venerdì 24 giugno 2016



Il turismo è viaggiare.
Il turismo è scoprire.
Il turismo è godere, veramente, di quel che ci circonda. Perché quando si è nel posto in cui si vive, non si ha mai il tempo di soffermarsi a vedere. E si lascia scorrere tutto via, come acqua sulla pelle. E non si realizza, non si comprende, non si gode, delle bellezze create dai nostri avi per noi. Si corre, si lavora, ci si muove di qua e di là senza fermarsi un momento. Produci, consuma, crepa, cantava un tizio quando era ancora sano di mente. Sempre che lo sia mai stato. Io sono vent’anni che non vado agli Uffizi. E non è solo per il tempo che manca. E’ anche che mi rode dover pagare una fispola per entrare in un luogo che, a noi residenti a Firenze, dovrebbe essere gratuito. Se non sempre, almeno in bassa stagione. Vabbè, funziona così. Poi, come dicono in quel film, i romani mi sembrano insopportabili ed i migliori abitanti di Roma sono i turisti. Possibile, chissà. Ma tanto io sto a Firenze.
Immaginate di essere in una casa colonica inglese del Norfolk. Una di quelle enormi, con dozzine di stanze. E di essere nella metà dell’ottocento (a meno che non abbiate una DeLorean che viaggia ad 88 miglia orarie, usate molta immaginazione). E che, dentro, vi siano due anziani inglesi; al lume di una flebile luce a gas (le residenze inglesi andavano a fuoco con la facilità di un cerino), lui fuma la pipa e lei lavora d’uncinetto. Ma ad un certo punto, da sotto la sua cuffietta vittoriana, lei sospira e rompe il silenzio così:
-‘un tu mi porti mai fori-
Lui sposta lo sguardo su di lei ed alza un sopracciglio:
-Icchè t’ha detto? (traduzione libera di “I beg you pardon, darling?”)-
-O ‘un fa finta di nulla. Si sta sempre chiusi qui dentro. Mai uno svago, mai una gita fuori porta…-
-T’ho portato a vede’ i’palazzo di cristallo, o icchè tu voi ancora?-
-E’ stato 7 anni fa!-
-‘un tu se’ mai ‘ontenta!-
-Te tu parli bene, te t’ha viaggiato, da giovane, per i’mondo!-
-Dovevo ammazzà francesi, ‘unnè che abbia avuto i’tempo di vedere granchè! Arruolati e girerai i’mondo, mi dicevano. Ma ‘ndove!-
-Appunto, sarebbe i’caso di andare a vedere un po' di ‘ose, no? Pure nostro figlio è in India-
-Lui è ad ammazzare gli indiani, per la gloria della ‘orona e dell’Inghilterra!-
-I’mi’bimbo che ammazza, ‘un ci voglio pensa’!-
-Ma insomma, si po' sapere indo’ tu voi andare?-
…..
-Mbè? Ora ‘un tu dici più niente?-
-Voglio….-
-Si, cosa? Parla donna!-
-Voglio andà in Italia!-
-In Italia? Tra quei briganti?-
-Il nostro più grande poeta ha scritto capolavori d’amore, su di loro!-
-Bella roba, si! Una storia d’amore di 3 giorni e moian tutti! E magari voi pure andà sotto al terrazzino dove s’affacciava la bella!-
-Eh, magari….-
-Voi andà in Italia per vedè un terrazzo. A me tu mi pari bischera-
-Ma è per quello che rappresenta! E poi dell’Italia ne parlan tutti bene….-
-Ma chi ne parla bene? Chi?-
-Beh… lui, ad esempio-
-Libri? Tu leggi?-
-Vedi che ‘un tu sa nulla di me? ‘un t’accorgi neanche che io leggo. ‘un tu mi voi bene per nulla!-
-Ma io ti voglio bene, darling. ‘un me l’aspettavo, ecco…. Fammi vedè…. Goethe! Un prussiano! Tu leggi un prussiano! Io non mi fido, dei prussiani! Glielo dicevo anche a Wellington, laggiù in Belgio. ‘un ci fidiamo troppo, di questi. Prima o poi ci s’avrà da combatterci ‘ontro!-
-V’hanno sarvato i’culo!-
-Ma ‘ndove! Si vinceva uguale!-
-Insomma, io voglio andà in Italia. Voglio vedere i monumenti di’Rinascimento. Degli antichi romani. Voglio vedè la storia, l’arte… pure i nostri vicini, gli Stibbert, ci sono andati. E te nulla…. Sigh sigh-
-‘No, ‘un piange, darling. Ti ci porto, via. Domani si parte, si cerca una ‘arrozza della Ryanhorse e si va-
-Davvero? O caro, ti voglio così bene, fatti abbraccià!-
-Ma certo, amore mio. E…. andiamo su in camera mia?-
-Ora ‘unn’esagerà. Siamo ingresi, rihordatelo!-
-Eh…. T’hai ragione, ‘ome sempre. Vabbene, via-
E così i nostri due inglesi partirono. E dettero vita a quell’incredibile movimento di massa che è il turismo. E permette a noi albergatori di vivere.

Firenze, 2016. Semplice semplice.
I propropro nipoti della coppia scendono per il check-out. Felici del soggiorno in albergo, lieti di aver visitato Firenze ed i suoi immortali, meravigliosi monumenti, ci lasciano questo regalo. 

Viaggiate e scoprite, gente. Più che potete. E se capitano piccoli problemi, durante il soggiorno, ricordate quel che mi dissero degli americani, pochi giorni fa: “It’s part of the adventure”.


martedì 21 giugno 2016

-Sara, stavo pensan...-

-No!-
 
-C-cosa, no?-
 
-Tu non devi pensare. Sei deleterio, te, a pensare. Ti ricordi quella volta, ad Alicante, che pensavi di alloggiare in quella pensioncina? Meno male che ho chiesto, prima, di vedere la camera. Era così squallida che pure un rifugiato della Siria preferirebbe una tendopoli macedona invasa dal fango-
 
-Veramente anche te eri attirata dal basso costo. Avevi l'aspetto raggiante di quella della pubblicità di [sito web]-
 
-Taci uomo! Dov'è il mio mangiare?-
 
-Uff, ora comincio, sta calma. Oggi il menù prevede pasta con tanto parmigiano grattato sopra, stracchino ed il mitico taleggio-
 
-Ti prendo a calci nel sedere se osi comprare ancora quello schifo puzzolente! L'ultima volta che l'hai fatto il frigo aveva lo stesso tanfo delle concerie dell'empolese. Io lo odio, il formaggio! Il cacio mi fa lo stesso effetto della kriptonite per superman-
 
-Non è che tu abbia la capacità di volare, eh-
 
-Io, il volo, lo elargisco: un bel calcione nel sedere e dopo astrosamantha avremo anche astromarce. Vuoi provare?-
 
-Ok, ok. Ora vuoi starmi a sentire?-
 
-Sentiamo quest'ennesima genialata-
 
-Mi dovresti fare una foto con il cappello da cuoco della Milla, quello che ha usato per il saggio di ginnastica artistica. Ovviamente, senza le-
 
-Il nostro marce egocentrico deve mostrarsi sul libro delle facce-
 
-Brava, ci sei arrivata-
 
-Ho capito, va. Ora ti metti a caricare la foto e ricamarci un discorsetto sopra. Meglio cucini io, oggi-
 
-Per questo ti ho sposato: sei intelligente, sveglia e fai una casseuola che è la fine del mondo-
 
-Sei l'uomo della mia vita, adoro quando mi dici così-
 
Smack
 
ps. Cannavacciuolo, in confronto a me, non sei nessuno.


venerdì 17 giugno 2016

"Se si hanno problemi, si beve per dimenticare
Se è una grande occasione, si beve per festeggiare
Se non c'è niente di particolare, si beve per far succedere qualcosa"
C. Bukowski

A cosa serve una vacanza?
A rilassarsi
A vedere il mondo esterno
A provare aspetti culturali diversi
A gustare nuovi cibi
A conoscere nuove persone
Od anche tutte queste cose insieme

Ma per qualcuno è anche perdersi, gettarsi via, dare il peggio di sé. Ma in fondo, è solo il mio punto di vista. In alcuni può essere lo scopo della vita. Per Bukowski, ad esempio, era così. E se poi quel qualcuno trova chi la pensa allo stesso modo, può nascere una grande amicizia.

Ed un portiere allibito.


Si prospetta un turno di notte senza fronzoli. Terreno in buone condizioni, zero spettatori, arbitro becco. Quando si gioca ai'Franchi, è 1 fisso.

C'è un discreto numero di partenze e conti da controllare, centinaia di mail spazzatura da cancellare, un discreto pacco di prenotazioni da inserire con sopra il solito, classico, immancabile biglietto: "Marcellino, per favore, le puoi inserire? Grazie. N." Segue cuoricino. Segue un immaginario ps: "Buonasera, sono la nuova responsabile del suo mutuo. Il fatto che lei abbia surrogato e non debba più rendere un centesimo agli olandesi non la esimie dal non lavorare. Ora deve rendere i soldi a noi. Quindi inserisca le prenotazioni e muto! Schnell, los!"

"Cosa c'entra il tedesco adesso?"

"Sappiamo che le piacciono gli ordini in questa lingua"

"Mi piacerebbe di più se a dirli fosse una fraulein di 90 chili e guepiere"

"Pervertito! Al lavoro! Raus!"

Come fai a dire di no?

Neanche il tempo di salutare la collega, stanca morta dopo il 15-23 e che non vede l'ora di tornare alla propria magione a godersi il meritato riposo, che rientrano in albergo due signore, mezza età e risata sguaiata. Parlata inglese masticata, biascicata e pure digerita. I texani non parlano inglese. Loro parlano inglese masticando un intero tubetto di bigbabol.

Hanno in mano un sacchetto di carta che, si capisce bene anche senza osservare seriamente, contiene una bottiglia. Ma non sto a farci molto caso. Sono più impegnato a capire -anzi, cercare di capire- che diamine mi stanno dicendo le due ziette di Houston.

Come mi piace sempre pensare in questi casi: forse dovrei chiamarli "Houston, abbiamo un problema, anzi, due. Venite a riprenderveli, anzi, riprendervele"

Tentano di dire quello che dovrebbe essere un numero, ma scoppiano in una fragorosissima risata, appoggiandosi l'una all'altra per non cadere. In particolare le diverte il "fall down". "I fall down" dice una all'altra "No, you don't fall down. You got the booze" E così via.

Breve divagazione sul mio rapporto con l'alcool: io e questo prodotto siamo sempre andati ben d'accordo: ci incontriamo raramente e con garbo. Da bravo toscano, accetto due dita due di rosso durante i pasti, e non sempre. Se apro una bottiglia, mi dura almeno una settimana-dieci giorni. Ma se non ho bottiglie in casa, ne faccio anche a meno. I superalcolici non mi piacciono, anche se, lo ammetto, ogni 3-4 anni mi concedo il lusso di un White Russian (maledetti fratelli Cohen). Ogni tanto, diciamo una volta al mese, mi gusto due dita di Porto, di solito con gli amici mentre esercitiamo il nostro piacere ludico con le creazioni di Seyfarth, Rosenberg, Andrè, Canetta/Niccolini od altri grandi autori di giochi da tavolo; ma bevo anche da solo, in particolare disteso sul divano, con il portatile sulle ginocchia, ad esercitare il piacere della scrittura. O, molto più spesso, della semplice lettura.

Ma in quel momento mi chiedevo, quasi disperatamente, come comportarmi con queste due signore 50enni completamente fatte. Sequestrargli la bottiglia? Giuro, ero tentatissimo. Forse avrei dovuto fare proprio così: agire esattamente come avrebbe fatto Wayne Bidwell Weelher ed urlare "basta con il liquido del demonio!", novello adepto del comitato della temperanza, che vietava l'alcool e le gonne che mostrano la caviglia (anche l'isis inorridirebbe). Invece no. Gli dò la chiave della camera (dopo aver controllato chi erano e dove stavano. E con qualche dubbio, perchè ricordavano a malapena il loro stesso nome) e lascio che salgano in camera con il "booze".

Non devo attendere molto per rivederle. Alle 5 del mattino, l'ascensore si apre e ne escono le signore.

Sempre ridendo come matte, ma stavolta tirandosi dietro due trolley.

Ed una bottiglia vuota a metà.

Si presentano per un check-out completato con discreta difficoltà, dato il loro continuo ed ostinato ridere ed il parlare con quel folle accento texano, a cui si aggiungeva il mio rintontimento, sia perchè indotto da 6 ore di lavoro notturno sia perchè presente in maniera naturale da sempre. Ma ci riusciamo. Pagano il dovuto. Chiedono un taxi (il termine cab, in particolare, gli induce, per motivi a me ignoti, una discreta, aggiuntiva dose di ilarità), ed all'arrivo della macchina, mentre apro la porta dell'albergo, mi passano la bottiglia. Ed in un incredibile e stupefacente momento di lucidità, la signora parla con un accento chiaro e definito:

-Questa non ce la facciamo a finirla. E' la quinta bottiglia che beviamo qui a Firenze, quindi la lasciamo a lei-

A quelle parola rimango letteralmente basito. Ma come la quinta?? Lei se ne accorge, e mette subito le mani avanti -Ma le altre quattro erano di vino- -Si- ribatte l'altra -poi abbiamo deciso che non ne potevamo più di vino, e ci siamo presi qualcosa dalle nostre parti- dopo di che le signore, ripreso il loro ridere sguaiato, salgono sul cab (con il tassista che carica i bagagli, gli chiude la portiera e, mentre sale in auto, mi guarda e fa "Sai icchè? E le son allegre di nulla, queste due") e spariscono in direzione aeroporto.

Rimango qui, sulla soglia dell'albergo, con questa bottiglia di whisky in mano, che se passa qualcuno mi prende per un ubriacone; il che andrebbe benissimo se dovessi incontrare un Piccolo Principe, ma nel centro di Firenze, alle 5 del mattino, al massimo, incontro nottambuli non del tutto raccomandabili. Rientro dentro e mi chiudo a chiave. Per curiosità, riprendo la ricevuta: 3 notti si soggiorno. 3 giorni a Firenze e 5 bottiglie.Ok, 4 erano di vino, ma si tratta sempre di una discreta dose di alcool. Al posto del fegato devono avere un cartellone che recita "affittasi spazio libero". Od una foto di Bukowski con dedica.

Non me ne faccio niente di questa roba. Lo porto nel bar, dove lo fotografo; poi l'ho messo sullo scaffale. Alla fine qualcuno se l'è bevuto.

Però rimango convinto che Weelher avesse ragione, ed il Volstead act sia più mai che necessario.


ps. Oh, vabbè, alla fine sono state bene, hanno apprezzato il soggiorno ("lovely Hotel") e contribuito al fatturato dello stesso ed al mutuo del sottoscritto. Chi sono io per giudicare?

venerdì 10 giugno 2016

Buonasera. Lasciate, innanzitutto, che mi presenti.

Il mio nome è Sara. Sono nata a Milano e vivo a Firenze. Ho madre lomellinese, padre pistoiese e fratello teramano. Se ci mettete anche una nonna sarda, sono la quintessenza della penisola. E poichè parlo anche 3 lingue straniere, posso mandarvi a quel paese in moltissimi modi. Quindi attenzione a non farmi incacchiare.

Ho una laurea in scienze dell'educazione, il che mi permette di trattare e convivere, in maniera abbastanza decente, con i 3 bambini presenti in questa casa: due femmine ed un maschio. Le femmine sono una mia creazione personale, prodotto del mio corpo, amore della mia vita. Il maschio no. Lo tengo solo perchè mi serve per il pagamento del mutuo, altrimenti l'avevo già rispedito da sua madre. Od al primo offerente (pari al valore del mutuo, quindi è un bene in costante calo. Ma affrettatevi, non si sa mai).

Lo chiamo bambino a ragione, visto che almeno due volte a settimana ci smolla da sole in casa per andare a trastullarsi con cubetti, dadi e pedine. E pure quando siamo insieme ai miei, o con mio fratello e sua moglie, o con altri amici, non riesce che a pensare a "che gioco possiamo fare questa sera?" Quindi, se lo chiamo bambino malgrado i suoi 46 anni, lo faccio con cognizione di causa.

E meno male che ha smesso con il calcetto. Lo sapete cosa mi combinò, quando dovevamo uscire la prima volta insieme? Mi inviò, due giorni prima, un sms per "spostare" l'appuntamento alla settimana dopo. Perchè quella sera doveva giocare. Non so perchè gli detti, malgrado ciò, una seconda occasione. Ma è chiaro che, da allora, si merita che lui cucini; e mi prepari spremuta d'arancia e caffè dopo pranzo mentre io, paciosamente stesa sul divano, posso mangiarmi con gli occhi Patrick Dempsey. E mi accompagni a vedere i Take That quando la Barbara e la Valentina mi danno buca.

Come saprete, se avete letto questo blog da lui creato, anche io lavoro in albergo, alla reception. Anche io sono alle prese con i turisti che vengono a visitare Firenze, a volte assurdi, a volte stupendi. L'altra settimana venne una splendida signora settantenne arrivata in Italia per la prima volta dagli Stati Uniti per vedere la tomba del padre, partito quando lei aveva solo 5 anni, caduto in guerra contro i nazifascisti e sepolto nel cimitero militare americano a sud di Firenze. Una storia commovente e profonda.

Ma quel che è capitato alcuni giorni fa è una delle vicende più incredibili.

Settimana scorsa, appunto. Al bancone scende la Mirella, cameriera di provenienza dall'altro lato dell'Adriatico e potere del gas nervino nei piedi, specialmente dopo una mattinata di pulizie camere. Lo stesso effetto che avrebbe fatto un attacco chimico iracheno se Saddam avesse veramente avuto le armi di distruzione di massa. Ma per fortuna ora siamo alla reception e lei indossa le scarpe. Porta anche un sacchetto:

-Seeeeeenti, io trooooovato queeeeeesto in caaaaamera. Io porto te che io nooooooo sa come faaaaare.....-

-Mirella, lavori con noi da ormai un paio d'anni, la procedura dovresti averla imparata: se sono documenti, soldi, gioielli od apparecchiature elettroniche, li teniamo qui perchè li mettiamo in cassaforte, se invece sono vestiti li tenete voi giù nello stanzino apposito, con la sua targhetta del giorno del ritrovamento e della camera. Poi, se il cliente ci contatta e la rivuole, ci manda il corriere -a sue spese, chiaramente- e gliela facciamo riavere. Altrimenti, cassonetto e tanti saluti-

-Maaaaaa io no sa cooooosa essere qui deeeeentro-

-Mai sentito parlare di quel vaso? Fai come la Pandora: apri e rivela l'arcano contenuto-

-Cooooome?-

-Niente, a mio marito piace scrivere assurdità. Tu apri questo sacchetto-

La cameriera apre il sacchetto, e ne estrae una specie di mouse da computer di color fucsia, con collegato un cavo. All'altra estremità, quello che pare essere un joystick da nintendo wii. In effetti semmbra proprio quello, con tanto di nunchaku e....

No, direi che non è un joystick della wii.

-Mirella, io fossi in te, andrei di corsa a lavarmi le mani. Ma non bene. Benissimo. Di più. Perchè non so dove possa essere stato quel coso, ma posso immaginarmelo-

La cameriera lì per lì non capisce, poi nota l'estremità del joystick. E le sue guancie assumono il colore di un pomodoro a piena maturazione. Ficca tutto nel sacchetto e corre in basso a lavarsi abbondantemente le mani, mentre io afferro il glassex e pulisco il bancone.

E credo che la foto dica tutto.



Baci da Sara. E non date troppa confidenza a mio marito, potrei venire lì e cavarvi gli occhi.

A meno che non paghiate bene.




venerdì 3 giugno 2016


Fare il portiere è un lavoro da ingrati.

Da duri.

Da solitari.

Da matti.

Il portiere è quello che tiene su tutta la baracca. Perchè l'attaccante ha la gloria, ma è il portiere che mantiene il risultato, esattamente come in hotel tiene le chiavi delle camere e la situazione della giornata.

Questa non è la storia di un turno di lavoro come portiere d'albergo. Questa è la storia di un gruppo di amici fiorentini e della loro stupefacente vittoria. Questa è la storia di quando la favola del Leicester era di là da venire, e la cenerentola si chiamava Coverciano '88.

Maggio 1992. Torneo estivo amatoriale di calcio a cinque.

Uno dei tanti, a Firenze. Uno di quelli organizzati da una delle molte associazioni sportive, numerose quanto gli enti statali sul commercio con l'estero. Con arbitri della stazza approssimativa di un triceratopo, ed età simile, su campi che non conoscevano la gloria dell'erba sintetica, ed a farla da padrone era ancora la nuda ed elementare terra: i campi di Fantozzi, buche e dossi a metà campo, foreste pluviali ai lati, specialmente le zone d'angolo, e tempeste sahariane che si alzano al minimo alito di vento, in direzione della porta.

In particolare, e non ho mai capito perchè, quella difesa dal sottoscritto.

Ci ritroviamo a fare questo torneino estivo in quell'amena frazioncina di Firenze sud detta Cascine del Riccio: il luogo più umido non solo della provincia di Firenze, ma dell'intero globo terracqueo, appena un pelo sotto la Birmania durante il Monsone. Ma con temperature percepite solo da Scott ed Amudsen. Pure in piena estate, Cascine del Riccio è afflitta da un microclima tutto suo, una cosa inspegabile e scientificamente mai abbastanza studiata (o forse, come per la natura degli elettroni, semplicemente hanno smesso di studiarlo, ed accettano i postulati di Borh ed Heisenberg: esistono, tanto basta). Tuttavia, ha un campo da 11, uno da 7 ed uno da 5, e spogliatoi con h2o calda. Per maschi dell'età compresa dai 15 ai 50, è appena un pelo sotto al paradiso coranico delle 72 vergini. Per qualcuno, anche di più.

Cominciamo qundi il torneo con il botto: il DLF. Dopolavoro ferroviario. A Firenze, all'interno di quel mondo piccolo che è il calcio a 5 amatoriale, è come dire colei-che-non-deve-essere-nominata in serie A e B: una potenza del calcio. In questo caso, calcio locale a 5, ma sempre una potenza.

Raccatto il pallone in fondo al sacco 5 volte, a fronte di un solo gol da parte nostra.

Come si dice in questi casi: chi ben comincia...

Ma bene o male, picchia e mena, andiamo avanti: prima una vittoria striminizita, poi un pareggino all'ultimo secondo, e passiamo il turno. Troviamo la prima classificata dell'altro girone, in semifinale.

Ma non si dimostrano forti come pensavamo. Li battiamo. Lottando, ma vinciamo noi.

3 Giugno 1992, la finale. Si, sono passati 24 anni.

Ed ovviamente, ritroviamo il DLF. Che, da brava macchina schiacciasassi, aveva vinto tutti gli incontri. Persino, con appena 4 gol al passivo. Il titolare coi guanti, mio corrispettivo, quello che vedo solo due minuti prima all'inizio dell'incontro, per augurarsi in bocca al lupo e dopo ci osserviamo a distanza da una porta all'altra, non arriva alle dita di una mano, in quanto a gol subiti. Ne ho presi più io nel primo incontro.

In finale non siamo soli.

Un piccolo bazar di persone, svariati maschi e femmine dell'età poco superiore alla pubertà ed il cervelletto ancora fermo ai cartoni giapponesi, sono presenti a bordo campo.

Hanno chiamato gli amici, per festeggiare una vittoria scontata e prevedibile. Seguirà buffet. O, quanto meno, una pizzata offerta dal presidente.

Dulcis in fundo, c'è pure un fotografo, ad immortalare il lieto evento.

Noi siamo gli agnelli sacrificali. Le vittime del rito Azteco. A cui aprire il petto ed estrarne il cuore.

Ci cambiamo, nello spogliatoio, con un atteggiamento che va dal fatalista al rassegnato passando dallo scocciato andante con brio. Non è mai bello fare da sparring partner, ma eravamo consapevoli che ci erano superiori. Eppure, mentre indossiamo l'equipaggiamento di gioco, ci sale, pian piano, la voglia di fare comunque la nostra partita. Di provarci in ogni modo. Di gettare il cuore oltre l'ostacolo. Di non mollare mai, a nessun costo. Di non cedere. Di sputare sangue, se necessario.

Questi i gocatori:

1-Mugnai
2-Cecchi
3-Banti
4-Di Ferdinando
5-Monnecchi
6-Porciani
7-Fiore
8-Tozzi
9-Picchi
10-Novelli. Quest'ultimo in versione mister Ranieri causa infortunio.

Prima di uscire dagli spogliatoi, il mister ci guarda tutti negli occhi e ci dice, semplicemente "Non diamogliela vinta. Che se la sudino, la 'oppa"

Quindi, scend.... mmmmh, no.

Andiamo in campo.

Il primo tempo, complice la nostra furia agonistica ed un'evidente rilassatezza avversaria che equivale un pò ad un "S'è bell'è vinto, non sudiamo troppo, che ci si stanca", finisce 0-0.

Qualcuno degli amici invitati a godere della prevedibile e scontata vittoria si lascia sfuggire un "Oh, ma quando vu segnate?", mentre una delle ragazze, evidentemente classica tipa per cui la regola del fuorigioco è facile da comprendere come lo studio applcato delle equazioni integrali di 4° grado, se ne esce con "Quanto dura la partita? Voglio andà a mangià la pizza"

Si riparte. Stesso copione del primo: noi a correre come matti in tutto il campo, a lottare su ogni pallone, a non tirare mai indietro la gamba; loro a palleggiare con fare un pò svogliato, da tiki-taka ante-litteram.

Fino a metà della ripresa.

Banti, difensore roccioso ed arcigno ma la cui tecnica di gioco si può rissumere in "la parte migliore del piede per controllare il pallone è la punta: colpire con tutta la forza", un qualcosa che avrebbe avuto l'approvazione di Nereo Rocco sullo studio della difesa, si ritrova la palla tra i piedi al limite dell'area avversaria. E, circondato da giocatori con un colore della maglia diverso dal suo, si prodiga in un colpo di tacco che non riuscirebbe neanche ad un qualsiasi numero 10 della nazionale Argentina. Ma che lui, in quel preciso momento, compie con incredibile quanto stupefacente maestria.

E smarca quello che era in attacco in quei minuti, il Cecchi. Che, con una freddezza che non aveva neanche i'Bati ai tempi d'oro in maglia Viola, caracolla con il corpo tutto inclinato di 70° sulla sinistra, attende l'uscita del portiere e lo fredda col piattone destro all'angolino opposto.

Siamo in vantaggio.

Fu come fosse esploso, nella testa dei nostri avversari, un vero big bang: di colpo gli si aprì un inedito, inverosimile, inesplorato universo. Un viaggio verso un nuovo, strano mondo.

Un viaggio senza ritorno.

Si riversarono in massa nella nostra età campo, alla disperata ricerca del pareggio. Ma, vuoi difensori pronti e decisi ad immolarare faccia ed attributi sulle pallonate avversarie, vuoi un portiere (si, incredibile, ma ero io) a cui prende il matto e, incurante di fracassare le ginocchia sul terreno, si lancia su tutti i palloni e vuoi, dulcis in fundo, un clamoroso palo su cui si infranse l'ultima disperata conclusione, il risultato non cambiò fino al triplice fischio finale.

Coverciano 88 - D.L.F 1-0

Senza neanche capire come, ci ritroviamo soli in mezzo al campo: i nostri avversari spariscono, nel giro di due nanosecondi, negli spogliatoi, e pure i loro amici ad assistere svicolano direttamente nel parcheggio (con la solita ragazzetta calcisticamente ignorante che se ne viene fuori con un involontariamente sarcastico "O come hanno perso? O 'un dovean vincè? O icchè gli'è successo?")

Poi realizziamo

Abbiamo vinto

Scopriamo la bellezza di una fresca serata poco fuori Firenze, in un ambiente che, anche a Giugno, sembra Novembre inoltrato a Novosibirsk. Di un arbitro, con la pancia di una rotondità che sembra un dipinto di Giotto, che ci viene incontro con una stupenda, fantasmagorica, meravigliosa coppa, ed il sorriso di chi ha appena assistito ad uno di quei rarissimi miracoli calcistici, quelli che non avvengono mai, ma quando avvengono, li ricordi per tutta la vita. Di un fotografo che si ritrova circondato da quelli che non gli hanno pagato il servizio, e gli chiedono uno scatto. Accetta. Un solo semplice, banale, normalissimo scatto di una vittoria unica ed irripetibile. Quella che ci ha tolto lo "zero tituli" dalla pagina wikipedia (se ne avessimo una, ovvio).

Sono passati 24 anni, ma quel giorno me lo ricordo come fosse ieri. Il giorno più bello della mia vita, poi declassato negli anni dopo l'incontro con quella che sarebbe diventata mia moglie e la nascita delle nostre due bambine.

Ed anche se, nel corso di questi anni, ho perso un pò i contatti con gli altri membri della squadra, rimane il fatto che quella squadra fu vincente. Ed io ne ero il portiere.

E lo sono tutt'oggi.

Anche se di un altro tipo.