domenica 20 aprile 2025

Ti becchi quel che c'è.

Alle volte è così, prendere o lasciare. Non avete possibilità di scelta, non ci sono pillole blu o rosse, non esistono sliding doors, non c'è nessun arbitro che ti chieda "palla o campo?". Niente di tutto ciò. Hai un'unica, singola, obbligatoria opzione.

E ringrazia che c'è almeno quella.

Irlanda, 1996.

A giro per l'isola verde, con poche idee e la tacita nonché inconfessabile volontà di non fare un bel niente. Un vago, stentato, presuntuoso progetto di cominciare lassù una nuova vita senza la reale intenzione di cercare un lavoro. Qualche colloquio, un po’ di vaghe domande, il sorriso e la gentilezza del personale ai centri per l'impiego di fronte ad un caso disperato, ma anche un'incredibile svogliatezza e la tremenda difficoltà con una lingua parlata così male che a confronto pure il napoletano stretto diventa italiano perfettamente comprensibile. Il dialetto irlandese si assimila solo dopo un paio di pinte di Guinness. Il che potrebbe spiegare perché, al mio ritorno dall'isola, pesassi decisamente di più.

Rientro a Dublino dopo una gita di qualche giorno sulla costa occidentale nella segreta e inconfessabile speranza di visitare Skelling Michael e rimanerci per il resto dell'esistenza salvo scoprire che a) bisognava prenotare con largo anticipo, tipo un paio di generazioni prima e b) il tempo era così inclemente che l'unico modo per attraversare il mare in tempesta era a bordo dell'Ottobre Rosso, a 500 metri di profondità.

Ma arriva il maledettissimo intoppo. Quello del viaggiatore che non fa i conti con l'oste: la finale di Hurling.

L'Hurling è lo sport più folle, assurdo, pazzesco inventato dagli irlandesi, quasi certamente in un pub e sotto gli effluvi di moltissimo alcool. Un mix di rugby e golf dove si colpisce una pallina con una mazza che pure Thor avrebbe difficoltà a trascinare, ma che agli irlandesi piace da matti e non esiste casa, nell'isola, che non abbia un equipaggiamento di gioco. E in occasione della finale il Croke Park, 80 mila posti, è stracolmo fino all'inverosimile. Irlandesi che provengono da ogni angolo dell'isola per assistere. Va da sé, arrivo al Brewery Hostel che sono stracolmi. Pieni zeppi. Prenotati da settimane, con una marea di pel di carota tutti muscoli e pancione (maschi e femmine indistintamente) arrivati lì per la loro straca**o di finale.

Mi ritrovo senza sapere dove andare, con la reale possibilità di girovagare per Dublino tutta la notte.

Non un posto per dormire.

Ma a quel punto, il viso e l'espressione angelica della ragazzona australiana che lavorava all'ostello, mi appare in tutta la sua grandiosità, e mi assicura che mi trovava dove stare. Pure, senza pagare nulla. Ho ancora davanti ai miei occhi il bellissimo viso rubicondo, dolce e premuroso, di questa ragazza alta e meravigliosamente rotonda che mi assicura che "non preoccuparti, stasera potrai dormire". Non so il motivo per cui non mi dichiarai a lei subito. Lì, sull'istante. Ci stava, davvero. Perché era un sorriso che avrebbe meritato un'intera esistenza. Perso, come tante cose belle della vita, che spesso sfuggono di mano con un nonnulla, per un attimo di esitazione. Pazienza, è andata così.

Il posto era un divano nella stanzetta riservata ai dipendenti, tutti ragazzi non irlandesi che lavoravano lì per raggranellare qualche spicciolo e inteneriti dalle difficoltà di quell'italiano che andava e veniva da due mesi in quell'ostello e si ritrovava senza un posto dove dormire perché non sapeva dell'amore irlandese per gli sport con le mazze. Il problema è che "divano" era una definizione molto azzardata. Forse era valido nell'era geologica precedente. Il termine migliore poteva essere "allevamento intensivo di acari" o semplicemente "coltura batterica", e anche lì si era parecchio distanti dalle reali condizioni. Ma l'unica altra opzione -perché una seconda opzione è comunque sempre presente, ma da non prendere neanche in considerazione- era girovagare tutta la notte per la città. Accettai il divano. E dormii pure saporitamente. Credo che gli acari abbiano ancora un ricordo leggendario di me e della mia pelle e cantino tutt'ora Venditti. Io, sicuramente, ce l'ho della ragazza australiana, della tedesca con la golf targata Colonia con cui andammo a Galway, il brasiliano, il madrileño e il danese secco allampanato con cui scolavamo ettolitri di birra -alla Guinness devono avere le nostre foto appese al muro, migliori clienti del 1996-, dei Rootjoose visti dal vivo in un locale poco più grande di una cabina telefonica a Temple bar, dei proprietari dell'ostello che ridevano delle mie difficoltà ma che comunque furono proprio loro, a dire alla ragazzona aussie: "Dai, per stanotte fallo dormire lì, quel disgraziato". Meravigliosi ricordi di quei mesi a Dublino. Tutti tranne quelle ore in cui mi sentii perso perché erano completi, prima del magico annuncio australiano. Il giorno dopo la finale l'ostello, magicamente, si svuotò, e potei tornare a dormire in un letto normale. Per le settimane a seguire la tv mostrava solo ed esclusivamente le immagini della partita, vinta dal Wexford County Board su Limerick, con il baffuto capitano che alza la coppa al cielo. Un particolare rimasto impresso nella mia mente soprattutto perché la maglia del Wexford è Viola-oro. Visto che un paio di mesi prima, a Firenze, avevamo vinto la coppa Italia, quello fu un anno magico per le squadre Viola nel mondo. E comunque era meglio rivedere quello sport assurdo che qualsiasi altra cosa, sulla tv irlandese. Come nell'ostello cambiavano e mettevano il canale musicale, si poteva star certi che veniva mostrato il video della Spice girls che cantavano "Wannabe". Un continuo, perenne, martellante ritornello che udivi ovunque, a qualsiasi angolo delle strade, alla faccia dei rapporti non proprio idilliaci tra Irlanda e Inghilterra. E voi vi lamentate dei tormentoni estivi di Tananai.

Come sempre, quando comincio a scrivere, non la smetto più.

Turno di notte.

Una sola camera libera. Ore 23 e qualcosa, neanche il tempo di controllare la situazione a inizio turno che entra una prenotazione. Doppia. Per l'appunto, l'ultima camera disponibile. Albergo completo, alla via così, la proprietà può essere fiera dei suoi dipendenti e dell’ottimo lavoro svolto. Nome spagnolo, attendiamo questi iberici.

I tipi si presentano di lì a qualche minuto: due omoni grandi e grossi che diresti “ecco chi dobbiamo naturalizzare per evitare l’ennesimo cucchiaio di legno”. Ma purtroppo modi bruschi, niente saluti o convenevoli, lo sguardo truce e malevolo di persone che diresti parte del ramo spagnolo di Jenny 'a carogna. Mi smollano sul banco documenti, carta di credito (che comunque è sempre un bel vedere) e l'intestazione per una ditta iberica. Ti verrebbe poca voglia di sorridere, con persone così, ma devo farlo, è' il lavoro. Se lo meritano loro come i giapponesi.

Ho come un sospetto, che ci sia qualcosa che non va, che le cose non siano così semplici come i fatti me li vogliano mostrare. Prendo i documenti e l'intestazione ma respingo la carta, che comunque è sulla prenotazione. Gli dò la chiave e li mando su in camera: una delle migliori, dei quelle ristrutturate più di recente.

Comincio a contare. Non arrivo a 10 che me li ritrovo davanti. Proprio come sospettavo, intuivo, subdoravo.

La camera è matrimoniale, e la vogliono a due letti.

Non sono uno che fa polemiche. Non mi importa se due fratelli (hanno lo stesso cognome, al massimo saranno cugini ma comunque parenti, come direbbe il conte Mascetti, da parte di fava) non vogliono dormire tra le stesse lenzuola. Gli faccio notare che la prenotazione è per una doppia . Loro, in maniera così educata che vorresti riportarli a Madrid del '36 e additarli alla folla repubblicana come membri della falange così da ottenerne l'immediato linciaggio, insistono che hanno indicato, in fase di prenotazione, "dos camas": due letti.

Tralasciamo un attimo il ragionamento per cui, se sulla pagina di un sito di prenotazioni alberghiere tizio indichi che la vuole a due letti questa sia assolutamente tale, come se aprire un menù a tendina facesse magicamente apparire le cose come uno le desidera. Non è affatto detto che sia così. È già tanto che hai trovato la tipologia che ti interessa (doppia, tripla, ecc.), non puoi pretendere che sia proprio con i letti del tipo desiderato, o con vasca piuttosto che doccia, se arrivi dopo 10 minuti 10 che hai prenotato e poco prima della mezzanotte. Se la vuoi come richiesto devi prenotare molte ore prima, quando c’è il personale e il tempo per organizzare il lavoro. Ma sarebbe inutile. Fiato sprecato. Persone così non comprendono. Non arrivano a capire che, a orari del genere e con così poco (anzi, assente) preavviso, non si può avere tutto. Ci si becca quel che c'è, come dicevo all'inizio del racconto. Quindi tralascio.

Loro, testardi come "burro" (in spagnolo vuole dire mulo) insistono: abbiamo specificatamente richiesto due letti. Io allargo le braccia: che altro potrei fare? Semplicemente, ho solo questa camera. Avete prenotato per due persone e questa ne può contenere due.

In realtà sono parecchio scocciato anche io. Perché queste due fave, con la loro prenotazione, hanno bloccato la camera. Per il mondo intero è venduta; per tutti coloro che visitassero il nostro sito o qualsiasi altra pagina di prenotazioni alberghiere, in quel preciso momento, troverebbe che l'albergo ha esaurito la disponibilità, è al completo. Invece non è affatto così. Ovviamente io avrei tutto il diritto di addebitare sulla loro carta di credito, visto che hanno pure fatto una non rimborsabile, ma è chiaro che costoro farebbero partire una polemica senza fine. Chiamerebbero il circuito di cui fa parte la carta per bloccare il pagamento, e altre simili amenità. Meglio lasciar perdere. Vado sul maledetto sito di prenotazioni per segnalare e cancellare. E vedere se, almeno in quei pochi minuti prima -o anche dopo- la mezzanotte, riesco a rivendere.

E a quel punto il più grande dei due, che intuisco essere il maschio alfa della situazione, afferra il cellulare, digita e telefona. Presumo in Spagna. Immagino a una collaboratrice, perché la chiama per nome. E si mette a inveire, contro di lei, lì nella hall. Infarcendo la conversazione unilaterale (lui urla, lei ascolta, presumo piccola piccola che tiene il telefono a distanza) di parolacce iberiche. Che lui voleva "puta dos camas" (fottuti due letti). Se ne frega dei miei inviti ad abbassare i decibel. E intanto il fratellino minore (molto minore) se ne viene al bancone e mi rimprovera che non dovrebbe apparire, sul sito delle prenotazioni, il menù a tendina per la scelta tra due letti o matrimoniale, se non è possibile. Al che mi viene proprio spontaneo dire che "io faccio il portiere di notte, non sono il proprietario di quel sito web" e capita l'antifona, si ritira. Finalmente l'altro la smette di urlare e se ne vanno.

Pensate sia finita? Ora arriva il meglio.

Perché anche se a Firenze non ci sono le finali di Hurling, abbiamo comunque incredibili, magnifici, splendidi monumenti e strepitose opere d'arte. Una percentuale in doppia cifra dei capolavori più grandiosi mai creati a memoria d'uomo è qui, in riva all'Arno, meraviglie che non possono essere fermate neanche dai dazi. Quindi la città è al completo più totale, non si trova una camera libera da nessuna parte.

Dopo neanche 10 minuti i due colossi spagnoli, loro sì battuti, si ripresentano al bancone. Perché avrebbero dovuto girovagare tutta la notte per la città. E quindi devono farsi andare bene quel che c'è, la sola alternativa, l'unica opzione possibile: la camera matrimoniale nell'albergo dove lavoro io. Grande, spaziosa, pulita, ristrutturata di recente e soprattutto senza l'ombra di un acaro. Mica come il mio divano irlandese. E loro che facevano tante storie, poveri cuccioli. Zitti e muti. Mi faccio rendere la "tarjeta" (la carta di credito) che, stavolta si, "infilo" (scusate il doppio senso) nel pos per un gustosissimo addebito nel loro più completo silenzio.

E, credetemi, fu una grande soddisfazione.