sabato 12 ottobre 2024

Ognuno di noi ha delle priorità.

Ero ancora al tre stelle nei pressi della stazione -dove ho speso 20 anni della mia vita lavorativa- e durante un turno pomeridiano avevo davanti a me una signora sudamericana che ascoltava, trepidante, la mia spiegazione sul percorso da seguire per arrivare alla sua tanto agognata meta: il mitico e strabordante museo degli Uffizi, pieno zeppo di epiche opere d’arte e fulgido esempio del Rinascimento, fiore all’occhiello di una città che a quei tempi, almeno culturalmente, dominava il mondo.

Dietro di lei stavano il marito e il figlio adolescente, belli massicci ma con visi rubicondi e sorridenti, in profondo e assoluto silenzio. In attesa che lei decida.

Ma improvvisamente, ecco che si palesa la ribellione. I due maschi coalizzati contro colei che, da sempre, porta i pantaloni. Via la revolucion, adelante compañeros! Stavolta la decisione la prendiamo noi.

Come la signora ringrazia sentitamente per le informazioni che le ho appena fornito, marito e figlio, come se fossero soldatini, fanno un passo avanti all’unisono e si piazzano di fronte a me. Lei, occhi sgranati, li osserva completamente sorpresa, come se subdorasse che i due stiano osando contravvenire ai suoi supremi e perentori ordini. Per la prima volta nella vita.

Padre e figlio, sempre sorridendo, si guardano negli occhi con grande complicità, poi il ragazzo esordisce con un tono di palese emozione:

«È vero che qui a Firenze c’è un museo del calcio?»

Sorrido, perché mi mette sempre di buon umore la parola “pelota” che si usa, nello spagnolo, per indicare il gioco del calcio.

«Si, è proprio così»

Posso sentire due sciami di farfalle muoversi vorticosamente dentro i loro stomaci e urlare, in coro, “Ci siamo! Ci siamo!”. Senza dire altro, afferro un’altra piantina, anche se due occhi femminili ci trafiggono e sembrano dire “Non oserà!” verso di me e “Non oserete!” verso consorte e figlio. Ma ormai la solidarietà maschile è lanciata a mille e ho appena aperto, sul bancone, una piantina speciale, quella che contiene pure la periferia di Firenze e che, ai turisti, non serve a niente. Tranne in questo caso. Circolettare, con la penna, il centro tecnico federale di Coverciano, è un’operazione immediata. I due maschi sudamericani sono ormai in religioso silenzio, pendono letteralmente dalle mie labbra.

«Poiché non è in centro, dovrete prendere un autobus, il 10, che parte di fronte alla stazione, pochi metri dall’albergo» (oggi il capolinea è in piazza della Libertà) «La fermata si chiama “Centro Tecnico Federale”, dove si ritrova anche la Nazionale di calcio italiana»

La signora ha ormai assunto un atteggiamento altezzoso che Maria Antonietta scansati proprio. Il disprezzo verso i maschi plebei pallonari è ormai conclamato: «Io vado agli Uffizi» sibila con un tono che evidenzia la profonda seccatura dettata da questa ribellione.

I due maschi alzano la testa dalla piantina, si guardano dritto negli occhi e poi si voltano verso la moglie/madre:

«Ci vediamo a cena»

Non ho udito il “crash” nella testa della signora perché coperto dal coro di una curva da stadio. Lei, senza degnarli di una parola, alza la testa e, cartina alla mano, esce dall’albergo e svolta a destra. I due maschi della famiglia, con una felicità che provavo solo quando ero in Fiesole dopo un gol di Batistuta, vanno a sinistra.

Dopo alcune ore di turno, quando sta per approssimarsi il momento del cambio e sono in fremente attesa del mio collega notturno, la famigliola allegra per 2/3 rientra per il giusto e meritato riposo. In realtà sono convinto che anche la signora, dentro di sé e malgrado la fila e la lunga visita agli Uffizi, sia allegra e lieta, ma sul momento non lo mostra. Anzi, pare piuttosto seccata di essere stata lasciata sola. Chiede la chiave e sale le scale.

Ma i due maschi amanti della “pelota” erano al settimo cielo. Entusiasti, stettero mezz’ora davanti al bancone a descrivermi la bellezza di maglie in lana e palloni in cuoio marrone, come andavano decenni fa, l’emozione a vedere le coppe del mondo -copie, ovviamente-, le divise di tante squadre nazionali -compresa della loro- di tanti anni addietro e la commozione provata davanti a quelle del grande Torino.

Due bambini felici. Con la loro priorità, come dicevo all’inizio.

E sono sicuro che anche il caro Alessandro Filipepi, altrimenti detto Botticelli, avrebbe compreso.

Forse.

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