giovedì 24 gennaio 2019

Cominciamo con la nota negativa: si perse.

Anzi no, studiamola meglio: giocai una partita sontuosa. Che suona decisamente in maniera positiva.

Però si perse.

Non se ne prese 3 come il povero Chievo lunedì sera. Che giocava contro colei-che-non-deve-essere-nominata. Non me ne volete se non la nomino, ma sono di Firenze. Per noi è sempre una guerra, e la vista delle strisce verticali ci fa lo stesso effetto delle picche della soldataglia spagnola di Carlo V o degli Stahlhelm indossati dalle truppe della Wermacht. Cercate di capirmi. Provate a mettermi da questa parte della barricata e vedrete una Marianna che sventola il vessillo Viola e incita i patrioti. Funziona così, da secoli. Il nazionalismo, da queste parti, è veramente tale ed esaltato all'ennesima potenza.

Insomma, si perse.

E' che ricordo questa partita proprio perchè giocai alla stragrande. E l'epica parata del portiere del Chievo, l'altra sera, me l'ha fatta tornare in mente. E come mi piace sempre dire "Portiere d'albergo e portiere di calcetto: una vita sulla soglia". Lì, piazzato all'ingresso. In attesa. Di un cliente. Di un pallone.

Ok, ogni tanto di palloni ne passavano. Anche più di ogni tanto.

Ma ci sono stati quei momenti di soddisfazione, di piacere del gioco, di epicità, che mi hanno veramente fatto amare questo sport e questo ruolo in particolare.

Erano gli anni '90. Ero un giovanotto inconcludente, spaesato, perso nel tentativo di studiare qualcosa di bello ma troppo difficile -e sbagliato, per quel che ero- e un servizio civile impegnativo. Ma non ancora operante a una reception. Quindi con sere libere a disposizione di una vita sociale furiosa ed esaltante, fatta prevalentemente di giochi di ruolo e pallonate. E di queste ultime, tantissime.

Giocavo sempre, per la disperazione di mia madre che non riusciva a stare dietro alle divise di gioco da lavare. Ne ho sempre avute -e le ho tuttora- diverse. Non solo l'1, ho anche un 12. E qualche anno dopo anche uno 0. Quindi mi potete chiamare indistintamente MM1, MM12 o MM0.

Ed ero richiestissimo.

Non tanto per la bravura. Quella, ci fosse veramente stata, mi avrebbe portato pure a qualche livello importante. Era proprio il ruolo. Il portiere è quello che nessuno vuol fare. Che alcune squadre amatoriali deve addirittura "sorteggiare" tra i componenti, se non c'è un ruolo. A turno, qualcuno sta in porta. Non gli piace, ne farebbe volentieri a meno, ma almeno una partita di campionato se la deve fare.

Io no. Io l'ho sempre scelto, il portiere. E quando si scopriva il mio ruolo, era tutto un "dammi il numero che ti chiamo quando si gioca".

Questa cosa che il numero me lo chiedevano soltanto maschi mi è sempre rimasto qui.

Tra le varie squadre che ebbe l'onore di avermi nelle loro fila, ci fu una piccola compagine che definire scalcagnata è poco. Non ricordo neanche in che occasione conobbi il tipo che mi ci portò. Amicizie durate il tempo di un campionato e terminate senza neanche che ce ne accorgessimo. Ognuno perso dietro ai fatti suoi, direbbe Vasco. Ma comunque conobbi uno e mi feci trascinare. Salvo scoprire poi che questi giocatori erano una pena. Un disastro. Un'offesa al gioco del calcio. Incapaci anche di fare un semplice passaggio. Sempre a mandarsi a quel paese in campo e negli spogliatoi. Manco a dirlo, ultimi in classifica.

Giocavamo contro la prima. Con il capocannoniere del torneo.

Entrarono in campo con malcelata superbia, quasi arroganza. In campo mostravano una sicurezza, nel movimento e nei passaggi, che definirei quasi offensiva. Addirittura schemi, movimenti senza palla sincronizzati, piccoli Iniesta che sapevano già che, correndo in un determinato punto del campo, avrebbero ricevuto il pallone. Visti da fuori, erano un piccolo spettacolo. Visti dalla porta, beh, una sofferenza. Soprattutto se i propri compagni correvano a vuoto da una parte all'altra del campo senza avere la più pallida idea di quel che stavano facendo. Cavie da laboratorio, ecco quel che eravamo, per i primi della classe.

Tuttavia questi campioni avevano un grave difetto.

Dall'altra parte del campo, vedevo questo essere che definire informe era un insulto alle amebe o altri organismi monocellulari. Un tipo allampanato che nuotava letteralmente nella maglia e nei pantaloni da ginnastica che aveva indosso. Con le scarpe da tennis, non vere scarpe da calcetto con zigrinatura sulla suola. E con due oggetti che, solo a pensarci, provo ancora i brividi

Le ginocchiere da pallavolo.

Se sei un portiere non devi MAI metterti le ginocchiere. Non devi MAI provare paura. Puoi anche avere i pantaloni lunghi -li ho messi anche io, quando giocavo sul parquet in luogo dell'erba sintetica- ma le ginocchiere no, che diamine. Devi sempre OSARE. Lanciarti. Gettare il cuore oltre l'ostacolo. Tuffarti sempre e comunque. Ci si fracassa le ginocchia, si patiscono le escoriazioni, soprattutto quando, dopo la doccia, si infilano i jeans, ma si deve giocare da portieri. Sempre e comunque.

Ancora sullo 0-0, mentre i nostri avversari giocano con noi come al gatto sul topo, uno dei nostri intercetta un pallone e si prodiga in un tiro senza pretese. Una puntata -letteralmente, colpisce di punta, l'unica parte del piede con cui riusciva a toccare palla- proprio perchè la stava riperdendo. Da distanza di un metro. E si trovava a metà campo. Ne viene fuori un tiro ridicolo. Un passaggio al portiere avversario. Basta abbassare le mani e raccoglierlo.

Ma questa buffa caricatura di un numero 1 neanche ci prova. Se ne resta lì fermo ad attendere che questa sfera gli arrivi a pochi centimetri dai piedi. Poi, in maniera goffa e impacciata, muove la gamba sinistra a chiudere e tentare di colpire fuori il pallone. Ma troppo in ritardo. E gli passa sotto le gambe.

Io non sono mai stato un campione, ma una roba così non l'avrei mai fatta. Certo, non mi sono fatto mancare le goffaggini, o papere, come si definiscono in gergo. Ma a questi livelli non arrivavo neanche io. Un minimo di stile, di amor proprio, di dignità. E che diamine.

Neanche esultiamo, da tanto che siamo sorpresi. Si sente il "Nooooo!!!!"  dei nostri avversari. Odo anche un "anche stasera non ci facciamo mancare la papera", segno che devono essere abituati.

Dire che, subito dopo, subii un vero assedio, è un eufemismo. Furono una serie di attacchi a tenaglia modello Barcellona. Passaggi precisi, millimetrici, tocchi rasoterra dolci, tutti di prima, movimenti eleganti e calcolati fino a smarcare, davanti a me, uno dei loro uomini. Pochi metri, io contro lui, leggermente defilati sulla mia destra. Ginocchia piegate, mani protese verso il basso e allargate ai fianchi, pronte a scattare come serpenti che devono mordere la preda. Lui controlla, tocca al giocatore accanto -il capocannoniere del torneo- che piazza il colpo decisivo. Un piattone secco e potente.

Ecco, proprio come il portiere del Chievo contro il cannoniere di colei-che-non-deve-essere-nominata, mi allungo sulla sinistra, la mia parte preferita (in tutti i sensi). Un guizzo, un fulmine, un istante rapidissimo e sono in posizione orizzontale, le braccia protese verso il palo, le punta delle dita che toccano il pallone e lo spingono fuori.

Difficile descrivere l'estaltazione che si prova in quei momenti. L'adrenalina che pulsa dalla testa ai piedi, resa ancor più intensa dalle urla di disappunto degli avversari. Il tocco duro con l'erba sintetica, il suo odore pungente, le zanzare che mi girano attorno e mi sembra di sentirle urlare "Che la smetti di muoverti? Ci s'ha fame!"

Ovviamente, contro una squadra così forte, e con compagni di gioco tanto scarsi in una differenza di 2-3 categorie, non c'è partita. Compio ancora una serie di splendidi interventi che Benji Price levati proprio, ma un paio di volte devo arrendermi. Si perse 2-1.

Ma il capocannoniere no. Lui non riesce a segnare. La prende di punta, seriamente, e con caparbietà ci prova in tutti i modi, ma gli nego sempre la porta.

Al triplice fischio, lo ricordo bene, ho la palla tra le mani, e il grande attaccante, che è lì a due passi, mi si avvicina e mi abbraccia. E mi sussurra "Sei grande, grandissimo!" che ancora oggi, a pensarci, mi commuovo. E mi trascina in mezzo al campo, chiama tutti e lì, tra due ali di giocatori di entrambe le squadre, mi applaudono.

Ci vuole classe anche a essere grandi, e costoro lo erano davvero. Perchè nei campionati amatoriali trovi, come nella prima serie professionistica, gente esaltata che ti tratta da pezzenti del calcio e ti deride quando sbagli. Ma alcuni brillano per la semplicità e rispetto del prossimo. Questi ragazzi erano impegnati, come mi spiegarono, in un campionato più forte e giocavano in questo per "allenarsi", per fare pratica. E nel campionato vero, serio, avevano un portiere bravo. Ma lì non ci voleva giocare perchè stava sempre a guardare. Difatti nell'altro campionato stentavano, perchè c'erano squadre davvero forti. In questo torneo no, erano primi e segnavano a raffica, permettendosi di studiare gli schemi. Difatti lo vinsero, quel piccolo torneo.

Ma il super attaccante della squadra non vinse la classifica di capocannoniere. Qualche settimana dopo andai a vedere i risultati deifnitivi: arrivò secondo. Lo 0 gol segnati in quella partita gli fece perdere il primato. E glielo negai io.

Magari non c'è molto da vantarsi nell'aver costretto un avversario a un risultato negativo piuttosto che uno positivo per la propria squadra, ma il calcio funziona così.

Soprattutto per noi portieri.