sabato 17 ottobre 2020


Una storia che avevo scritto e non ancora pubblicato. Di quando l'albergo era aperto.

Può sembrare brutto denigrare il proprio mestiere, ma a volte ho l'impressione che fare il portiere d'albergo sia un pò come vendere un'auto usata: devi convincere il cliente che il mezzo che ha acquistato è perfetto, rombante, affidabile. Anche se in realtà è un catorcio immondo con ancora il mangianastri e l'unico fattore positivo è che il precedente propretario ci ha lasciato dentro una cassetta degli Steppenwolf.

E in quel caso conta moltissimo il sorriso smagliante del rivenditore. Ovviamente.

Un bel pomeriggio dell'anno scorso mi si presenta una ragazza australiana. Dico ragazza, benchè abbia quasi la mia età, perchè ha dei lineamenti dolci, un viso pulito e un'espressione bella, sorridente. E poi ho bisogno di sentirmi giovane anch'io.

Ma non ci vuole molto a capire che è una cliente difficile. Di quelle che pretendono. E ha prenotato una singola.

Le singole, in un 3 stelle, non sono mai un esempio illustre di camere da evidenziare. Sono stanzette semplici e minuscole. Con un lettino largo appena 70 centimetri, se è un vero singolo. Magari a volte capita di trovare un letto "francese", più largo, ma stiamo parlando di un albergo nel centro di una città vecchia di secoli, non si può pretendere di trovare la piazza d'armi. Io personalmente non mi sono mai fatto troppi scrupoli: ho dormito in posti lillipuziani e con un grado d'igene appena sopra a quello dei personaggi western interpretati da Terence Hill dopo che sono stati trainati per tutta l'Arizona da un cavallo. Alberghi come quelli dove lavoro io sono superiori di infinte grandezze, e pur nel loro limite sono camere pulite e soprattutto perfettamente funzionali. Se uno è in grado di comprenderlo, ovviamente.

Le clienti come questa no. E lo intuisco subito.

Espletate le formalità del check-in, che avvengono con grande agilità perchè lei è una persona curiosa e interessante, con un alto grado di attenzione, spirito e la giusta dose di informalità, attendo che salga in ascensore al piano per poi cominciare la mia attesa. Breve.

Come immaginavo, la vedo uscire dall'ascensore dopo pochi minuti.

Non ha un'espressione contrariata, ma leggermente delusa si. E però è abbastanza sorridente. Ci si può lavorare.

E qui esce fuori il rivenditore di auto usate.

Pazientemente, le spiego che questa è la tipologia di camere singole a Firenze. In Italia. In Europa. Ovunque nel mondo vi siano centri storici costruiti quando ancora Colombo doveva effettuare la sua crociera transatlantica. Almeno per questa categoria di alberghi, certo. Pagando una fispola di soldi in più si può andare in strutture ricettive di categoria superiore e quindi ben altre camere. Ma nei 3 stelle sono così. Cerco quindi di evidenziare gli aspetti positivi della camera a lei assegnata.

In primo luogo, anche se si trova alla fine di un corridoio lunghissimo, modello Overlook hotel, la stanza è silenziosissima. Ben lontana dalla strada dove possono arrivare sia i rumori delle auto sia le urla belluine di strani personaggi inebetiti dall'alcool alle 3 del mattino. Il secondo punto a favore della camera è che il bagno della stessa ha la finestra. Non è un "bagno cieco", con aereatore, come sono la quasi totalità dei bagni albergheri: qui c'è una vera finestra. Da aprire per far entrare l'aria fresca.

Ci pensa. Nel frattempo le dico che altre camere singole disponibili, per quel giorno, non ne ho. Si può vedere per l'indomani, ma con affaccio sulla strada. Che può essere rumorosa.

E lì si rende conto che di tutti gli altri alberghi che ha visitato in Italia, quella è senza dubbio la camera più silenziosa in assoluto. Si convince. E' piccola, sia la camera che il box doccia, ma funzionale. Resta. E il giorno dopo non cambierà perchè ha dormito benissimo malgrado il materasso un pò duro a cui non è abituata, ma quella è una scelta della proprietà che segue gusti soggettivi.

4 giorni, e ogni volta che rientra in albergo sorride contenta. E serena. E felice della visita di Firenze. E saluta tutti. E mi chiama per nome. E alla partenza lascia al banco il questionario con varie annotazioni. Perchè comunque qualche lamentela non se la fa mancare, ma vabbene, ci sta. Il resto invece sono elogi. Per noi del ricevimento. Per me.

Quanto mi mancano, queste clienti. Queste persone. Queste piccole storie. Questa normalità.

Questo lavoro.


domenica 11 ottobre 2020

Immaginate un giovane ragazzo australiano che, alla fine dell'ottocento, osserva gli Ibis volare. 

 E' incantato da questi uccelli. Dal loro modo di spiegare le ali e librarsi in alto, nei cieli.

 Herbert John Hinkler -Bert, per gli amici- vorrebbe essere come loro. Desidera, più di ogni altra cosa, essere nell'aria. E si impegna a farlo. Comincia a studiare l'aerodinamica, allora appena agli albori. E quindi da autodidatta. Inizia con una serie di alianti. Piccoli aeroplanini in balsa che modella lui stesso, con cura e dettagli. Li prova, li testa a lungo, nelle campagne del Queensland. Sono più un gioco, un passatempo, che una vera attività. Ma la passione c'è. Tantissima.

 Ha 11 anni quando arriva la notizia che porterà questa passione a farne la sua ragione di vita. Dall'altro capo del mondo, sulla costa atlantica degli Usa, gli americani sono riusciti nell'impresa che in tanti attendevano: il primo volo di un mezzo più pesante dell'aria, realizzato dai fratelli Wright sulla spiaggia di Kitty Hawk, Carolina del Nord.

 Bert è eccitatissimo. Si può volare. E' possibile applicare un motore a scoppio a un aliante e trasformarlo in aereoplano.

 Da adolescente, si reca a una grande fiera a Brisbane. E lì vede, per la prima volta, un aereo. Un "Bleriot", una copia dell'apparecchio usato dall'omonimo aviatore francese per la prima trasvolata della Manica, da Calais a Dover. Ormai non ha più dubbi, quello è il suo destino. 

Costruisce con le sue mani un aliante vero e proprio, e con quello riesce a volare, seppur per poco. Ma per lui, ovviamente, non è che l'inizio di una grande avventura. Si imbarca -siamo ancora ai piroscafi, ovviamente- e si reca in Inghilterra, dove comincia a studiare i motori e le meccaniche degli aeroplani.

 Probabilmente rimarrebbe sempre un meccanico, se non fosse che, di lì a poco, scoppia la prima guerra mondiale. E Bert si arruola nella RAF. 

 All'inizio viene messo come mitragliere nei ricognitori. Non ha ancora appreso pienamente le abilità di manovrare un apparecchio, quindi deve stare dietro, a prendere immagini del fronte nemico dall'alto, e sparare contro i caccia tedeschi che vogliono impedirglielo.

 Sono aerei rudimentali, fatti in legno e tela, con pochi, scarni comandi. Per un mitragliere la situazione è ancora più tesa: se il pilota viene colpito, per entrambi è la fine. Nella prima guerra mondiale non si portano i paracadute: gli abitacoli sono troppo stretti.

 Bert deve fare tutto il possibile per salvare la vita a sè stesso e al suo pilota: i ricognitori non sono apparecchi da grandi manovre, come i caccia. Ma ha una mentalità innovativa, capace di vedere là dove i costruttori non arrivano; soprattutto, ha le abilità per farlo. Realizza, ad esempio, un sistema per far sì che i bossoli sparati, particolarmente caldi, non finiscano sul mitragliere, ma di lato. Un espediente importante, se il pilota sta manovrando per togliersi un caccia di coda e l'aereo è inclinato o addirittura capovolto. 

 Sempre più pratico, impara a volare e realizza un sistema per mantenere gli aerei dritti, perchè in volo tendono a virare e inclinarsi dalla parte di dove girano il motore e l'elica. Viene trasferito a una squadriglia caccia che opera sul fronte italiano, per dare manforte alle nostre truppe contro gli austro-ungarici.

 Alla fine della guerra, decorato dopo le numerose missioni e, soprattutto, sopravvissuto, si dedica anima e corpo al volo. Gli anni venti sono quelli eroici dei record aerei. Sono piccoli apparecchi, fragili ed estremamente semplici, ma guidati da uomini -e donne, come Amelia Earhart- dotati di tempra d'acciaio, e decisi a sfidare il destino. A portare il limite un pò più in là. Lo sport estremo di quegli anni, ruggenti, vibranti, tragici. Bert Hinkler è ormai parte di questo mondo. Vola in solitario con un piccolo apparecchio, stabilendo record su record. E' il primo a volare da Londra all'Australia, ovviamente in più tappe. Qualche anno dopo vola da New York fino al Sud America e, da lì, fino all'Africa. E poi verso nord fino a Londra. E' il il primo a trasvolare l'Atlantico da sotto l'Equatore. 

 Nel 1933 decide di volare ancora da Londra all'Australia. Lo farà con un aereo di nuovo tipo, un monoplano ad ala alta, più potente. Per battere il record di tempo e fare molte meno tappe. Decolla a Gennaio, per trovare un tempo migliore dal Medio Oriente in giù. Ma sull'Europa non è così. Le condizioni atmosferiche sono difficili. Problematiche. 

Bert però non è il tipo che demorde facilmente. La prima tappa è impegnativa: Londra-Bari. In realtà, per un trasvolatore come lui, quasi una passeggiata. 

 Ma a Bari, Bert Hinkler, non arriva.

Cominciano le ricerche, ma in un mondo privo di geolocalizzazione -i telefoni fissi sono ancora rarissimi- e dove alcune zone della penisola sono ancora selvagge, non è un'operazione semplice. Si cercano testimonianze, per ricostruire i movimenti del pilota. Si scopre che ha attraversato con successo le Alpi e la Pianura Padana. 

 Alcune persone del Valdarno riferiscono di aver udito il rombo di un motore su in alto, sopra le nuvole. Ma in Casentino, questo rombo non è stato sentito. La catena del Pratomagno, che divide le due vallate, a quei tempi era ancora poco praticabile. In inverno sopratutto. Salire lassù significa farsi più di venti chilometri di sentiero a piedi, e con una spessa coltre di neve.

 Dopo quasi 3 mesi dalla scomparsa, due carabinieri, coadiuvati da due pastori che vivono sulle pendici, salgono in cima.

 L'aereo, o almeno quel che ne resta, è lassù. Il corpo del pilota qualche metro più in là. Ha tentato un atterraggio di emergenza, probabilmente per un guasto meccanico, ma il povero australiano non ha avuto fortuna. Scaraventato fuori dalla cabina di pilotaggio, nel contatto dell'apparecchio con il suolo, è deceduto sul colpo. I documenti personali non lasciano adito a dubbi, sulla sua identità.

 L'Italia, in quegli anni, è sottomessa a un governo che, della retorica dell'eroismo, fa uno dei suoi vanti. Il corpo del pilota viene traslato a Firenze e sepolto, con gli onori militari, al cimitero degli Allori, dove riposa tutt'ora. Nel punto in cui venne ritrovato l'apparecchio viene eretto un cippo. Una pietra con una targa a ricordo. 

 Ci passo ogni anno, da lì. Salgo su fino al crinale, in una lunga passeggiata che porta fino alla cima. Quest'anno, per la pausa causata dall'epidemia, ci sono stato ben più di una volta. Bert era un pilota degli anni eroici, di quelli che vivevano al limite. Che praticavano lo sport estremo di quei tempi.

Ciao Bert. Alla prossima estate.

giovedì 1 ottobre 2020

Vengo qui, con questa mia, a esprimere le lodi e profondo ringraziamento per l'attenzione di cui sono stato oggetto da parte del personale del pronto soccorso di Careggi.

 Sabato non mi sentivo bene. Avevo un doloretto al petto, dalla parte destra. Abbastanza all'interno. Lo avevo sentito bene già venerdì sera, nella posizione seduta del posto di guida dell'auto, soprattutto alle sterzate. 

 Dato che avevo anche un pò di mal di testa, il mio timore era che il mio organismo fosse stato assaltato dai covidi, i perfidi animaletti che possono annidiarsi ovunque. Neanche a pensarci, chiamo guardia medica prima e 118 dopo: vada al pronto soccorso. Sono le 13, le ragazze sono spaventate al massimo, ma sono grandi da affrontare la realtà e, soprattutto, di farsi la pasta da sole. Indosso l'armatura necessaria -visiera e guanti d'acciaio, come quello di Ash ne l'Armata delle Tenebre- e mi reco sul posto. 

 La mia prima idea è che mi sottopongano al tampone, e invece no. Almeno, i medici dicono che i sintomi sono troppo pochi. Mi fido perchè le uniche mie conoscenze mediche vengono dalle serie tv americane. A scans equivoci, faranno un controllo. Mi devono prelevare il sangue. Arterioso. 

 Me lo ricordo perchè dovetti sottopormi 30 anni fa, a tale esame, quando giocavo al pallone e le associazioni facevano controllare l'ossigenazione del sangue dei calciatori. E' molto più doloroso di quello in vena. Il dottore è bravo, ma ho una soglia del dolore bassissima, mi mette ko anche Ray -il gatto- cosa che fa anche molto spesso. Per farla breve, patisco. Mentre lui si rimette al pc a digitare informazioni su di me, mi alzo dalla sedia e mi accosto al lettino. Mi risveglio poco dopo che sia lui che l'infermiera mi tengono i piedi verso l'alto.

Vengo appoggiato su una barella e lì, benchè abbia proprio sui miei occhi le luci del corridoio e oda chiaramente un vecchio lamentarsi continuamente, mi assopisco. Poi mi trasfericono in un reparto. 

 Sono sottoposto a: elettrocardiogramma, radiografia, ecografia, ulteriore analisi del sangue perchè ho i globuli bianchi un pò alti, quindi ancora siringa -stavolta in vena- e "farfallina". Secondo svenimento, ma almeno sono già disteso. Via con un "millino" di flebo. 

 Seconda ecografia. Poi secondo millino di flebo. 

 Non voglio prolungarmi oltre. Sono entrato alle 13 e uscito alle 20. Ma mi hanno controllato ovunque. Rigirato come un calzino. Spiegato bene le procedure. Domandato tutto quello che avevo fatto nei giorni prima. Alla fine è venuto fuori che dovevo aver patito il giorno prima, quando ero andato in centro a portare i vecchi libri scolastici delle ragazze per vedere di rivenderli come usato, ed erano particolarmente pesi. Quindi un dolore da sforzo, benchè avessi comunque qualche valore sballato. Hanno preferito controllare bene. Insomma, mi sono sentito davvero curato. E poi avevo intorno delle belle dottoressine e infermiere. 

 Mi sento solo in dovere di ringraziarle. 

 Però non mi bucate più, se ricapito lì. Piuttosto sopprimetemi, ma non fatemi più soffrire.