambio di mail. Provo con nome e cognome (cognomi, visto che portoghesi/brasiliani ne hanno dozzine) e anche il numero di telefono che appare in prenotazione. Nulla di nulla.

Non posso stare dietro alle fisime degli altri. Cancello la prenotazione dal gestionale -chiunque fosse- e vado avanti per finire il mio turno di lavoro.

Ma la mattonza, e il nostro scambio di mail, finisce dritta filata nel bestiario.

Check-in alle 3 del mattino. Bah. Perchè non, a questo punto, anche la guida rossa e i paggetti che gettano i petali di rosa mentre passa?

sabato 18 aprile 2020

UNA FOTO DI QUANDO AVEVO VENT'ANNI, EH? PENSATE CHE NON OSI POSTARLA? EH? EH?

E quindi, ecco la storia di una bicicletta.

Mi ero già accorto, lavorando in albergo, che vendere camere potesse essere alquanto difficile, con rompiscatole vari. Clienti difficili che pretendono camere triple con vista avendo prenotato una singola. Gente che entra e, senza neanche un buongiorno o buonasera, comincia a trattare sul prezzo. Quelli che chiedono il servizio in camera alle 3 di notte, e si stupiscono quando gli dico che non lo abbiamo.

Ma non mi aspettavo che lo fosse anche quando si tratta di vendere oggetti privatamente. Eppure un mio caro amico, che chiamerò semplicemente Moronz, eccellentissimo chitarrista e appassionato creatore di superbe 6 corde elettrificate, mi aveva detto delle sue difficoltà nella vendita in rete delle sue creazioni.

Ma torniamo un attimo alla bici.

30 anni fa comprai una bici da corsa. Oddio, "comprai" è la persona verbale sbagliata. La comprò i' mi' babbo, per 700mila lirette. Per 15 anni macinai chilometri e senza neanche un minimo di doping. Semplicemente, viaggiavo piano.

Adoravo andare in bicicletta. Ho adorato tanti sport, ma la bici aveva quel vantaggio di non dover attendere amici disponibili per una partita. Certo, i primi tempi andavo fuori con il Copo e il P, soprattutto quest'ultimo, ma avevano un ritmo e una resistenza di cui io, abituato agli sport con la palla, ero assolutamente privo. Faticavo enormemente a stargli dietro. Quindi presi a uscire da solo.

Cominciavo a febbraio-marzo, due volte a settimana andavo alle Cascine a farmi un 3-400 chilometri in piano per prendere agilità alla gamba, quindi cominciavo le salite sulle colline intorno a Firenze. Il momento clou era in agosto quando andavo a Cetica scalando il passo della Consuma, poi, non contento, invece di fare Montemignaio, scendevo per Caiano e risalivo da Pagliericcio, tanto per farmela più lunga. Per chi non è del posto, sono una trentina di chilometri in più. Con pendenze del 10%.

Ricordo la prima volta quando apparii, salendo dalla parte dalla chiesa, al bar di Borgopiano. Quegl'omini, intenti a giocare a carte, alzarono un momento la testa da lisci e carichi e, osservandomi, se ne vennero fuori con il classico

-Bada, c'è i'figliolo di "sidoro" (isidoro, nda), da 'ndove tu vieni?-

-Da Firenze, no?-

A quel punto s'udì il bonk delle loro mascelle. E allora mi toccò mostrare il contachilometri elettronico della bici che indicava 90 chilometri. Non ci volevano credere.

Poi è arrivato il lavoro d'albergo, il matrimonio e due figliole, e il tempo libero è crollato come la borsa di wall street nel '29: fine di tante cose, come il calcetto, World in Flames e la bici, che è stata 10 anni ad ammuffire in cantina. Così, anche in previsione del futuro trasloco, 2013, decisi di venderla.

La tiro su dalla cantina, la ripulisco ben bene, la fotografo e la pubblico su internet. 50 €. Se può sembrare poco, per una bici del genere, devo dire che non era in condizioni ottimali, dopo tanti anni d'uso. La ruota posteriore era leggermente ovalizzata, i pedali erano del vecchio tipo a gabbietta e i cambi ancora sul telaio, invece che integrati con le leve dei freni come sono oggi.

Dopo neanche venti minuti che avevo chiuso il pc, arriva un sms di uno che ha visto l'annuncio e voleva avere informazioni. Il giorno stesso ho altre richieste di informazioni per posta elettronica. E dalle telefonate cominciano le richieste buffe.

-Chiamo per la bicicletta.
-Buongiorno a lei. Si, ho messo io l'annunc...
-Si può fare 40 €?
-Eh?
-Un pò di sconto, dai.
-Lei è la prima persona che chiama. Vorrei prima vedere se trovo qualcuno che la compra a 50 €.
-Ma dai, vengo lì, 40 € sicuri.
-Ci sentiamo tra un paio di giorni. Se non la vendo a 50, la venderò a lei.
-Ma vaff...

Oppure:

-Io visto bici, potere vedere?-
-Buongiorno a lei, c'è proprio l'inflazionamento dei saluti. Ovviamente si può vedere, sto in via blablabla-
-Ma io vengo da Santa Croce sull'Arno, potere fare sconto?-
-Co-come, scusi?
-Io dovere fare strada, quindi tu fare sconto, ok?
-Non è meglio se cerca una bici dove abita lei?
-Tu è uno stron....

E ancora:

-Ciao, per quella bicicletta...-
-Buongiorno. Se vuole vederla, io abito in via Pa...-
-Sono comprese le spese di spedizione, giusto?-
-Eh?-
-Dicevo: nel costo di 50 € sono comprese le spese di spedizione. Mi pare il minimo-
-Ehm... scusi, ma non è che ha sbagliato annuncio? Nel mio ho chiaramente scritto "solo cosegna a mano su Firenze"-
-Guarda che ci vuole un pò di elasticità, negli affari-
-Capisco...-
-Allora affare fatto?-
-Ho messo l'annuncio oggi, vorrei prima vedere se qualcuno la compra alle mie condizioni, le pare?-
-Così non farai mai strada. Hai il mio numero, richiamami quando cambi idea-
 
Buffa poi quella di chiamate di un singolo squillo. Col piffero che ti richiamo. Sei te che vuoi comprare? Sei te che devi chiamare.
 
Dopo due giorni di questo andazzo, arriva finalmente la giusta telefonata. Voce giovane, toscano. Abita vicino. Tempo 20 minuti e arriva. Vede la bici, gli spiego tutti i problemi. La controlla, l'esamina bene da cima a fondo. Ma è convinto. Mi paga e la porta via. Niente contrattazioni, niente richieste di ribassare il prezzo. Vedere merce, dare soldi, avere merce. Ci vuole così tanto?
 
La sera, a cena, scopro che strabocco letteralmente di tristezza. Si, quella bici è stata un pezzo della mia vita. E mi manca. Spero tanto che quel ragazzo ci abbia fatto e continui a farci tanti chilometri e si diverta come mi sono divertito io. E raggiunga un bar dove cazzeggiano gli amici del padre e non credano che abbia fatto tutti quei chilometri da solo.