Ti becchi quel che c'è.
Alle volte è così, prendere o lasciare. Non avete
possibilità di scelta, non ci sono pillole blu o rosse, non esistono sliding
doors, non c'è nessun arbitro che ti chieda "palla o campo?". Niente
di tutto ciò. Hai un'unica, singola, obbligatoria opzione.
E ringrazia che c'è almeno quella.
Irlanda, 1996.
A giro per l'isola verde, con poche idee e la tacita nonché
inconfessabile volontà di non fare un bel niente. Un vago, stentato,
presuntuoso progetto di cominciare lassù una nuova vita senza la reale
intenzione di cercare un lavoro. Qualche colloquio, un po’ di vaghe domande, il
sorriso e la gentilezza del personale ai centri per l'impiego di fronte ad un
caso disperato, ma anche un'incredibile svogliatezza e la tremenda difficoltà
con una lingua parlata così male che a confronto pure il napoletano stretto
diventa italiano perfettamente comprensibile. Il dialetto irlandese si assimila
solo dopo un paio di pinte di Guinness. Il che potrebbe spiegare perché, al mio
ritorno dall'isola, pesassi decisamente di più.
Rientro a Dublino dopo una gita di qualche giorno
sulla costa occidentale nella segreta e inconfessabile speranza di visitare
Skelling Michael e rimanerci per il resto dell'esistenza salvo scoprire che a)
bisognava prenotare con largo anticipo, tipo un paio di generazioni prima e b)
il tempo era così inclemente che l'unico modo per attraversare il mare in
tempesta era a bordo dell'Ottobre Rosso, a 500 metri di profondità.
Ma arriva il maledettissimo intoppo. Quello del
viaggiatore che non fa i conti con l'oste: la finale di Hurling.
L'Hurling è lo sport più folle, assurdo, pazzesco
inventato dagli irlandesi, quasi certamente in un pub e sotto gli effluvi di
moltissimo alcool. Un mix di rugby e golf dove si colpisce una pallina con una
mazza che pure Thor avrebbe difficoltà a trascinare, ma che agli irlandesi
piace da matti e non esiste casa, nell'isola, che non abbia un equipaggiamento
di gioco. E in occasione della finale il Croke Park, 80 mila posti, è stracolmo
fino all'inverosimile. Irlandesi che provengono da ogni angolo dell'isola per
assistere. Va da sé, arrivo al Brewery Hostel che sono stracolmi. Pieni zeppi.
Prenotati da settimane, con una marea di pel di carota tutti muscoli e pancione
(maschi e femmine indistintamente) arrivati lì per la loro straca**o di finale.
Mi ritrovo senza sapere dove andare, con la reale
possibilità di girovagare per Dublino tutta la notte.
Non un posto per dormire.
Ma a quel punto, il viso e l'espressione angelica
della ragazzona australiana che lavorava all'ostello, mi appare in tutta la sua
grandiosità, e mi assicura che mi trovava dove stare. Pure, senza pagare nulla.
Ho ancora davanti ai miei occhi il bellissimo viso rubicondo, dolce e
premuroso, di questa ragazza alta e meravigliosamente rotonda che mi assicura
che "non preoccuparti, stasera potrai dormire". Non so il motivo per
cui non mi dichiarai a lei subito. Lì, sull'istante. Ci stava, davvero. Perché
era un sorriso che avrebbe meritato un'intera esistenza. Perso, come tante cose
belle della vita, che spesso sfuggono di mano con un nonnulla, per un attimo di
esitazione. Pazienza, è andata così.
Il posto era un divano nella stanzetta riservata ai
dipendenti, tutti ragazzi non irlandesi che lavoravano lì per raggranellare
qualche spicciolo e inteneriti dalle difficoltà di quell'italiano che andava e
veniva da due mesi in quell'ostello e si ritrovava senza un posto dove dormire perché
non sapeva dell'amore irlandese per gli sport con le mazze. Il problema è che
"divano" era una definizione molto azzardata. Forse era valido
nell'era geologica precedente. Il termine migliore poteva essere
"allevamento intensivo di acari" o semplicemente "coltura
batterica", e anche lì si era parecchio distanti dalle reali condizioni.
Ma l'unica altra opzione -perché una seconda opzione è comunque sempre
presente, ma da non prendere neanche in considerazione- era girovagare tutta la
notte per la città. Accettai il divano. E dormii pure saporitamente. Credo che
gli acari abbiano ancora un ricordo leggendario di me e della mia pelle e
cantino tutt'ora Venditti. Io, sicuramente, ce l'ho della ragazza australiana,
della tedesca con la golf targata Colonia con cui andammo a Galway, il
brasiliano, il madrileño e il danese secco allampanato con cui scolavamo
ettolitri di birra -alla Guinness devono avere le nostre foto appese al muro,
migliori clienti del 1996-, dei Rootjoose visti dal vivo in un locale poco più
grande di una cabina telefonica a Temple bar, dei proprietari dell'ostello che
ridevano delle mie difficoltà ma che comunque furono proprio loro, a dire alla
ragazzona aussie: "Dai, per stanotte fallo dormire lì, quel
disgraziato". Meravigliosi ricordi di quei mesi a Dublino. Tutti tranne
quelle ore in cui mi sentii perso perché erano completi, prima del magico
annuncio australiano. Il giorno dopo la finale l'ostello, magicamente, si
svuotò, e potei tornare a dormire in un letto normale. Per le settimane a
seguire la tv mostrava solo ed esclusivamente le immagini della partita, vinta
dal Wexford County Board su Limerick, con il baffuto capitano che alza la coppa
al cielo. Un particolare rimasto impresso nella mia mente soprattutto perché la
maglia del Wexford è Viola-oro. Visto che un paio di mesi prima, a Firenze,
avevamo vinto la coppa Italia, quello fu un anno magico per le squadre Viola
nel mondo. E comunque era meglio rivedere quello sport assurdo che qualsiasi
altra cosa, sulla tv irlandese. Come nell'ostello cambiavano e mettevano il
canale musicale, si poteva star certi che veniva mostrato il video della Spice
girls che cantavano "Wannabe". Un continuo, perenne, martellante
ritornello che udivi ovunque, a qualsiasi angolo delle strade, alla faccia dei
rapporti non proprio idilliaci tra Irlanda e Inghilterra. E voi vi lamentate
dei tormentoni estivi di Tananai.
Come sempre, quando comincio a scrivere, non la smetto
più.
Turno di notte.
Una sola camera libera. Ore 23 e qualcosa, neanche il
tempo di controllare la situazione a inizio turno che entra una prenotazione.
Doppia. Per l'appunto, l'ultima camera disponibile. Albergo completo, alla via
così, la proprietà può essere fiera dei suoi dipendenti e dell’ottimo lavoro
svolto. Nome spagnolo, attendiamo questi iberici.
I tipi si presentano di lì a qualche minuto: due omoni
grandi e grossi che diresti “ecco chi dobbiamo naturalizzare per evitare
l’ennesimo cucchiaio di legno”. Ma purtroppo modi bruschi, niente saluti o
convenevoli, lo sguardo truce e malevolo di persone che diresti parte del ramo
spagnolo di Jenny 'a carogna. Mi smollano sul banco documenti, carta di credito
(che comunque è sempre un bel vedere) e l'intestazione per una ditta iberica.
Ti verrebbe poca voglia di sorridere, con persone così, ma devo farlo, è' il
lavoro. Se lo meritano loro come i giapponesi.
Ho come un sospetto, che ci sia qualcosa che non va,
che le cose non siano così semplici come i fatti me li vogliano mostrare.
Prendo i documenti e l'intestazione ma respingo la carta, che comunque è sulla
prenotazione. Gli dò la chiave e li mando su in camera: una delle migliori, dei
quelle ristrutturate più di recente.
Comincio a contare. Non arrivo a 10 che me li ritrovo
davanti. Proprio come sospettavo, intuivo, subdoravo.
La camera è matrimoniale, e la vogliono a due letti.
Non sono uno che fa polemiche. Non mi importa se due
fratelli (hanno lo stesso cognome, al massimo saranno cugini ma comunque
parenti, come direbbe il conte Mascetti, da parte di fava) non vogliono dormire
tra le stesse lenzuola. Gli faccio notare che la prenotazione è per una doppia .
Loro, in maniera così educata che vorresti riportarli a Madrid del '36 e
additarli alla folla repubblicana come membri della falange così da ottenerne
l'immediato linciaggio, insistono che hanno indicato, in fase di prenotazione,
"dos camas": due letti.
Tralasciamo un attimo il ragionamento per cui, se
sulla pagina di un sito di prenotazioni alberghiere tizio indichi che la vuole
a due letti questa sia assolutamente tale, come se aprire un menù a tendina facesse
magicamente apparire le cose come uno le desidera. Non è affatto detto che sia
così. È già tanto che hai trovato la tipologia che ti interessa (doppia,
tripla, ecc.), non puoi pretendere che sia proprio con i letti del tipo
desiderato, o con vasca piuttosto che doccia, se arrivi dopo 10 minuti 10 che
hai prenotato e poco prima della mezzanotte. Se la vuoi come richiesto devi
prenotare molte ore prima, quando c’è il personale e il tempo per organizzare
il lavoro. Ma sarebbe inutile. Fiato sprecato. Persone così non comprendono.
Non arrivano a capire che, a orari del genere e con così poco (anzi, assente)
preavviso, non si può avere tutto. Ci si becca quel che c'è, come dicevo
all'inizio del racconto. Quindi tralascio.
Loro, testardi come "burro" (in spagnolo
vuole dire mulo) insistono: abbiamo specificatamente richiesto due letti. Io allargo
le braccia: che altro potrei fare? Semplicemente, ho solo questa camera. Avete
prenotato per due persone e questa ne può contenere due.
In realtà sono parecchio scocciato anche io. Perché
queste due fave, con la loro prenotazione, hanno bloccato la camera. Per il
mondo intero è venduta; per tutti coloro che visitassero il nostro sito o
qualsiasi altra pagina di prenotazioni alberghiere, in quel preciso momento,
troverebbe che l'albergo ha esaurito la disponibilità, è al completo. Invece
non è affatto così. Ovviamente io avrei tutto il diritto di addebitare sulla
loro carta di credito, visto che hanno pure fatto una non rimborsabile, ma è
chiaro che costoro farebbero partire una polemica senza fine. Chiamerebbero il
circuito di cui fa parte la carta per bloccare il pagamento, e altre simili
amenità. Meglio lasciar perdere. Vado sul maledetto sito di prenotazioni per
segnalare e cancellare. E vedere se, almeno in quei pochi minuti prima -o anche
dopo- la mezzanotte, riesco a rivendere.
E a quel punto il più grande dei due, che intuisco
essere il maschio alfa della situazione, afferra il cellulare, digita e
telefona. Presumo in Spagna. Immagino a una collaboratrice, perché la chiama
per nome. E si mette a inveire, contro di lei, lì nella hall. Infarcendo la
conversazione unilaterale (lui urla, lei ascolta, presumo piccola piccola che
tiene il telefono a distanza) di parolacce iberiche. Che lui voleva "puta
dos camas" (fottuti due letti). Se ne frega dei miei inviti ad abbassare i
decibel. E intanto il fratellino minore (molto minore) se ne viene al bancone e
mi rimprovera che non dovrebbe apparire, sul sito delle prenotazioni, il menù a
tendina per la scelta tra due letti o matrimoniale, se non è possibile. Al che
mi viene proprio spontaneo dire che "io faccio il portiere di notte, non
sono il proprietario di quel sito web" e capita l'antifona, si ritira.
Finalmente l'altro la smette di urlare e se ne vanno.
Pensate sia finita? Ora arriva il meglio.
Perché anche se a Firenze non ci sono le finali di
Hurling, abbiamo comunque incredibili, magnifici, splendidi monumenti e
strepitose opere d'arte. Una percentuale in doppia cifra dei capolavori più
grandiosi mai creati a memoria d'uomo è qui, in riva all'Arno, meraviglie che non possono essere fermate neanche dai dazi. Quindi la città è al completo più totale, non si trova una camera
libera da nessuna parte.
Dopo neanche 10 minuti i due colossi spagnoli, loro sì
battuti, si ripresentano al bancone. Perché avrebbero dovuto girovagare tutta
la notte per la città. E quindi devono farsi andare bene quel che c'è, la sola
alternativa, l'unica opzione possibile: la camera matrimoniale nell'albergo
dove lavoro io. Grande, spaziosa, pulita, ristrutturata di recente e
soprattutto senza l'ombra di un acaro. Mica come il mio divano irlandese. E
loro che facevano tante storie, poveri cuccioli. Zitti e muti. Mi faccio
rendere la "tarjeta" (la carta di credito) che, stavolta si,
"infilo" (scusate il doppio senso) nel pos per un gustosissimo
addebito nel loro più completo silenzio.
E, credetemi, fu una grande soddisfazione.