lunedì 31 dicembre 2018

La definirei così:

la gente è bella.

Lasciamo un attimo da parte la rabbia sconsiderata di esseri meschini che, pur di arrivare al potere, scatenano i più bassi istinti dell'essere umano. Riponiamo in un angolino remoto del nostro pianeta, e della nostra mente, i twittatori seriali e gli urlatori da blog così come i parcheggiatori in luoghi in cui non hanno diritto, i creatori di murales osceni e incomprensibili -andrebbe creata una macchina del tempo solo per spedirli tutti nella bottega del Verrocchio, che li prenderebbe per un orecchio e gli urlerebbe che loro non sono come il piccolo Sandro Filipepi, guardate come disegna bene lui, capre che non siete altro, ora fuori di qui e andate ad arruolarvi nella milizia per combattere i pisani-, gli insudiciatori delle strade, quelli che il terremoto gli fa crollare il rudere che la famiglia possedeva nell'ottocento e loro dichiarano che era la prima casa pur di avere i contributi del sisma affermando che ci vivevano in 7, compresa la zia zitella che sta a Londra da vent'anni o il cugino con cui hanno litigato e non si fanno neanche gli auguri di Natale. Rimuoviamo tutte queste persone incapaci di far altro nella vita se non mancare di rispetto al prossimo. Via tutte queste cose brutte, sciò scio.

La gente è bella. Tutto qui.

Sarà il loro sorriso solare, la loro gioia di trovarsi in vacanza, la spensieratezza di visitare luoghi nuovi ma così carichi di storia e cultura che gli scrittori francesi sono preda, a cotanta vista, di improvvisi svenimenti.

La gente, quando è serena e rilassata, dà gioia di vivere.

Te la fornisce in un modo che neanche se ne rende conto se non ci si ferma un attimo e non si riflette che "ehi, però quella persona è simpatica. Chissà ad averla conosciuta meglio, a farci due chiacchiere al tavolo, magari sorseggiando un bicchiere di una qualsiasi liquido fornito di bollicine o un minimo di gradazione alcolica, o entrambe le cose". Invece capita di vederceli passare davanti fugacemente; e sappiamo benissimo che non potremo mai approfondire il discorso. E rimarremo con il dubbio se quella persona avesse mai potuto essere uno di migliori amici di sempre, o persino l'amore di tutta una vita, o comunque qualcuno/a per cui valeva la pena di spendere una notte insonne, una virile stretta di mano, due risate contagiose, persino una testa appoggiata sulla spalla.

Con il lavoro che faccio, me ne capitano in continuazione.


1- Taciturno.

Non una parola, non un saluto, neanche il minimo cenno del capo a dare assenso su quel che gli sto dicendo: orario colazione, orario check-out, come accedere al wifi... niente. Il buio più totale. Prende la chiave della camera e sale su. Più tardi scende, posa la chiave sul bancone ed esce. Senza dire niente di niente.

Due ore dopo rientra.

Ha con sè un sacchettino dall'inconfondibile colore tipico dell'ambiente calcistico di questa città. Il più bello. Il più caratteristico. E quel simbolo rosso in campo bianco così speciale. Unico.

Gli consegno la chiave. Poi punto l'indice sul sacchetto e faccio apparire un sorrisetto sardonico:

-Ottima scelta-

Si blocca, ma solo per un attimo. Giusto il momento di realizzare. Di comprendere. E di lasciarsi andare alla soddisfazione di essere stato notato. Per un gesto. Un gusto. Un emozione.

-Eh... si... in realtà tifo per un'altra squadra, ma sono sempre stato un simpatizzante. Malgrado tutto. Perchè io sono sempre andato oltre alle stupide rivalità. Vede... non esiste un simbolo più bello-

Scappa per le scale, quasi imbarazzato. Ma io insisto.

-E qual è la sua vera squadra?-

Senza girarsi verso di me, alza l'indice e lo scuote a destra e sinistra.

-Non glielo dico!-

Mi rimarrà un pò di dubbio, ma ho anche il sottile piacere di sapere che neanche 8 o 12 o financo 57 scudetti di fila potranno mai eguagliare il Giglio. Che durerà molto, molto più in là. Anche quando la parola "calcio", su wikipedia, reciterà "finchè è esistito è stato uno sport molto popolare, il più seguito al mondo prima dell'avvento del rollerball".


2- Perchè gli americani sanno essere così simpatici? Perchè portano sempre con sè quell'ironia così speciale e particolare? Non lo so, non me lo so spiegare, ma certuni hanno una spiccata predisposizione per il calore umano.

Coppia cinquantenne, lei con guanciotte rotonde e paffutelle e lui con baffoni allla Tom Selleck, che si presenta al bancone. Mi chiedono un ristorante cinese.

Faccio per prendere una piantina della città, ma decido di cambiare tattica. Uno che conosco direbbe "giocatela alla Zeman".

Sguardo serio, accusatore. Che esprime chiaramente il concetto: sei in Italia e mi chiedi un cinese?????

Capiscono subito. Ridono di gusto. Alzano la mano e, a scusarsi, esclamano:

-Lo so, ma cerca di capire, siamo in Italia da 10 giorni, sempre pasta!-

Non posso dargli torto, sono uno a cui il cinese non è mai dispiaciuto. Ce n'è uno in zona. Uno dove, 19 anni e mezzo fa, ci portai una certa ragazza. Una che ogni tanto incrocio per le stanze di casa e mi lancia dietro le ciabatte.

Ma commetto un errore madornale. E' domenica. E' chiuso. Uno di quei cinesi che è chiuso un giorno della settimana. Sarà perchè è una trattoria cinese storica, una delle prime in città.

Tornano con un'espressione che lì per lì mi spaventa, con lui serio e lei che sembra Anne Wilkes in procinto di rimproverare Paul Sheldon. Ma non appena mi danno la notizia che hanno trovato chiuso e assumo un'espressione di imbarazzo e rincrescimento, si mettono a ridere. Lui se ne viene fuori così, e ve lo scrivo in inglese:

-Strike one!- (che sarebbe un pò come "primo errore") Mi informa che ne ho ancora due, alla terza sono "out", eliminato.

Mi chiedono altre informazioni della città, e a quel punto, se potessi, gli racconterei tutta la storia di Firenze. E sono tranquilli, non se la prendono del mio errore perchè, lo dicono loro, "è parte dell'avventura" (it's part of the adventure, proprio così, letteralmente). Un qualcosa in più da raccontare a figli e nipoti del loro viaggio in Italia: il portiere che sbaglia l'indicazione e loro che girellano per il quartiere fino a trovare un altro posto dove cenare. Una cosa di cui ridere, non da arrabbiarsi, come invece fanno ben altri clienti. Home run per loro.

E tutto ciò mi fa sentire ancora più in colpa, accidenti.


3- Ragazza portoghese con un gran cesto di capelli ricci e la pelle ambrata.

Dico ragazza anche se è quasi quarantenne, ma essendo io ormai alla soglia del mezzo secolo, la vedo come una ragazzetta giovane.

Porta con sè un sorriso a bocca chiusa, leggero e dolce al tempo stesso. Un'espressione serena, quasi paradisiaca. Ma anche un corpo di quelli che fanno voltare lo sguardo a tutti, uomini e donne. Gli uomini per la bellezza, le donne per un pizzico d'invidia.

Poi volano gli schiaffi, ma intanto si sono voltati tutti.

Mi scende la mattina della prevista partenza chiedendomi se ho la camera per un'ulteriore notte. Gli faccio un buon prezzo e mi paga senza battere ciglio. E mi chiede:

-Lei sorride sempre?-

-Solo con chi lo merita-

Mi ripaga mostrandomi due file di denti bianchissimi. Un'immagine che ho ancora davanti a me, se chiudo gli occhi. Se ripenso. Ed è facilissimo.

Ci sono popoli che si sono fatti le guerre, per il sorriso di una donna. Io invece allungo verso di lei il pos e gli pongo la richiesta -Pin e tasto verde, per favore-

Paride e Menelao disapproverebbero duramente. Ma qui dentro comanda lo spirito di Scrooge McDuck.


4-Signora dai capelli arruffati e l'espressione confusa.

-A...avete ancora una camera?-

Con la stessa tonalità drammatica e speranzosa di -Siamo riusciti a pareggiare?-

Cerco inutilmente di calmarla, ma rimane agitatissima, come una gazella che si ritrova improvvisamente in mezzo a un branco di felini predatori. Mi passa la carta di credito, ma non ricorda il pin, e manovra il cellulare alla disperata ricerca del magico numerino.

Le prendo la mano:

-Ha una camera. Per stanotte dorme. Non ci insegue nessuno e qui dentro è al sicuro. Va tutto bene-

Mi fissa negli occhi per un'istante sufficente ad un pasto natalizio, poi mi pone, a bruciapelo, una domanda assurda:

-Lei è sposato?-

-Si-

Fissa rassegnata il pavimento.

-Peccato-

Posso rispondere in un solo modo:

-La prossima volta-

Qualche minuto dopo aver espletato pagamento e le informazioni alberghiero-cittadine, mentre è in ascensore e la porta si sta chiudendo:

-La più bella risposta di sempre-

Ma mi aveva anche posto la domanda giusta. Avesse chiesto -Abbiamo vinto?- non sarebbe stata la stessa cosa.


5- E' tornato.

Persone con cui parli pochi minuti, ma ti sembra di conoscerli da sempre. Di esserne amico dalle elementari. Di aver condiviso nottate a parlare e bere, esultare ed abbracciarsi su una gradinata, suonare e cantare davanti a una tenda e la pallida luce di un lampione da campeggio.

Qualche anno fa postai la storia di questo inglese, più o meno della mia età ma secco secco, con una bella barba curata e capelloni lunghi che sembra appena spuntato da un festival sull'isola di Wight -e non mi stupirei se ci fosse stato veramente- in vacanza in Toscana. Si era portato dietro la chitarra ma, all'aeroporto, aveva scoperto che non poteva passarla come bagaglio a mano, e costretto a pagare 50 sterline come extra nella stiva. All'arrivo in Toscana aveva viaggiato e suonato, ma al momento di rientrare in patria -teoricamente ancora con noi europei- non aveva voglia di sborsare altri soldi per portare indietro uno strumento che gli era costato pure di meno. Così, nell'ultimo albergo del suo soggiorno toscano -proprio qui- ci aveva lasciato la chitarra. Aveva chiesto se qualcuno di noi lavoratori suonava e visto che ero in turno, nonchè l'unico con un passato sulle 6 corde, me l'aveva regalata.

Poi non avevo saputo più niente. Finchè non è tornato.

Me lo trovo una notte, io che sto per iniziare il turno, lui e la moglie che tornano in stanza, ed è tutto un abbraccio. La moglie mi disse che lui rimuginava sempre, ridendo, sulla chitarra. Per tutta la vacanza. Al che gli chiedo perchè non ci avesse scritto, all'arrivo, in modo che gliela avrei fatta avere, ma non ci aveva pensato. Aveva un altro percorso. Poi, per gli ultimi giorni di questa nuova vacanza in Toscana, avevano deciso proprio di tornare a soggiornare qui.

Timidamente, mi chiede:

-Ma ce l'hai ancora?-

Quasi come se avesse paura a richiedermela.

Ovviamente la notte dopo gli ho portato la chitarra. Che ho sempre considerato sua. Che è sempre stata al sicuro, qui a casa mia. Che non aspettava che il suo ritorno. E per qualche giorno ha potuto suonarla, felice come un bambino con il suo primo lego Battlestar Galactica. Magari i vicini di stanza non saranno stati felicissimi, ma lui mi ha sempre assicurato che non la suonava mai la notte. E comunque, chissenefrega. Se uno non è capace di apprezzare la vera musica -quella inglese- è una cattiva persona non merita di dormire serenamente.

Quando vuoi, amico, la chitarra è qui. Magari un giorno sarò io a visitare l'Inghilterra. E riportartela. Chissà.


6- La maggior parte dei clienti è sempre sulle sue, con noi portieri. Non sono chiacchieroni tranne che per lamentarsi dei problemi della camera, che la colazione dovrebbe avere più varietà di briosche, pane fresco, lasagne e tiramisù pure. Perchè in un 3 stelle si pretende un trattamento da ristorante di lusso.

Molti no.

Non esprimono parola, non accennano neanche a un sorriso quando gli si fa il check-in. Quasi neanche sembrano ascoltare le informazioni basilari -l'orario colazione, quello di partenza, le indicazioni dell'hotel e degli Uffizi sulla piantina che forniamo- il niente proprio.

I clienti anonimi, li definisco io. Entrano ed escono che alcuni neanche riescono a esprimere un minimo cenno di saluto. Immagino, credo, penso, per timidezza.

Poi, una mattina, una di queste clienti, una donnina spagnola con un'espressione così anonima ed estranea che passerebbe inosservata anche al raduno mondiale dei venditori porta-a-porta, ci lascia, al momento del check-out, uno dei questionari dell'albergo. Con queste poche righe, in italiano, ma che non riesco a togliermi dalla testa. Perchè di quetionari con belle parole su di noi ne riceviamo molti -senza modestia- ma questo.... beh, ha un suo perchè.


Io mi auguro di trovarne ancora, di persone così. Che li troviate voi. E che voi possiate esserlo per qualcun altro. Una persona speciale senza averla mai conosciuta. Pochi minuti dove si scopre che l'umanità, quando vuole e si impegna, sa essere, come dicevo all'inizio, bella. Persino splendida, in certi casi.

In tempi come questi ne abbiamo un disperato bisogno.


martedì 18 dicembre 2018

Una volta ero uno studente.

Quando si è in questa bellissima condizione il tempo trascorre in maniera diversa, rallentata, con una sequela di emozioni molto più amplificate.

Studiare, per quanto appassionante possa essere per chi ama stare sui libri, comporta molta concentrazione. La mente pulsa dei concetti che si assorbono direttamente dall'inchiosto applicato sulla carta, i neuroni schizzano a completare sequenze logiche, idee, formule, eventi. Tutto quel che ne consegue.

Ma lo studente ha anche un grande vantaggio: il tempo.

Lo studente ha il 100% del tempo serale dedicato allo scazzo. Dal lunedì all'altro lunedì, senza soluzione di continuità, quel tempo gli appartiene. E' solo ed esclusivamente suo.

Il mio modo di impiegare quel tempo era giocare.

Io giocavo tutte le sere: due volte a settimana con i guanti a esercitare il mio ruolo di portiere nei piccoli e sacri templi calcistici in erba sintetica; ad adorare, e praticare, il supremo dio pallone. Prima ancora di diventare portiere d'albergo, ero un portiere di calcio a 5.

Ma tutti gli altri giorni erano dedicati al gioco da tavolo.

E a quei tempi, due decadi fa, esistevano solo due tipi giochi: quello di ruolo e quello di guerra.

Sui primi posso dire di averli provati tutti, a cominciare dal Dungeons & Dragons del mai abbastanza compianto Gygax. Ci manchi tanto, Gary. Ma devo ammettere che poi provai anche Vampiri, Mage e tutto il cucuzzaro della WhiteWolf.

Passai, per un breve periodo, anche per le carte di Magic. Quando uscirono fu un colpo di fulmine totale. Conobbi dei ragazzi con cui mi spostavo per la penisola giocando ossessivamente, partecipando a svariati tornei. Ne vinsi pure uno, a Livorno. Credo fosse il '95.

Poi trovai il mio amore. Quello definitivo. Totale. Unico.

La strategia.

L'unico e il solo: World in Flames. Creato da Harry Rowland, un australiano, è il classico gioco con le mappe piene di esagoni e pedine che rappresentano tutte le forze che parteciparono al secondo conflitto mondiale.

Eravamo in 6, a giocarlo. 6 matti che si sfidavano a colpi di dadi nei combattimenti, dove il fulcro erano sempre il Barbarossa (l'attacco tedesco alla Russia) e gli scontri di flotte nel Pacifico. E possiamo dire, dopo dozzine di partite, di aver manovrato tutte le potenze possibili.

Tra cui l'Italietta fascista.

World in Flames è uno di quei pochi giochi sulla IIGM dove l'Italia non è una semplice appendice della Germania, ma una nazione a sè stante. Con le sue unità e la sua indipendenza di movimento.

Intendiamoci, non è che sia tutta questa gran potenza. Sostanzialmente ha una discreta flotta, un pò d'aviazione e una ribongia di fanteria dalla scarsità imbarazzante. Soprattutto, produce pochissimo.

Le fortune dell'Italia, in World in Flames ma anche in altri giochi simili, dipendono essenzialmente da due fattori: a) se l'alleato tedesco presta qualche unità (meglio se dei caccia e una divisione di carri) da impiegare in Libia e b) da quanto l'inglese decide di impegnarcisi contro piuttosto che picchiare su tedesco o giapponese.

A una di queste partite manovravo proprio l'Italia. Il giocatore inglese, sottovalutando l'italiano (o forse sottovalutando Marcello, il che ha molto senso) decise di non concentrare gli sforzi in Mediterraneo. E ci portò poche unità.

Colsi la palla al balzo: dichiarazione di guerra, flotta italiana che esce nel Mediterraneo orientale in gran forze e sbarco della divisione di marina (i famosi marò) a Port Said. Chiusi il canale di Suez proprio quando l'inglese aveva quasi tutte le sue navi nell'Oceano Indiano, a contrastare la flotta imperiale nipponica.

Mi ersi in piedi su una sedia, pugni sui fianchi e mascellone fiero. In quel momento nacque la leggenda di benito marcellini.

Tengo a precisare: sono sempre stato di sinistra. Ma quando si gioca, un pò di "ruolo" ci sta tutto. Insomma, stavo manovrando l'Italia, e sappiamo bene com'era il nostro paese a quei tempi, con tutta la sua retorica drammaticamente patetica, l'esaltazione nazionalistica a uso e consumo di un ristretto ed esaltato gruppo di persone, la cialtroneria di chi pensa di poter battere con facilità contadini greci dimostratisi invece molto agguerriti (figuriamoci poi inglesi, russi e americani) e soprattutto, come avvenne storicamente, sconfitte su sconfitte. Subito dopo quest'effimera vittoria, benchè culminata con la presa dell'Egitto, il giocatore inglese decise che Marcello aveva avuto il suo effimero momento di gloria: portò subito nuove unità, e in breve mi sloggiò dall'Africa. Successivamente entrò in guerra l'americano, e a nulla valsero le mie suppliche verso il tedesco, affinchè mi prestasse panzer e messerschmidt: tutto preso dal battersi in Russia non mi degnò di un bel niente, gli alleati sbarcarono in Italia e benito marcellini penzolò.

Poi è arrivato il lavoro d'albergo. E anche i miei amici hanno cominciato a lavorare. Impieghi diversi dal mio, ma sempre qualcosa di impegnativo che toglie tempo prezioso all'attività ludica. Per non parlare delle famiglie, che iniziano con esseri di sesso femminile che "visto che il fine settimana lavori, mercoledì mi porti al cine", e sono incapaci di comprendere il concetto di "attacco sulla tabella della blitzkrieg perchè ho i carri"; senza contare che dopo, a giro per casa, si muovono anche nannette/i desiderosi di attenzioni e cure. Perchè questo tipo di giochi non si fanno in una sola serata. Occorrono lo spazio per tenere le mappe con le pedine sopra (quindi un luogo esclusivo e dedicato all'uopo, lontano dalle ingerenze dei figli e/o animali domestici) e soprattutto più e più sessioni di gioco (dalle 21 alle 24 circa), e trovarsi una volta a settimana con le stesse persone per riprendere da dove avevamo interrotto. Solo l'intero fronte russo possono essere un centinaio di pedine (per parte). E se uno di noi non può per impegni lavorativi o familiari, giocare con assiduità diventa un problema. Per me, con il lavoro che ho, è praticamente impossibile. Se sono di pomeriggio, finisco il turno al bancone alle 23. A sessione di gioco quasi finita. Se sono di notte, comincio alle 23. E esco di casa alle 22.15.

Così mi sono ridotto ai giochi da tavolo, che si fanno in due ore. Quando sono libero vado da un amico che vive paurosamente vicino casa mia e organizza partite (collabora anche a una rivista on line: Ilsa magazine). Ci va chi c'è e può (io molto poco), e si passano un paio d'ore a giochi da tavolo vari. Roba, appunto, che non dura mesi, ma molto meno. Al limite pure una mezz'ora, se si tratta di un "filler", cioè un gioco "riempitivo". Però vabbene lo stesso. Mi sono pure messo a progettarli, i giochi da tavolo. Con scarsissimi risultati, visto che i miei prototipi si ostinano a non funzionare. Sono stato pure all'ultimo Lucca Games, a far vedere uno di questi tentativi di creazione di un gioco a due autori famosi. Che l'hanno, ovviamente, cassato. E' penoso, cambia qualcosa. Tipo il 90%.

Già, Lucca games. Trent'anni fa, era tutto diverso.

Inanzitutto non c'erano ancora i cosplay, cioè quegli allegri mattacchioni che si travestono come i protagonisti di manga giapponesi o filmoni hollywoodiani e che, così agghindati, vanno a giro per la cittadina. Anzi, la manifestazione non prendeva neanche tutta la città, ma solo due tendoni piazzati fuori dalle mura: uno per il comics e uno per il games. E nemmeno tanto grandi, a dire il vero.

Ancora preda del triplo stato di studente, single e disoccupato, mi accingo, una bella domenica, ad andarci. Arrivo, prendo un biglietto da una fila non eccessiva e, dopo una breve e fugace occhiata al comics, mi avventuro nel regno del games, dove ancora dominano i giochi di ruolo e la strategia.

Mi siedo a un meraviglioso e stupefacente tavolo verde, con collinette artificiali, alberelli, casette. Da un paio di scatole accanto noto spuntare soldatini e carri ottimamente pitturati. Un bel tattico, un gioco dove la singola unità non è un'intera divisione ma proprio il singolo carro o il singolo plotone di fanteria. Ogni tanto ci vuole anche questo.

Il dimostratore, un tipo alto e secco allampanato con il pizzetto, mi accoglie con il sorriso e l'entusiasmo scalpitante di chiunque tenga a dimostrare un gioco che contempli manovre tattico-guerriere. Muove, da una mano all'altra e manco fosse una palla da basket e fossimo su un parquet, un foglio plastificato stracolmo di tabelle di combattimento. Mi chiede di attendere per vedere se arrivano altri aspiranti giocatori. Dopo un pò si avvicina un ragazzetto con un gran cesto di capelli, e anche lui si siede ad aspettare ulteriori potenziali giocatori.

Se ne presentano due.

Uno è talmente insignificante che neanche lo ricordo. Non pronunciò una singola parola, non lanciò mai neanche il dado. Se ne stava lì seduto in disparte, testa china, a osservare il suo amico. Curioso soprammobile portatile del primo elemento, maschio alfa della situazione.

Entrambi completamente paludati di nero e con la testa rasata.

Non salutano, non sorridono, non chiedono nient'altro se non un "che è 'sta roba?" con una sgarbatezza che sto quasi per dirgli che "il bar è laggiù, buona giornata", ma sono preceduto dal dimostratore che, dopo un pò di sconcerto iniziale, non si perde d'animo e comincia a spiegare: scontro tattico tra russi e tedeschi, io vi spiego le regole e voi giocate.

Il nero guarda con disprezzo quello con il cesto di capelli, che neanche lo considera, e sta piuttosto piazzando un panzer davanti a sè, poi volge lo sguardo al dimostratore e se ne esce, sibilando: "Io, i comunisti, non li voglio. Dammi i tedeschi"

Io e cesto di capelli ci osserviamo, e sento benissimo i suoi occhi dirmi "sono due cazzoni". Li conosce già. Ma ora sono lì a giocare, non mi va di farmi coinvolgere dalle dispute politiche lucchesi. Alzo le spalle. Per me giocare non è mai stata una questione politica, e i veri giocatori non si fanno problemi a manovrare solo una parte e non l'altra perchè sono i "cattivi". Si gioca, punto. Mi alzo. Cesto di capelli mi segue. Giriamo il tavolo e ci mettiamo dove sono le unità russe. I due skinheads si mettono dove stavamo noi.

Il dimostratore evita abilmente qualsiasi discussione possibile partendo subito con le spiegazioni del gioco, in realtà molto semplice. Il solito schema dei tattici: A muove, B spara. A spara, B muove. Poi ci sono le azioni speciali, tipo ricaricare. Dopo si inverte l'ordine di turno. Il movimento si fa sulla mappa con un righello. La fanteria si muove, chiaramente, meno dei mezzi meccanizzati. I quali hanno molto più movimento su strada che in campo aperto.

Lo scopo del gioco è chiaro: i russi devono prendere il villaggio prima del 5° turno, quando arrivano, dal fondo del tavolo, 3 carri Tigre tedeschi. I russi iniziano con un bel pò di T-34, i tedeschi solo due panzer IV e fanteria con pezzi anticarro. In pratica: noi dobbiamo andare all'assalto, loro sono sulla difensiva e devono resistere prima dell'arrivo dei rinforzi.

Prepariamo segretamente il set-up, e cesto di capelli dimostra di saperci fare: dividiamo in due le forze, lui attacca dal campo aperto, passando davanti alla collinetta, io faccio la strada. Più lunga ma più veloce, e diretta al centro del villaggio

Testa rasata numero 1 posiziona la fanteria crucca sulla collinetta.

Il dimostratore accenna alla possibilità di cambiare: la difesa migliore è nel villaggio. Dietro le case, la fanteria può tenere la posizione assaltando i carri russi che entrano. Ci sono vari posti dove piazzare i pezzi anticarro e i due panzer. Pezzi di casetta diroccata che mani delicate hanno dipinto con tanto di muro annerito dal fuoco, altri alberi lungo la strada... non c'era che l'imbarazzo della scelta.

-Io gioco come mi pare!- E' la laconica risposta.

Il dimostratore alza le spalle. Tanto peggio per loro. Cominciamo il gioco. E, come previsto, la fanteria tedesca, sulla collinetta, non viene considerata minimamente. Per colpirci, sparando da lassù, dovrebbe fare un 20 perchè, righello alla mano, è troppo distante. Poichè l'obbiettivo è prendere il villaggio, ignoriamo la fanteria nemica. Io mando i miei carri lungo la strada, cesto di capelli per la campagna, aggirando da due lati la collinetta.

I nostri avversari -in realtà solo uno, l'altro continua a non pronunciare una parola, non ci osserva neanche- spara con i suoi due carri contro di noi. Colpisce uno dei nostri T-34, che quindi risulta distrutto. Ma neanche il tempo di esultare -per gli avversari- che entro nel villaggio con i miei carri. Per mancare i panzer nemici dovrei fare solo 1, 2 o 3 lanciando il dado da 20, mentre con tutti gli altri risultati centro il bersaglio perchè la distanza è ridottissima. E sparo con 3 carri, quindi lancio 3 dadi. Faccio centro tutte e 3 le volte. Praticamente lo polverizzo.

Lo skinhead lucchese accenna alla possibilità di far scendere la fanteria dalla collinetta e assaltare il villaggio, ma il dimostratore lo deride: -Fammi capire: ci sono ben 5 carri posizionati dentro ai ruderi di un villaggio con cannoni da 76 mm e mitragliatrici, e tu vuoi lanciarci contro, in campo aperto, la fanteria?-

-Ma... sono i tedeschi...-

-Anche i tedeschi si arrendevano, quando la situazione era disperata! Questo è un viaggettino in Siberia, sola andata-

A questa risposta quello rimane così, a bocca aperta. Poi si alza, da un colpo a un paio di alberelli di plastica facendoli cadere e sibila, sprezzante:

-Che gioco di merda!-

E se ne va, seguito dal fedele cagnolino.

-Ma chi diamine erano?- Chiediamo io e il dimostratore, all'unisono.

-Mi spiace- risponde il ragazzetto con cui avevo appena condiviso questa schiacciante vittoria -A Lucca abbiamo anche di questa gente-

-Beh, gli hai appena fatto un c... così!-

-Ed è una grande soddisfazione, credimi-

Ci comprammo entrambi il regolamento del gioco, appena 10.000 lire. Un ciclostile vecchia maniera con ogni possibile scenario: legioni romane, milizie medievali, napoleonici, guerra civile americana e, ovviamente, il secondo conflitto mondiale. I modellini no, quelli ci si dovevamo comprare, e dipingere, per conto nostro. Ma non sono mai stato un appassionato pitturatore di miniature.

World in Flames rimane il mio amore. Difatti ho comprato la nuova edizione. Che mi è costata metà di una rata del mutuo, ma valeva assolutamente la pena.

Lo so, non ho il tempo e lo spazio per giocarlo ma dovevo assolutamente averlo.

Il ludomaniaco (da non confondere con ludopatico) non sente ragioni. Mai.

A parte, ovviamente, il turno di notte. Lui ha ragione sempre.

sabato 24 novembre 2018

Devastanti.

Non per il fisico. Quello sopporta molto bene le 8 ore di turno alberghiero. Coloro che si lamentano della stanchezza fisica, che se ne escono fuori che "sono stanco", della spossatezza e dell'esuarimento, dovrebbero lavorare una dozzina di ore a raccogliere pomodori alla temperatura di trenta gradi. O tornare indietro nel tempo al medioevo, quando si zappava la terra e ci si cibava solo di quel che spuntava fuori, a parte la quota da consegnare al signore feudale che si prendeva sia il grano sia lo Ius Primae Noctis. Oppure in una fabbrica inglese dell'ottocento, a filare tessuti per 12 ore consecutive senza altro cibo di una ciotola di zuppa d'avena, con il perenne rischio di finire stritolati dalla macchina tessitrice. Per la gioia di un Dickens ispirato.

No, il problema è mentale.

Perchè in albergo, quando si è al banco, niente devasta i cuori e le menti peggio di una comitiva di indiani.

Gli indiani sono la distruzione del senso del lavoro d'albergo. Gli indiani sono la morte dell'accoglienza turistica. Gli indiani sono martellate nelle parti sacre del corpo. Gli indiani sono il desiderio di vedere il futuro re Giorgio comandare nuovamente sull'impero coloniale.

Gli indiani pretendono sevizi da 5 stelle anche se sono in una pensioncina. Chiedono informazioni sulla città anche se non gli servirà a niente solo perchè pagano e quindi vogliono comunque usufruire del servizio. Ti tengono delle mezz'ore a fornirgli assistenza anche se dietro di loro c'è una fila chilometrica, ma se sono loro in attesa cominciano a tamburellare nervosi le dita sul bancone.

Il primo gruppo sono 3 camere, tutte di donne. Che entrano nella hall con la delicatezza di un livornese sulla curva dell'Ardenza quando gli amaranto giocano contro i nerazzurri. E no, non mi riferisco alle due squadre lombarde.

Prima ancora che possa azzardare un buongiorno, pongono le seguenti domande:

-se le camere sono già pronte (sono le 9 del mattino);

-se sono sullo stesso piano;

-a che ora è la colazione;

-se c'è l'ascensore;

-se abbiamo una piantina della città;

-gli orari per andare a Pisa (per l'appunto);

-L'immancabile, onnnipresente, eterna password del wi-fi.

E le pongono tutte in contemporanea.

Se obbiettate che sono 6 donne e pongono 7 domande vi rispondo che non lo so. Non ho la più pallida idea di come facciano, ma ci riescono. Ci sono persone che hanno "gli occhi dietro le testa". Le donne indiane hanno un'altra bocca.

In questi casi non c'è risposta da dare. Non bisogna sforzarsi a rispondere. Perchè chi pone tutta quella sequela di domande a raffica, senza preoccuparsi di dare una priorità e, soprattutto, dare il tempo al portiere di rispondere una ad una, non vuole neanche saperle, le risposte. Deve solo dimostrare l'arroganza di essere cliente. Di aver pagato e pretendere un servizio.

Fornisco 6 bigliettini dell'albergo con orari, 6 piantine (dovete morire, stupidi alberi!) e gli faccio mettere i bagagli in deposito. E comincio a spiegare che, dato che l'albergo è pieno, finchè non parte qualche cliente e non puliamo la camera, dovranno aspettare. E sale subito una protesta modello '68. Mi salva, da questo massacro, proprio una partenza. Perchè la mattina la priorità sono i check-out, così possiamo tenere sott'occhio la situazione e, a seconda di quale camera è partita, poterla far pulire subito. Su questo gli indiani ci arrivano: la possibilità di entrare in camera già la mattina e, soprattutto, che gli affari sono affari, e il guadagno viene prima. Difatti si scansano per far affluire al bancone il cliente in partenza, affinchè paghi la camera. Una volta fatto ciò, faccio mandare la cameriera a pulire con priorità questa camera, così almeno una su 3 l'hanno disponibile in mattinata. Glielo spiego e sembrano capirlo, perchè mi dicono "torniamo tra mezz'ora".

Invece si ripresentano alle 14.

Oh, chiaramente, una volta salite, tempestano di chiamate il ricevimento per problemi di ogni tipo. Ad esempio:

-Abbiamo richiesto di avere almeno due camere comunicanti.

-E come vi abbiamo risposto due mesi fa via mail, non le abbiamo. Vi abbiamo messo più vicino possibile, sullo stesso piano.

-Ma noi siamo cugine, non vogliamo andare da una camera all'altra passando dal corridoio.

-Avevate letto la mail, quindi lo sapevate.

-Quindi dobbiamo passare dal corridoio?

-Immagino di si.

-Ma perchè non avete camere comunicanti?

-in Italia ci piacciono i muri.

....silenzio...

(Io): - Signora?

Riattacca.

Anche se la risposta era da "risorsa salviniana", ci stava tutta.

Ovviamente, delle 3 camere, una non va bene. Piccola, scura, sporca, orribile.... tutti gli aggettivi inglesi conosciuti da una donna indiana possibili su "brutto brutto brutto" mi piovono dalla cornetta.

Mando su il facchino per accompagnarle a vedere un'altra camera. Come mi immaginavo, mi chiama subito:

-Marce, le signore vogliono una camera allo stesso piano delle loro amiche.

-Non le abbiamo più. C'è rimasta solo questa.

Lui riferisce, poi dice che -Le clienti tornano giù, e ci faranno sapere.

Io rimango basito. Come "ci faranno sapere?" Devono decidere subito. I clienti arrivano, vogliono le camere. Non possono mica bloccarmene due a loro piacimento. Non esiste che debba dire alla gente "dovete aspettare perchè delle indiane stanno decidendo quale camera prendere e a voi toccherà quella che resta". Se cambiano subito, bene, altrimenti restano dove sono.

Di lì a pochi minuti, per l'appunto, arrivano i clienti da mandare in questa camera. E, ovviamente, li mando su senza remore. E poichè sono iberici, e come quasi tutti gli iberici, adorabili, li accolgo col mio miglior sorriso, ci metto qualche battuta nel mio miglior spagnolo e questi quasi mi abbracciano.

Del cambio camera non sento minimamente. Alla fine le indiane sono restate nella prima loro assegnatagli.

Altro gruppo di indiani: ben 5 camere doppie. Una roba da suicidio. L'arma di distruzione di massa dell'intera penisola indiana: 10 persone che parlano contemporaneamente. Da ammattire.

Le domande che mi pongono durante tutto un pomeriggio di lavoro, costantemente e insistentemente, è di organizzargli un tour prvato di qualsiasi città della Toscana: Pisa, Lucca, Siena, Volterra, San Gimignano, persino Massa, che ancora mi domando come facciano, in India, ad aver saputo che qui esiste una cittadina chiamata in questo modo.
 
In tutti i casi la risposta è una e una sola: se volete fare un tour solo voi (in modo da non essere mischiati con altri esseri umani di sicura casta inferiore) sappiate che comunque il bus necessario ad accogliervi tutti è comunque un 16 posti, e dovete pagare anche l'autista e la guida. Inoltre no, per questione geografiche il tour NON fa tutte le città da voi elencate. In un paio di giorni, forse.

Insistono. Glielo rispiego. Mi chiedono di chiamare l'agenzia per chiedere. E chiamiamo, se non vi fidate del portiere. E con loro piena indifferenza, una volta ricevuta l'ennesima risposta uguale, pongono altre domande. Il massimo arriva quando mi chiedono, per il giorno della loro partenza, due taxi per andare a Milano. Me lo faccio ripetere perchè credo di non aver capito bene: voi volete due taxi per andare a Malpensa? Si, proprio così. Se proprio volete sapere, non c'è problema. Chiamo. E mentre sono in attesa, costoro mi girano le spalle e escono dall'albergo. Tutti e 10.

Rimango lì, basito, mentre questi se ne vanno senza neanche aspettare la risposta alla domanda. Senza nemmeno attendere che porti a fondo la consegna e gli riferisca il costo per due taxi da Firenze a Malpensa. Sono letteralmente furioso, e ho come l'impressione di essere preso in giro, che mi abbiano fatto fare un qualcosa a cui non erano minimamente interessati ma che bastava facessi perchè loro lo chiedevano. Ma ormai che ero in collegamento con una delle due compagnie taxi della città chiedo, ricevo la tariffa (650 € a macchina, e probabilmente non sarebbero bastati perchè, benchè ci siano taxi per 5 persone, spesso non contengono anche le tante valigie che gli indiani si portano appresso, quindi molto probabilmente gliene servivano 3) e la riporto su un bigliettino che metto nella casella di una delle 5 camere. Anche se poi, come mi ha riferito il collega di notte, lo avrebbero stracciato senza neanche leggerlo. Il giorno della partenza sono andati in stazione a prendere il treno.

Tanto per non farsi mancare niente, ho un'altra coppia di indiani: moglie e marito di un'altezza tale che anche l'ex ministro Brunetta fa la figura di un giocatore di pallacanestro.

Costoro sono vegetariani e si lamentano che, sul buffet, ci sono pochi alimenti adatti a loro.

Non so a che livello di vegetarianesimo siano costoro. Se arrivano comunque a mangiare il formaggio oppure evitano anche i latticini e, come un personaggio dei Simpson "non mangio niente che proietti ombra". Vengono al bancone e, con fare pietoso, chiedono di avere cibo adatto a loro.

Non so proprio cosa rispondergli. Abbiamo un buffet, offriamo un sacco di prodotti, devono solo scegliere. Se non volete la carne, basta che evitiate gli affettati. E le uova, immagino. Sicuramente ci sono alberghi che offrono maggiore scelta, ma hanno anche una se non due stelle in più di noi, oltre a un costo decisamente maggiore. Loro insistono e io posso solo rispondere allo stesso modo. E così via, in un "loop" infinito. Questo avvenne la mattina.

Io giorno dopo ero di pomeriggio. Avevo appena riattaccato la consegna dei taxi per Malpensa e scritto il costo sul bigliettino quando mi vedo apparire la signora con un sacco. Chiede di riscaldare questo cibo che si erano comprati. Apre il sacco e mi mostra un cartone della pizza. Ma non di una pizzeria. Di un supermercato. Si erano presi una pizza surgelata.

Gli spiego che non posso fare niente perchè a) assolutamente non mettere nel forno cibo dei clienti: per ragioni di igene ci possiamo mettere solo i cibi nostri; b) il forno è accesso solo durante il servizio di colazioni e c) non posso accedere nella caffetteria. Lo può fare solo il personale addetto quando è in servizio.

E la signora, con tutta la naturalezza di questo mondo, mi chiede di chiamare una delle ragazze affinchè venga ad aprirle....

Chiaramente, mi rifiuto. Queste si alzano alle 5 del mattino per essere lì alle 6 a prepapare il buffet, e dovrebbe pure venire alle 20 per fare una cosa vietata? Come minimo mi "terminerebbe" anche solo per averglielo accennato. L'unica cosa che posso fare è prendere un piatto dal buffet, metterci la pizza e posarla sulla macchina del caffè, che almeno un pò di calore lo emana. Tocca spostare le tazzine ma alla fine mi arrendo e gli faccio questo favore. Gli indiani sono così: insistono, insistono e continuano finchè non ti prendono per sfinimento. Dopo mezz'ora la signora scende e prende questa pizza ancora fredda ma abbastanza scongelata da essere consumata.

Ma per lo meno la signora, almeno lei, ringrazia sentitamente. Quindi la proporzione è di un indiano che dice grazie ogni 16. Ma il 100% di domande insistenti.

mercoledì 10 ottobre 2018

Prenotare una camera non è affatto semplice come sembra.

Un telefono, per quanto "furbo" possa essere definito, non fa di noi degli agenti di viaggio. Non è che queste figure siano dei professionisti così, per sentito dire. Lo sono perchè sanno come muoversi, come prenotare nella giusta maniera seguendo le richieste del cliente e conoscendo le loro esigenze.

Quando non ci si affida ai professionisti e si vuole fare di testa propria, è estremamente probabile incappare nell'errore. E se ne esce solo con la fortuna.

Alle due di notte entrano in albergo due coniugi anziani, trainando le loro valigie, e chiedendo se parlo inglese.

-Lavoro qui, mi tocca (libera traduzione di "I have to")-

-Giusto! Giusto! Bravo! Noi abbiamo questo problema-

Mi porge un foglietto scritto a mano con il nome di un appartamento in città e una serie di numeri di telefono fisso. In pratica avevano affittato, tramite lo strumento ideato da Berners-Lee, questo posto. Non so se attratti da una tariffa più bassa di quelle applicate da un classico hotel, o dal fatto di preferire un appartamento, dove si ha a disposizione il proprio angolo cottura e non essere così obbligati a infilarsi in una sala colazioni che ha i suoi orari e può risultare decisamente caotica se i clienti dell'albergo scendono tutti in contemporanea per il pasto mattutino.

Ma questo tipo di posti ha degli orari rigidi, come ben spiegato ovunque, se qualcuno di prendesse la briga di leggerle, quelle benedette pagine web. La reception è aperta solo alcune ore del mattino per le partenze, e alcune il pomeriggio, per gli arrivi. Se si ha un imprevisto, tipo un treno in ritardo, si può star certi di arrivare dopo chiusura. A meno che non telefonare subito alla struttura specificando il problema e richiedendo un "late check-in" (arrivo in ritardo) con un conseguente supplemento.

Questi non avevano chiamato. Trovato il posto chiuso, avevano preso un taxi che li aveva portati qui in zona, dove gli alberghi sono numerosi come i sexy shop a Pigalle. Ed erano poi entrati nel primo albergo trovato. Qui dove lavoro io. Che a differenza degli appartamenti e dei B&B, hanno la portineria 24 ore su 24.

Ora, quando capitano situazioni del genere, è possibile che il cliente se la prenda con chiunque: la città, il monoteismo, il governo (ci sta sempre bene, soprattutto qui e ora), pure il portiere del nuovo posto trovato. Perchè prendersela con il prossimo piuttosto che con sè stessi e la propria dabbenaggine è facile e comodo.

Costoro, per fortuna loro e mia, no. Senza scoraggiarsi d'animo hanno cercato altrove. E la fortuna aveva ricompensato entrambi. Loro, bisognosi di una camera per la notte; noi, per vendere l'ultima disponibile.

Gli offro un giusto prezzo e loro, come immaginavo, accettano. E' inutile sparare più in alto solo per sfruttare la loro necessità. A che pro? Oltretutto mi forniscono subito la carta di credito, prima ancora che gli dica quanto costa la camera. Sono gentili, si rendono conto di aver sbagliato, sono in giusta e meritata vacanza nella mia città. Perchè approfittarsene? Perchè avvelenargli la visita agli Uffizi?Perchè passare come i soliti italiani che, nei bar dei centri, fanno pagare 20 € un cappuccino? No grazie, non sono il tipo. Lo facciano gli altri, gli sciacalli. Se proprio vogliono esserlo.

Registrazione, pagamento, chiave della camera e alla via così. Fornisco le solite, classiche informazioni (orario della colazione, del check-out e collegamento wi-fi) e loro ringraziano sentitamente. E mi chiedono:

-Domani partiamo alle 10, la vediamo qui?-

-Troverà qualcun altro. Io stacco alle 7-

-Ma noi vogliamo salutarla-

-Ma io voglio dormire-

Ridono. E salgono su in camera.

A volte ci vuole davvero poco a far felice la gente.

Anche al bancone di un albergo.

giovedì 27 settembre 2018

Caro amico pugliese che il 7 Settembre, ore 20.30 circa, ti trovavi sulla superstrada Bari-Brindisi, pressappoco tra Ostuni e Monopoli, direzione Bari:

In realtà non so se tu sia pugliese o meno. Lo dò per scontato perchè la superstrada è frequentata, per la maggioranza, dagli indigeni; esattamente come sulla Fi-Pi-Li ci puoi trovare un monte di toscani. Ma potevi essere un qualsiasi altro deficien.... italiano che, come me, si trovava in Puglia, su quella superstrada, in quella direzione, a quell'ora. E scusa se associo deficiente a italiano. Ma ultimamente mi viene sempre più facile fare quest'associazione, questo legame, quest'inclusione. E tu mi hai decisamente spinto sempre più in quel senso.

Lo so, potrei dire tanto su questa vacanza settembrina pugliese, un soggiorno di due settimane all'insegna del "vieni a ballare in Puglia" del mitico Caparezza. E pazienza se lui ci mette un bel pò di critica alla sua regione. A noi c' garbata subito un monte. A cominciare dal cibo, che ho trovato delizioso. Certo, anche luoghi abbastanza pessimi, ma non sono uno di quelli che spara sentenze su trippa. Che si esalta perchè "ah, ora ci metto un pallino e così imparano, tiè!" Niente di tutto questo. Non mi sono piaciuti e non ci tornerò, basta così. Ma ho trovato due posti, uno a San Vito dei Normanni e uno a Carovigno, che erano semplicemente l'esaltazione del gusto, la sublimazione del piacere culinario, un viaggio mistico per le papille gustative. Per uno come me, che pesa 70 kg ma capace di mangiarsi un bue e tuttavia patire ancora fame, vuol dire tanto.

Potrei dirti di un mare veramente bello, limpido, a tratti cristallino. Anche se io sono il tipo per cui la vacanza è stare disteso sul lettino, sotto l'ombrellone, a leggere. E pensa che ero partito da Firenze senza neanche un libro. Preso dalla furia organizzatrice del viaggio, che è un vero e proprio lavoro non retribuito (perchè solo noi italiani siamo capaci di viaggiare caricando sull'auto valigie enormi, materassi, pentole a pressione e un paio di sanitari -non si può mai sapere-) non avevo pensato a portarmi il cibo per la mente. Che per me è necessario quanto l'aria che respiro. E all'arrivo mi ero anche accorto, con una forte dose di preoccupazione, che a Specchiolla c'è il vuoto più totale, una desolazione immensa di negozi, neanche un giornalaio. Mi ero addentrato alla reception del campeggio con profondo timore reverenziale non essendo, io portiere d'albergo, abituato a stare dall'altro lato del bancone e quindi preoccupato di scocciare i "colleghi" pugliesi con domande stupide. Come mi capita a Firenze quando, mappa della città alla mano, i clienti mi chiedono dove si trova la Torre di Pisa perchè non la individuano. Perciò avevo posto la domanda su dove si poteva trovare qualcosa da leggere, fosse anche la mitica, onnipresente Settimana Enigmistica. Che si compra solo d'estate. E invece mi ero sentito dire, con mia immensa e profonda felicità, che nel capeggio avevano una biblioteca. Piccola, semplice, ma con il suo carico di volumi. Li avrei baciati tutti lì, sul momento, quei ragazzi. Mi sono sciroppato 3 libri, tra cui un volume di 500 pagine sulla vita di Maria Tudor. Una regina inglese che ereditò dal padre Enrico VIII la fantastica abitudine a decapitare gli oppositori; una che oggi, da noi, nominerebbero portavoce del governo. Godevo, a leggerlo. Davvero. Pensa che meraviglia: tu sei lì, turista del XVI secolo a giro per Londra, vai all'unico ponte allora esistente (London bridge is falling down) e sul portale d'ingresso ci sono le picche con infilzate le teste dei condannati. Bellissimo, vero? Lo so, sono fatto così, adoro la storia sanguinaria. E allora? Ci sono quelli che fanno la fila da Starbucks e poi ci sono io.

Potrei anche dirti dei trulli di Alberobello, con una mia foto davanti a uno di questi subito ribattezzata, dalla famiglia, "il grullo davanti al trullo". Che dice tutto sul tipo di famiglia che ho. Della visita a Castel del Monte, che m'è garbato davvero tanto. Delle stupefacenti distese di olivi, una serie sterminata di questi mitici alberi piantata da ere geologiche in una terra d'un rosso vivissimo, inconsueto per me, abituato a vederli in Toscana. Ma potrei anche parlare dell'incredibile quantità di sporcizia che ho trovato lungo le strade, in particolare le tangenziali delle vari cittadine: una quantità di spazzatura sparsa quasi meticolosamente, soprattutto agli svincoli. Potrei anche parlare di amicizie, come la famiglia lucchese incontrata là, persone simpaticissime con una figlia che ha subito legato con le mie; belle persone, benchè abbiano il deprecabile difetto di tifare per quella squadra che a Firenze non-deve-essere-nominata. Della bagnina della spiaggia che mi prendeva bonariamente in giro perchè "ma te sei sempre a leggere!". Dei bagnini della piscina, che allo stereo mettevano il tormentone di Baby K o peggio ancora quello della ex signora Borg, ma che erano anche capaci di passare ai Pink Floyd. Che è come dare prima una gozzata di coca-cola e dopo un sorso di Remole.

Potrei parlati di tutto questo. E in effetti l'ho fatto. Ma ora passerò piuttosto al nostro breve ma intenso incontro.

Sono sicuro che lo ricordi benissimo. Ma ti voglio rinfrescare la memoria.

Mi trovavo, come dicevo all'inizio, lungo questa superstrada. Ora, io sono uno che rispetta, quasi sempre diciamo, i limiti di velocità. Perchè così deve essere, perchè le regole vanno seguite pidessiquamente, perchè... perchè si. Punto.

Ragion per cui, andavo a 90. Il limite in quel tratto.

Stranamente, proprio di fronte, mi trovai una processione di auto che saranno andate a 80.

Non mi posi il problema del perchè andassero così piano. In una nazione come la nostra dove, come ben sai, un sacco di esaltati si sentono in grado di competere con Vettel per la guida di una Ferrari, questi no. Presumo che fossero una comitiva di persone intente a recarsi da qualche parte per cui la lentezza era necessaria allo stare più possibile vicini e non perdersi. "Seguite me, conosco un posticino dove si beve un passito che è la fine del mondo". Una cosa così, ecco. Non fossi stato con le figlie, li avrei seguiti.

Guardo lo specchietto e, dietro di me, c'è praticamente il nulla. Come saprai, quella superstrada è una riga dritta, facile da ottenersi, in una pianura del genere. Zero auto. Ragion per cui metto la freccia a sinistra e mi sposto nella corsia di sorpasso.

Come canta Giusy Ferreri nel suo tormentone? "Cercavo un mare calmo e ho trovato te". Dal fondo di quella riga dritta e assolutamente calma mi sono apparsi, nello specchietto retrovisore, i fari della tua auto.

Eri laggiù, lontano, distante. Tanto che vedevo un solo punto luminoso in luogo di due luci anabbaglianti.

Eppure neanche ero affiancato alla prima auto in processione che mi sei arrivato addosso.

A quanto diamine andavi? 200? Sicuramente più della velocità necessaria a tornare indietro nel tempo. Decisamente tu, in quell'auto, non hai un flusso canalizzatore.

Ovviamente io trovo questo atteggiamento fortemente deprecabile, visto che, oltre alla tua vita, metti a rischio quella di tutti gli altri. Ma non è quello il punto.

E' stato il tuo metterti a sfanalare come non ci fosse stato un domani, che mi ha dato profondamente fastidio. Ed è stato il tuo errore.

Perchè io non lo sopporto quest'atteggiamento arrogante da "io sono più forte quindi scansati". Diamine, no! Col piffero che mi sono scansato. Anche perchè ero affiancato a un auto, dove pensavi che andassi?

Ma non hai fatto i conti con il fatto che, essendo io avanti, avevo il coltello dalla parte del manico. E l'ho usato con grandissimo gusto.

Ho rallentato fino a 85, terminando il sorpasso della prima auto in quella che tu hai visto trascorrere come un'era geologica. E, non pago, non mi sono affatto messo a destra, spazio comunque molto ristretto tra l'auto appena sorpassata e quella subito avanti. Ormai che ero in fase di sorpasso ci sono rimasto, in corsia sinistra.

Tu non puoi minimamente comprendere il piacere che provavo nel vederti sfanalare come un ossesso non appena hai capito che non mi sarei scansato, e avrei percorso un discreto pezzo di strada sorpassando 5 auto lentissime per il tuo standard. Con te dietro che mi stavi a pochi centimetri. Potevo sentire, gustare appieno la tua rabbia, la tua frustrazione, il tuo intimo dolore nel non poter lanciare la tua macchinetta a una velocità a cui neanche i progettisti devono aver pensato.

E' stata una vera goduria, e ti ringrazio di ciò. Ma la soddisfazione più grande me l'hai data quando ho finalmente raggiunto e superato quello in cima, colui che gli altri stavano seguendo. Quello che conosce il posticino dove fanno il passito.

Perchè in quel momento hai intravisto la luce in fondo al tunnel e la possibilità di ripostare la tua auto al massimo possibile; e hai intensificato le sfanalature.

Ma io, che quando mi impegno sono bastardo nel profondo, ho messo si la freccia a destra, ma mi sono spostato con una lentezza da bradipo. E allora la tua rabbia ha raggiunto livelli parossistici, e ci hai aggiunto il clacson. Un ululato automobilistico che hai continuato ben dopo avermi sorpassato, a dimostrazione della tua rabbia e della tua infima piccolezza da ameba primordiale.
Ma che a me ha fatto godere un monte.

E comunque, se tu sei pugliese, tu c'hai una gran bella regione.

Ma 'un tu te la meriti.

sabato 8 settembre 2018

Della mia famiglia non sono l'unico ad aver lavorato in albergo.

L'8 Settembre 1943, il soldato semplice Giosuè Mugnai si trovava dislocato a Sarajevo, come parte delle truppe d'occupazione del Regno di Yugoslavia da parte delle forze dell'Asse, di cui questo piccolo paese faceva parte.

Mio zio, allora poco più che diciottenne, proveniva da Cetica, un piccolo paese del Pratomagno, quella catena montuosa che per l'Arno rapresenta una vera scocciatura perchè gli tocca di aggirarlo prima di passare per Firenze e dirigersi verso il Tirreno. Cetica è un gruppo di casupole abbarbicato su un declivio montuoso dove per secoli si sopravviveva consumando farina di castagne (dopo il XV secolo arrivarono anche le patate. Non c'è mai stata grande fantasia, nella dieta di questi montanari). Gli unici eventi storici vissuti da quella comunità furono:

- il passaggio, dal passo della Consuma, dell'esercito guelfo fiorentino verso la piana casentinese, dove si sarebbe scontrato con le truppe ghibelline di Arezzo in quel di Campaldino (11 Giugno 1289). Dato che il paese era feudo dei conti Guidi, a quei tempi ghibellini e avversari, non mi stupirei se la soldataglia fiorentina si fosse data a qualche forma di saccheggio seguito da brutali stupri. E non mi sorprenderebbe neanche se venisse fuori che ho un pò di dna in comune con Dante Alighieri (il quale, ai tempi, era un fante dell'esercito fiorentino e partecipò alla battaglia);

- il tentativo, da parte delle truppe della Wermacht il 29 Giugno del '44, di sterminare senza nessuna pietà tutti gli abitanti del paese. Tentativo in parte fallito perchè l'unico modo per arrivare lassù era tramite una mulattiera. Non potendo usare autocarri, e tantomeno mezzi blindati, per piombare di sorpresa nel paese, i crucchi si fecero scoprire dando modo ai partigiani del posto di contrastarli (al prezzo di gravi perdite); ciò permise agli abitanti di fuggire nei boschi. Le mie nonne mi raccontavano di quando, quel giorno, scapparono tutti, con i figli piccoli appresso o direttamente in braccio. I fratelli di mia madre lo ricordano ancora (mio padre aveva solo 3 anni). Purtroppo vi fu chi non ce la fece. Tutt'oggi, se salite sul paese dalla parte di Pagliericcio, potete vedere una lapide con i nomi di un pastore e il figlio giovanissimo, uccisi sul posto senza remore.

Da questo paese così isolato (ancora agli inizi degli anni '50 c'era solo la mulattiera. Quando mia madre contrasse una malattia esantematica, l'unico modo per una visita e le cure necessarie fu, da parte di mio nonno materno, di caricarla sul mulo e portarla giù a Strada in Casentino; perchè a quei tempi i vaccini non esistevano e la morte era sempre incombente) mio zio si trovò catapultato in un luogo a lui assolutamente ignoto. Distante un migliaio di chilometri da casa, in mezzo a persone che parlavano una lingua a lui totalmente astrusa e piazzato lì da un regime che non comprendeva assolutamente.
Una dittatura le cui necessità non erano modernizzare una nazione dove molti luoghi, come Cetica, vivevano ancorati al medioevo. #primagliitalianiuncazzo. La precedenza, per i gerarchi, era al proprio tornaconto e il dichiarare guerra a gente che non ci aveva fatto niente. Spedire a combattere, in posti sconosciuti, ragazzi il cui destino segnato da secoli era zappare la terra per seminare patate, raccogliere castagne, tagliare alberi nelle foreste casentinesi, preparare carbonaie. Una vita semplice, modesta, inevitabilmente breve e che nessuno, sul pianeta, era intenzionato a migliorare. Tanto meno i loro concittadini in camicia nera.
Il fatto che oggi il colore della camicia sia cambiato, non vi illuda: è sempre lo stesso tipo di persone. Che prima intontivano la gente con gli slogan e le urla belluine alla radio, ma che oggi si sono adeguati agli strumenti moderni: i blog e gli hastag.
Ma sempre le stesse immense teste di cazzo rimangono.

Catapultato in questa realtà assurda e assolutamente priva di senso, era inevitabile che molti giovani della sua età si rivolgessero alla parte politica opposta. Oggi possiamo anche dire che non fosse poi tanto meglio, ma come si dice in questi casi: "col senno di poi son piene le fosse". E anche di parecchi giovani italiani.

Quel giorno Giosuè Mugnai decise che era giunto il momento di tornare al paesello, e, non potendo attraversare l'Adriatico, si incamminò verso nord con l'intenzione di aggirarlo.

Non fece molta strada. Due ustascia croati, a quel tempo alleati dei fascisti, lo pestarono ben bene. Poi gli puntarono una pistola alla testa. All'ultimo momento, per un caso estremamente fortuito, decisero che non valeva la pena di sprecare una pallottola per quell'italiano, e lo mollarono ai tedeschi.

Deciso a sopravvivere a qualsiasi costo, mio zio saltò giù dal treno che lo doveva portare chissà dove ma che non prometteva niente di buono. Fece una scelta di campo ben precisa e andò sui monti, dove si aggregò ai partigiani serbi. Lì trovò altri suoi connazionali che avevano fatto la stessa scelta, dando vita alla brigata Garibaldi.

Un giorno, mentre si trovavano in un momento di pausa, gli fu ordinato di mettersi in riga. Di lì a poco arrivò un'auto da cui scese il maresciallo Tito. Il futuro capo della Repubblica Socialista di Yugoslavia passò in rassegna tutto il reparto.
Non so cosa abbia pensato quell'uomo di quegli italiani pallidi, smunti e sporchi che fino a poco tempo prima combatteva ferocemente. Forse li considerava solo come utili pedine della sua guerra, o magari era sinceramente ammirato dalla scelta di quegli uomini. Non lo so, non lo sapremo mai. Mio zio non mi parlava molto degli episodi di guerra. Non erano mai momenti piacevoli, ma atti violenti, brutali, sanguinosi. Mi descriveva soprattutto le facce della povera gente che viveva su quei monti, anche loro persone semplici che sopravvivevano del poco che offrivano quei posti. Così simili a lui e così gettati in un mondo di prevaricazioni, violenze, morte. E malgrado ciò, dividere quel pochissimo che avevano con quegli stranieri. Anche per questo sopravvisse; tornò da laggiù con la pelle, una medaglia dello stato Yugoslavo e una discreta passione per il comunismo. In ordine decrescente di importanza.

Tornato in Italia, mio zio andò a vivere in Liguria. Per la precisione a a Chignero, una frazioncina del comune di Rapallo. Dista 5 chilometri, e sono tutti di montagna. In Liguria è così, basta fare pochi metri e sei già sui monti. A differenza del Casentino, sono tutte valli profondamente scoscese, ripide, profonde. La strada che porta su è tutta fatta di tornanti che sembra la salita dello Stelvio, solo che è tutta immersa nel bosco. Ogni tanto ci sono degli slarghi per permettere alle auto di passare affiancate. Perchè altrimenti è una corsia unica. E sull'esterno si apre un precipizio che aspetta solo di veder cadere l'auto dei cattivi in un film di James Bond o Indiana Jones.
Chignero sono 4 casette abbarbicate su questo precipizio. Tutte fatte in pietra e con pavimenti in legno. Al piano terreno la stalla con le caprette. Sopra, i bipedi. Quando andavamo a trovarlo dormivamo in una di queste case, abitata da una vecchietta che doveva rasentare il secolo d'età, un unico solitario dente e una parlata incomprensibile. Ci aveva abitato anche lui, i primi anni che era arrivato in Liguria. Ricordo che su un armadio di questa casa, al piano di sopra, aveva appeso il poster di una squadra di calcio: una rarissima foto a colori, per gli anni '50, e ormai quasi totalmente sbiadita, anche se si capiva che aveva quel colore così magico: il Viola. La Fiorentina del primo scudetto, 1955-56: il sorriso contratto di Sarti, l'espressione un pò stralunata di Chiappella, i baffetti di Julinho, lo sguardo serio e la pelle ambrata di Montuori. Ero affascinato da quella foto, quel simbolo identitario così forte e unico piazzato in quell'angolo remoto di Liguria. Ogni anno che andavamo a trovarlo mi aspettavo di non trovare più quell'immagine appesa a un armadio che doveva risalire all'ottocento. Invece, puntualmente, era ancora lì, e dormivo in quella stanza sotto lo sguardo vigile e premuroso di 11 gigliati, il prato verde del campo di gioco e la Maratona stracolma di fiorentini.

In una di queste casette di Chignero abitava quella che sarebbe diventata mia zia Linda. All'inizio c'era profonda diffidenza, da parte della famiglia di questa giovane e bella ragazza ligure, riguardo a questo toscano. Elemento che veniva da fuori, quindi sospetto. Parlava strano. Uno straniero! Oltretutto con idee politiche altamente riprovevoli. Uno che oggi sarebbe respinto, ecco. A dirimere la questione ci pensò il parroco: in un mondo dove non solo non esistevano i social, ma pure la sip faticava a mettere telefoni fissi ovunque, il curato del paesello ligure scrisse una lettera al suo corrispettivo in Toscana, chiedendo informazioni su questo tipo. E il prete di Cetica rispose che si trattava di un'ottima persona, brava, attiva, proveniente da una solida famiglia di indefessi lavoratori. E sono assolutamente certo che fu una risposta sincera, scritta pechè lo credeva veramente. Malgrado tutto. Perchè quando c'erano le elezioni il PCI, a Cetica, prendeva una percentuale che la Bulgaria scompare a confronto, e a parte un paio di altri partiti, c'era sempre un solo, singolo e solitario voto al movimento sociale. E sapevano TUTTI di chi era quel voto. E però il prete ne scrisse bene, di quel comunista, raccomandandolo.
Guareschi ha sempre avuto ragione, maledetto baciapile.

La Liguria possiede dei luoghi di una bellezza straordinaria, qualcosa che rasenta il trascendentale. Uno di quei posti che, come Ischia, Capri, il Colosseo e il centro di Firenze, sono entrati nell'immaginario mondiale come "L'Italia da sogno". E chiaramente frequentati da persone estremamente danarose e potenti. Presidenti, divi di Hollywood, principi stranieri. Negli anni '50 e successivi ci fu un certo boom, una scoperta, di queste località, e subito iniziò l'industria e l'offerta turistica. Mio zio entrò, appunto, a lavorare in albergo. In particolare ricordo che era allo Splendido di Portofino. Una di quelle strutture ricettive dove anche una notte nella camera più piccola e infelice ha un costo pari a diverse rate di un mutuo. E lì si trovò ad avere a che fare con quella clientela. Mi parlò della principessa di Persia, la moglie dello Scià poi scacciato dalla rivoluzione komeinista, che non era mai contenta della pulizia della camera, e lo costringeva ad andare tutti i giorni in stanza a pulire, pulire, pulire. Ma anche gli altri non erano da meno. A un certo punto si stufò di tenere il conto di queste persone che potevano vantare titoli sui quotidiani. Tutta gente che non si scomoda neanche a prenotare, e ha un esercito di galoppini e/o portaborse per il "lavoro sporco": contattare l'albergo, trasportarli sul posto, andare a lamentarsi al ricevimento perchè "Sua Maestà non gradisce la camera, vorrebbe la suite" e mi immagino il portiere che gli risponde che non è possibile perchè la suite l'aveva già presa Cary Grant. Altro che recensioni o bookingpuntoyeah, era proprio un altro mondo. Esseri umani che trattavano gli altri esseri umani come pezze da piedi. Ok, non tutti (non Cary Grant o James Stewart, anche se non ricordo di quali divi si trattava) ma quasi certamente le "altezze reali". Mi parlava soprattutto di quelli che, come mancia, davano pochi spiccioli. Da qualche parte ho ancora una piccola scatola di legno con dentro le monetine che mi regalava: centesimi americani, penny inglesi e altre frazioni di vecchie valute europee.

Non era alla reception, lavorava come facchino. Mi piace immaginarlo con una divisa color pastello con i bottoni dorati, e che doveva stargli davvero larga (è sempre stato secco come un chiodo). Io lo vidi solo in borghese. Era sempre vestito elegante, con giacca e cravatta, e pantaloni con la riga perfetta. Si radeva tutte le mattine. Apparteneva a quella generazione per la quale essere uomini significava eleganza e rasatura a puntino. Ma aveva anche un sorriso spontaneo, pieno di gioia di vivere. A Rapallo lo conoscevano tutti. Passeggiavamo nelle vie del centro (Rapallo è straordinaria, visitatela. Vale assolutamente la pena) e tutti lo fermavano per salutarlo. E salutare quei "toscani" venuti a trovarlo.
Ecco, è con quel modo di ridere che aveva, che mi piace ricordarlo.
Il primo Mugnai a lavorare in albergo.

sabato 1 settembre 2018

Sono una persona semplice. E non sono perfetto.

Ho il mio lavoro, stabile (sembra), sicuro (così pare), modesto, in cui non posso certo affermare di eccellere, ma credo di cavarmela. Di mostrare sempre il lato migliore di me, un bel sorriso, un'espressione serena, un'empatia convincente. In una struttura ricettiva, può essere determinante.

Alle spalle, una famiglia che, malgrado tutto, mi sostiene. Persone che mi vogliono bene e non si peritano a farmelo sapere. Non so cosa ho fatto per meritarmelo, ma se esite veramente la reincarnazione, in una vita precedente devo aver patito le pene dell'inferno. O forse è stato solo un enorme disguido burocratico, e urlavo ordini perentori in una lingua nordica con indosso una divisa militare.

Commetto i miei errori, come tutti. Ne pago le conseguenze. Mi sbatto quando serve. Turni di ogni tipo, a ogni ora del giorno e della notte, senza festività che tengano. Abnegazione e spirito di sacrificio. In altre parole: palla avanti e pedalare.

A volte, paga.

1. La tabaccaia di Amarcord.

Con qualche anno in più di Maria Antonietta Beluzzi quando intepretò quel personaggio nel film di Fellini, ma con le stesse forme giunoniche e prorompenti, questa americanona si presenta in albergo con una prenotazione. Di una doppia.

Col mio miglior sorriso, inizio il check-in. Lei, senza scomporsi, seguita a digitare sul telefono per connettersi al wifi, ma sorride felice e serena di essere lì. Non è poco.

-Deve arrivare una seconda persona?-

-Può darsi, non lo so-

-L'importante è che ci presenti il documento, quando arriva-

-Beh, speriamo. Voi come vi chiamate?-

Io e la ragazza con me al banco, studentessa in stage dell'alberghiero locale, ci presentiamo. E la signora non perde tempo:

-Ah, Marcello! Come il mio personaggio preferito di "Sotto il sole della Toscana", lo conoscete?-

Quando i clienti sentono il mio nome, al 99% accennano sempre a Mastroianni e la celebre frase pronunciata dalla Ekberg nella Fontana di Trevi. Difficilmente si riferiscono al personaggio interpretato dall'attore preferito di mia moglie. Lo fa ora questa donnona dalle munifiche forme. Non stento a credere il motivo.

-Però in quel film, il Marcello non è che sia un personaggio positivo...-

-Non importa, tu sei il "mio" Marcello. Ora lo scrivo su Facebook ai miei amici in California-

Quindi vi saranno alcuni californiani che ora si immaginano un Raul Bova dietro al banco di un ricevimento alberghiero.

Non sono la stessa cosa neanche per scherzo. Ma ho come l'impressione che, se gli assomigliassi anche solo lontanamente, o semplicemente avessi vent'anni di meno, a quest'ora mi avrebbe rapito e portato in una splendida villa a Malibù. Posso dire che l'ho scampata bella.

O no?

ps: nei 3 giorni di permanenza della signora, non si è presentata nessuna seconda persona, a soggiornare con lei in camera.

Non sa cosa si è perso.


2. Il gelato.

Non ho mai avuto gran belle esperienze, coi gruppi. La prenotazione, tra accordi con l'agenzia, anticipi e caparre varie, saldi, elenco dei nominativi, piccoli cambi con modifiche e richieste patricolari, assume la grandezza di un volume di Ken Follett. E quando arrivano, si presentano tutti al bancone ponendo domane su domane in contempranea, come se il portiere fosse dotato di 12 mani e 3 bocche (anche se il 70% delle domande verte sul funzionamento del wifi).

Se poi il gruppo è formato da ragazzi giovani, dediti a meravigliose passioni quali urlare, correre per i corridoi come Vettel sul rettilineo e sbattere fortissimo le porte, ci si chiude la vena e cresce irrefrenabile la volontà di commettere una strage.

Ma questo gruppo, che prendiamo ogni anno, è diverso. Ragazzi americani ben educati, sinceri, sorridenti, che si vede subito non far parte dell'elite bulla e strafottente che può, in casi assurdi e totalmente immeritati, diventare presidente. Questi sono curiosi di ciò che si apprestano a visitare, entusiasti di conoscere il Rinascimento. Il Vasari. Botticelli e Michelangelo. La Fiorentina, intesa come l'alimento (ma qualcuno va pure allo stadio).

Il capogruppo lo conosco da tempo. Viene, sorride, ci porta la lista dei presenti già divisa per occupazione delle camere e numero dei documenti, si occupa di organizzare il viaggio e alloggiare al meglio i ragazzi. Uno davvero bravo e premuroso nel suo lavoro.

Verso le 22 (avevo un turno pomeridiano) scende al ricevimento e mi chiede i miei gusti preferiti di gelato. Intento a ricontrollare i conti della giornata dopo 7 ore di turno e in fremente attesa del notturno detto anche Lurch, sono intedetto da tale domanda. Di solito mi chiedono le mie gelaterie preferite, ma non certo sui gusti.

E invece, pochi minuti dopo, lui mi riappare davanti; e recante una coppetta che posa, magicamente, sul bancone.

Alzo lo sguardo, che fino a un istante prima era posato sulla calcolatrice nella delicata operazione di riconteggio delle csse, e sono totalmente sorpreso. E commosso. E balbetto dei ringraziamenti.

-La tua sorpresa è il miglior ringraziamento- e sale su.

Mi metto nel retro e mi gusto il gelato. Uno dei migliori di sempre.

ps. crema e fiordilatte. Io vado sul classico.


3. Il segnalibro.

Arriva questa famiglia guatemalteca. Moglie, marito e due figli (maschio e femmina). Sorridenti e felici di stare in vacanza. Camera quadrupla che hanno la fortuna essere già pronta perchè gli occupanti erano partiti presto e la cameriera l'aveva rifatta subito. Sono le 12 e li posso mandare su.

Sono sorpresi. Piacevolmente. Mi chiedono come sia possibile, visto che il check-in è alle 14. Controbatto che "se è possibile fare un favore, lo si fa" E volentieri. Ovviamente non è la norma. Chiaramente è questione di fortuna; se i clienti precedenti fossero partiti proprio alle 12, loro avrebbero dovuto lasciare i bagagli in deposito e tornare dopo. Camere con 4 letti non ne abbiamo molte. Ma questa è pronta. Perchè farvi aspettare? Approfittate.

In fondo era un check-in normale, come tanti altri, con la stessa tecnica, lo stesso stile, lo stesso modus operandi: orario colazione, mappa della città con indicazioni su dove si trovano gli Uffizi e l'Accademia... il mio solito lavoro, insomma. Dove la maggior parte dei clienti ascolta distrattamente, o non ascolta proprio. Loro no. Silenziosi, ipnotizzati dalle mie parole, ascoltano tutti e quattro. Genitori della mia età e figli con l'età delle mie, assorbono ogni mia informazione su come muoversi nel centro di Firenze. Che può sembrare anche facile, ma se non la conosci, rischi di perderti. Specialmente se finisci nei chiassi.

Scendono dopo una mezz'ora e mi fanno questo stupendo regalo: un segnalibro in stoffa. Non un cartoncino che si squalcisce. Non un oggettino che poi finisce nella pattumiera della carta causa l'usura, come hanno rischiato quelli creati da Camilla e Gaia alla materna (e che infatti conservo gelosamente intatti).  Questo è un vero segnalibro di stoffa con tanto di omino stilizzato e la scritta "Guatemala". Io, che amo la storia e ho studiato le terribili sofferenze patite dai guatemaltechi quando al potere avevano gente che da noi diventa ministro dell'interno, vedo il Guatemala sotto una nuova luce. Un luogo bellissimo dove la gente sorride sempre e si regala segnalibri in stoffa perchè, a furia di leggere, gli si consumano pure quelli.

Il mondo, quando si impegna, sa essere bellissimo. Anche dietro il banco di una reception.




martedì 14 agosto 2018

Quando scappa, scappa.

E non c'è nessuno, durante il 23-7, a coprirti al bancone. Uno straccio di collega che risponda al telefono, che dia, o riceva, una chiave, che parli e fornisca informazioni alla clientela.

Ci sei solo ed esclusivamente tu, portiere di notte.

Ma hai il vantaggio che tutti dormono.

Quindi chiudi tutto, cassa e portone d'ingresso, e corri di corsa nel bagno.

Ahimè, Murphy aveva ragione: se sei seduto sulla tazza, qualcuno suonerà.

Perciò ti pulisciti in fretta e furia (e qui siamo come in Francia: niente bidè. Ne usufruirai solo al tuo ritorno a casa. Odio questa cosa, mi sento un sudicione tutta la notte, ma non si può fare altrimenti), rimbocchi la camicia nel pantaloni, riaggiusti la cravatta, ti lavi le mani con abbondante dose di sapone e intanto il tipo là fuori si attacca al campanello fisso, un drin continuo che è una martellata nel cervello. "Emiliano dice tutto, gringo", basta che la smetti.

Accorro al ricevimento, ma capisco subito che non è un cliente di rientro dalle folli notti fiorentine.

Rallento nel vedere, di là dal vetro del portone d'ingresso, questo essere informe, pessima copia di un Ceccherini però, per quanto incredibile, ben più brutto. Con una t-shirt che l'ultima volta che venne lavata Franco Cerri faceva ancora la pubblicità in ammollo.

E con una simpatia che neanche i crucchi in divisa militare. Perchè ha la mano chiusa a pugno. E la agita in maniera inequivocabile.

Non sono mai stato uno sveglione; ci arrivo tardi, a capire le cose. A comprendere che esistono persone, in questo mondo, che devi respingere assolutamente, metodo salviniano, perchè anche pochi secondi possono essere devastanti, e ti rimarranno in testa per tutta la vita. A distruggerti la mente. A tormentarti l'animo. E costui è uno di questi. Ma visto che sono un bischero di primaria grandezza, in luogo di salutarlo con la mano e dargli un bel "ciaone" come meriterebbe, infilo la chiave nella toppa e apro.

E lui esordisce così:

-Eri a farti una se**, eh?-

-Ma veramente....-

-Sisi, lo so, eri a mast*****i-

-No, guarda, io....-

-Senti, lascia perdere, dammmi una Sanbuca, piuttosto-

Reagire. Contrattaccare immediatamente. Farsi muro, diventare impenetrabile. Ordine numero 227: non un passo indietro.

-No-

-Ma dai, una Sambuca, lo so che ce l'hai! Sei l'unico aper...-

-Guarda- Indico verso l'esterno -Cosa vedi?-

-Cosa vedo... una via di'ca**o, drogati, immigrati di m....-

-No, caro, là c'è il mondo!-

-E a me che ca**o me ne freg...-

-Proprio così, il mondo intero, e io te ne faccio dono. Un intero pianeta di classe M....-

-Ma piantala con le ha**ate!-

-...dove sarai libero di muoverti a tuo piacimento. Ovunque, pensa!-

-T'ho solo chiesto una Sambuca! Te la pago, eh! Quanti ca**o ne vuoi, di questi euro...-

-Vai! Prenditi il mondo e tutto quello che c'è dentro, come Tony Montana. E questa è una grande citazione, sappilo-

-Le ha**ate, ecco cosa dici te, solo le ha**ate! Lo sai hosa tu sei te? Tu sei....-

(Se mi chiama "Biondo" e mi fa quella citazione, gliela offro la Sambuca, giuro! Ma non ci arriva, è troppo imbecille, per conoscerla)

-...uno stronzo, ecco cosa sei! Torna dentro a farti la se**, stronzo!-

E continua a infamarmi per tutta la via, mentre io lo saluto con un non poco sarcastico "Ciao grande!" e poi richiudo a chiave.

Ma con la consapevolezza che prima o poi ne busco. Parecchie.

Però la soddisfazione di prenderlo in giro, chiunque sia, non me la toglierà.

domenica 5 agosto 2018

La sfortuna vola nell'aria e ogni tanto piomba su qualcuno; è toccato a me quella volta. Mi trovavo lì e mi ha beccato! (Andy Dufresne)

La fortuna e la sfortuna non esistono. (Enzo Ferrari)

Andy, Enzo, ma vi faceste mai un pò di cavolacci vostri? (marce)


La felicità è, soprattutto, fortuna.

E' la fortuna di avere una figlia (Gaia) che, dall'altro capo di un binario ferroviario, ti urlà "papààààà!!!!" con i decibel che sovrasterebbero anche i cori della Fiesole, e ti salta in collo sotto lo sguardo commosso e un pò invidioso di tutti quelli scesi dal frecciabianca alla stazione di Giulianova. E anche di quelli ancora in viaggio, affacciatisi per capire da chi proviene quell'urlo. E pazienza, se non dice "babbo", come dovrebbe giustamente fare una 11enne fiorentina. Ti fa passare la giornata di caldo che hai patito sul binario 3 della stazione di Bologna, in attesa del treno in ritardo. Dopo un turno di notte e un lungo viaggio per raggiungere la famiglia in vacanza. Pochi giorni, ma non si vuol perdere neanche un minuto.

La Sara che mi tocca il braccio e mi chiede se, malgrado le 30 ore senza sonno, sono ancora vivo. Un contatto che ha la capacità di farmi tornare i sensi, risvegliare le membra, darmi la forza di oppormi ad un mare d'affanni e porre loro fine.

La Camilla che mi attende al campeggio al solo scopo di trascinarmi in acqua. E strizzarmi come non ha mai fatto in vita sua, neanche con il peluche di Heidi.

Lo stare disteso su uno sdraio, rinfrancato dall'aria fresca dell'Adriatico, con un libro posato sugli occhi perchè no, stavolta non ce la faccio proprio. La rilassatezza prende il sopravvento e i 3 litri di caffeina ingozzati a più riprese durante il giorno si dissipano all'istante. E dormo.

E la sera ingurgitare una quantità industriale di arrosticini. O maltagliati agli scampi. O tutto insieme, in un'orgia divoratrice e pantagruelica che non si vedeva dai tempi in cui Marco Ferreri girava film sul morire mangiando. La serenità fa veramente tornare l'appetito.

"Fregete", come dicono da quelle parti.

Noi quattro, tutti assieme, e come foss'antani a tutto il resto del pianeta.

Poi arriva il momento di ripartire.

Abbiamo ancora un giorno. 24 ore, come per Eddie Murphy e Nick Nolte. Decidiamo di passarli nella montagna, sul Grande Sasso, e si, prenotiamo tramite il solito sito. Quello che tanto, troppo spesso, finiamo per disprezzare sulle pagine esclusive di noi portieri d'albergo, alla fine lo usiamo per prenotare una struttura. Proprio così. Resistere è futile, e pure noi ci siamo fatti assimiliare.

Dopo un'ultima mattinata di mare e un pranzo leggero (quantificabile in una quarantina di portate, di cui solo un decimo mangiate dalle donne del gruppo), partiamo. in direzione della montagna. Stavolta senza passare per la lunga galleria (che, come la Gelmini ci ha insegnato, ha una diramazione che porta direttamente a Ginevra).

Ora:

Sono un maschio italico. Da cui si aspetterebbe 3 cose: due riguardano l'aspetto calcistico. Ovverosia l'indiscussa e totale visione di gioco con tocco delicato di palla in modo da smarcare l'attaccante in posizione che "devi solo toccarla e quella va dentro" + l'assoluta padronanza dei migliori schemi calcistici tali da porre in campo i pulcini della Pistoiese in modo così perfetto da rifilare 4 gol a Cristiano Ronaldo e i suoi nuovi compagni di gioco.

La seconda: un'enciclopedica conoscenza dei grandi capolavori italiani degli anni '70, con specializzazione sui poliziotteschi e le pellicole con la Fenech.

La terza riguarda i motori. Un italiano che si rispetti dovrebbe possedere l'abilità "conoscenza del motore a scoppio" a livello 18, con capacità di smontare un qualsiasi 4 tempi a occhi chiusi e rimontarlo in modo tale da fornirgli la potenza di un turbo sovralimentato, oltre alla collezione completa di Quattroruote dall'84 a oggi, il fumetto del Joe Bar Team con firma originale dell'autore e una t-shirt con sopra la foto di una Duna e l'effige "non ti dimenticheremo mai".

Ma io, aimè, non sono così.

La Sara si era già accorta di qualcosa di anomalo durante il viaggio d'andata, quando l'aria condizionata aveva praticamente smesso di funzionare poco dopo L'Aquila. Ma poi, non avendo quasi più usato l'auto in quella settimana, non ci avevamo fatto caso.

All'altezza di Teramo, l'auto comincia a perdere potenza.

Sospetto che la quinta non regga abbastanza, forse siamo in salita? Innesto la quarta.

Continua a perdere potenza.

Sta rallentando sempre di più.

-Marce, che succede?-

-Ehm... non va... mi sa che devo accostare- In sottofondo, mi pare di sentire i violini di un'orchestra che si ostina a suonare, prima di venire sommersa.

Sulla superstrada Giulianova-Teramo non ci sono corsie d'emergenza (neanche nel proseguio, l'A24, ci sono). Non intravedo spazi di sosta (e neanche Panama) all'orizzonte. Ma appare un'uscita. Accosto all'inizio dello svincolo.

Lì, la macchina si ferma.

E non vuole saperne di riaccendersi.

Sono riuscito, senza farmi prendere troppo dal panico, a mettermi in una posizione abbastanza sicura. Gli italiani non accostano subito, quando devono uscire da una superstrada. Di solito sbandano violentemente sulla destra all'ultimo momento, e senza mai usare la freccia. Ma ci passano comunque accanto a più di 100 (il limite lì è 90). La macchina ballonzola a ogni passaggio. La Cami va nel panico, e iniziare a piangere istericamente.

Abbiamo 4 telefoni. Due completamente scarichi, uno al 15%. L'unico con la batteria a pieno è quello della Cami.

La Sara lo prende e chiama il 112.

Per prima cosa l'operatore si sincera che siamo in una posizione sicura. Poi ci dà il numero del soccorso stradale. Solo che è un 800. Ed è una numerazione vietata, per le limitazioni che abbiamo messo sul telefono della Camilla.

la Sara chiama con il suo, batteria quasi esaurita. L'operatrice ci chiede la posizione, e ci assicura che manderà un carro attrezzi.

-Sul carro attrezzi c'è posto per sole altre 2 persone-

-Ehm... noi siamo in quattro-

-C'è qualche familiare, in zona, che possa venire a prendervi?-

-No. Siamo in vacanza-

Pausa.

-Ah-

Altra pausa.

-Due di voi dovranno andare a piedi-

-Siamo su uno svincolo-

-In aperta campagna?-

-Sulla destra c'è un muro di due metri. Poi una foresta impenetrabile. Tipo giungla amazzonica-
Ancora pausa.

-Beh, intanto vi mando il carroattrezzi-

Batteria al 7%.

Attendiamo sotto al caldo soffocante. Solo ora mi rendo conto che la lancetta della temperatura dell'acqua è dritta verso l'alto, manco fosse stata sottoposta alle dolci attenzioni di Sasha Gray. Sospetto a indicare una temperatura da fusione del piombo. La Cami maledice in 27 lingue, facendomi sospettare che sia stata posseduta da Pazuzu, tutti quelli che ci passano a pochi centimetri neanche fossero Vettel sul rettilineo, e fanno ballare l'auto.

Poi, dopo aver atteso pazientemente sotto il cocente sole del primo pomeriggio, arriva la salvezza: il carro attrezzi.

Si ferma davanti a noi, ponendosi a pochi centimetri. Ha l'espressione bonaria e sincera dell'attivista di una ONG che arriva in soccorso, e una tuta sporca di grasso e olio motore. Facendo attenzione ai bolidi di passaggio nella corsia, pone un gancio nella parte anteriore della nostra auto.

Poi appoggia il gomito sul finestrino aperto, mi guarda con sorriso sardonico e in accento teramano mi chiede:

-Dove andiamo?-

Rimango un pò interdetto, e sto quasi per dire "Firenze", ma mi anticipa per rispondere a quella che era, a tutti gli effetti, una domanda retorica:

-In officina-

-Ehm.... effettivamente, non vedo altre destinazioni possibili-

Gli appare in mano un telecomando, che per me equivale alla bacchetta magica di Harry Potter, e l'auto comincia a sollevarsi sul carroattrezzi.

Ci troviamo a due metri dal suolo.

Il meccanico risale nel suo mezzo, e partiamo.

La Cami sempre più preda del terrore, la Gaia, neanche a dirlo, eccitatissima:

-Siamo altissimi! E' ganzissimo!-

Meno male che c'è lei, con la sua sincera ingenuità.

Quando arriviamo, qualche chilometro dopo, e possiamo finalmente scendere, il danno appare evidentissimo: motore grippato, fuso, andato. La bluesmobile a fine corsa.

Ci accordiamo con il meccanico per la riparazione, che comportarà sostituire praticamente tutto quel che è dentro il cofano ad un costo non indifferente. E non riesco a usare iperboli o metafore nel descriverlo, al solo pensiero. Sono certo che anche la direttrice di banca avrà avvertito una sensazione molto negativa: "Piango, e non so perchè".

Il meccanico ci porta alla fermata del bus. In un bar di fronte ne approfittiamo per consumare qualcosa di fresco e ricaricare i cellulari. Poi, in pullman fino alla Tiburtina. A Roma pernottiamo in un hotel: matrimoniale e due letti a castello. Carino, decente, un pò di muffa sulle pareti del bagno, qualche ritinteggatura ma comunque 8,1 di voto meritati. Gli daremo qualcosa in più.

Ceniamo da un kebabbaro-pizzeria appena fuori dall'albergo, la mattina ripartiremo in treno per Firenze.

Ma in quella simil-pizzeria, mentre mangiamo le nostre pietanze, ci rendiamo conto che noi siamo lì, uniti. Che la felicità è, prima di ogni altra cosa, la fortuna di essere noi quattro. Solo e soltanto noi. Alla faccia di motori che fondono o pseudo-ministri sulla famiglia completamente svitati. Noi resisteremo. Tutti e quattro. Come i perdonaggi di Dumas. O gli Obama.

Si, ok, anche gli Addams.

Tanto lo sapevo che lì andavate a parare.

ps. Mentre ci riposavamo nel bar di fronte alla fermata dei pullmann e ricaricavamo i cellulari, la Sara ha chiamato l'albergo sul Gran Sasso per informarli che, a causa di questo fastidioso (a dir poco) disguido, non saremmo venuti. Ovviamente, essendo una prenotazione in penale, comprendevamo che avremmo perso l'importo della notte. Lavorando nell'ambiente, sappiamo come sono le regole.

E invece, con nostra piccola sorpresa, la persona addetta al ricevimento ci ha detto che non avrebbe addebitato nulla, purchè contattassimo subito il perfido sito tramite cui avevamo prenotato affinchè cancellasse la prenotazione. Cosa che, ovviamente, la Sara ha fatto immanentemente.

Noi, negli alberghi dove lavoriamo, non l'avremmo fatto.

Il che mi ha fatto sentire molto poco umano.

Mi sento solo di esprimere un profondo e sentito grazie.

A tutta la regione Abruzzo.

lunedì 23 luglio 2018

"And everything under the sun is in tune

But the sun is eclipsed by the moon"
 

Io le odio, le gallerie.

Non è solo per la fastidiosa, irritante sensazione che si prova nel timpano al brusco cambio di pressione.

Non è neanche per l'assenza di paesaggio da osservare e la monotonia del muro a pochi centimetri. Anzi, mi piace pure quella tetra oscurità, l'ingresso nelle tenebre, il buio subito dopo la luce. The dark side, appunto.

Il fatto è che una galleria ferroviaria è particolarmente rumorosa. Perchè il treno è molto più veloce di un'auto e soprattutto perchè viaggia a pochi centimetri dalla parete.

E quel "WUUUUUUUU" continuo e frastornante mi impedisce di sentire la musica nelle cuffiette.

"Tell me, doctor

where are we going this time

is this the 50's

or 1999...."

Non sto viaggiando nel tempo. Sto andando in un luogo ben più fisico, seguendo le canoniche direzioni x, y e z. La patria delle famose, celebri 3 T. E provate a immaginare quale delle 3 preferisco.

In realtà, a Bologna, ci passerò solo un paio d'ore, poi levitate a due e mezzo per ritardo del frecciabianca, perchè per andare a sud, da Firenze, bisogna prima passare per il nord.

Sembra un controsenso, ma il problema dell'italia non è mai stata la storia. Quella l'abbiamo sempre trattata allo stesso identico modo per secoli: dimenticandola subito. No, dicevo: questo paese ha sempre avuto un problema di geografia.

Io, attualmente, ho più un problema di testa.



I got my head checked

By a jumbo jet

It wasn't easy

But nothing is

No

Ho staccato dal turno di notte alle 7 del mattino e, in neanche un'ora, sono tornato a casa dove, spogliatomi di pantaloni, camicia e cravatta modello scena finale di Full Monty a velocità quadrupla, indossato pantaloncini e magliettina molto estiva, caricato di borsone del peso di 3 quintali e, soprattutto, ingoiato mezzo litro di caffè alla temperatura di fusione del piombo, mi sono diretto a SMN.

Malgrado tutto ciò, stavo per perdere il treno per Bologna perchè mi ero addormentato sul regionale, e sono saltato giù a Prato Centrale poco prima che le porte si richiudessero.


I'm gonna leave this place tomorrow

I'm gonna leave this town behind

I'll be gone before the morning

on the other side of the mound

That's why i'm moving on

Mi tiene su solo la consapevolezza che stasera divorerò un quintale di spaghetti allo scoglio e un migliaio di arrosticini, circondato dall'affetto della famiglia, per un 5 giorni di vacanza marina nel mare d'Abruzzo. Tutto quel che ho, per ora. Pochi ma preziosissimi giorni.


Sleep inside the eye of your mind

Don't you know you might find

A better place to play

Sono nell'ultimo vagone. Attorno a me, nessuno. Alone in the dark, e spero di non essere in un racconto di Lovecraft. In cima, un'allegra famigliola di millanta persone, con valigie di mezzo quintale, donnone alte e grosse quanto un tir e truccate come l'ultimo dei transessuali brasiliani, maschi più possenti di un giocatore di rugby e con i tatuaggi e l'espressione truce di uno appena uscito da Rebibbia, una caterva di bimbi allegri e chiassosi, sprizzanti vita. E tutti con una lingua che farebbe la felicità di un militante leghista in astinenza da rabbia e bava colante alla bocca.

Nel mio angolo di vagone non li vedo neanche. Il fracasso del treno dentro la galleria appenninica copre tutto: rumori del treno, musica in cuffia, schiamazzi da curva dello Steaua.


You know your mama

and your daddy

Saying i'm no good for you

They call me dirty

from the alley

and i don't know to do

Davanti a me

Vestitino a fiori

Boccoli biondi

Occhi azzurri

E la risata espressiva di una bimbetta, di poco più di 5 anni, che sta osservando qualcosa di molto buffo

Io

Perchè, occhi chiusi e volume a tutta potenza nelle cuffie, ero in piena trance performante da "air guitar". Con ancora la mano sinistra a mimare un "bending" su un'immaginario manico.

Rido.

Che altro dovrei fare?

La bimba gira i tacchi e corre dai genitori. Io, semplicemente, guardo verso l'esterno, mani in tasca e sguardo indifferente, ma posso sentire sguardi su di me e risate nell'immaginarsi un uomo adulto far finta di suonare un riff distortissimo e cantare un pezzo che sente solo lui.

Arriviamo a Bologna. L'allegra famigliola rumena si avvia all'uscita; io, per evitare di attendere in fondo al gruppo, vado dalla parte opposta.

Mi volto.

Incrocio lo sguardo della piccola.

Che alza la mano e mima un saluto. Labiale che dice chiarissimo "ciao"

E poi mima un'immaginaria chitarra.

Non posso non rispondere allo stesso modo.


Fuori, l'afa bolognese

Devo cambiare musica, stile, genere


Oh, love, don't let me go

Won't you take me where the street lights glow

I can hear it coming

I can hear the silent sound

Now my feet won't touch the ground


domenica 15 luglio 2018

Non ti abitui mai.

A due cose:

La prima: le 8 ore notturne.

Puoi lavorare notturno per mesi, anni, decenni, ma non ti abituerai mai. La notte distrugge, la notte massacra, la notte ti schianta il fisico e la mente come poche cose.

Ok, ve lo concedo: rispetto ad altri, numerosi, lavori notturni, noi portieri abbiamo un vantaggio: siamo al chiuso.

Un ambiente tranquillo, sigillato all'esterno (a meno che qualcuno non suoni il campanello, ovviamente) ma, di per sè, comodo. Rilassante, perchè parliamo di una hall alberghiera, fatta per calmare la clientela. Al caldo del riscaldamento in inverno e al fresco dell'aria condizionata in estate.

E però, non ti abitui mai. Patirai sempre l'inversione del tempo. Il tuo personale, privato, esclusivo fuso orario. Che va benissimo se hai appena effettuato un volo intercontinentale e ti appresti a visitare un mondo esotico pieno di curiose tipe con le gambe storte e gli occhi a mandorla e meravigliosi templi dorati, ma non serve a niente quando devi accompagnare la figlia piccola a scuola al mattino presto e poi alzarti per le 13.30 perchè la grande rientra a casa. E con la stessa fame di un branco di lupi siberiani.

Ma soprattutto, se c'è una cosa a cui non ti abituerai mai,

sono le stranezze della clientela. E non solo.


 

1. Il prenotante nottetempo: entro in turno alle 23 del giorno x. Eseguo il mio lavoro, stampo tutto lo stampabile contribuendo alla devastazione di immense foreste tanto che mi aspetterei l'arrivo del cicciobomba coi capelli arancioni a dirmi "bravo, così si fa!". Chiudo la giornata, passo al nuovo giorno e, alle 2 di notte circa, mi suonano il campanello.

Apro l'ingresso a due tipi che assomigliano in tutto e per tutto a un bolso presidente turco. E mi esordiscono, in un inglese patetico e stentato, che hanno una prenotazione per quella notte.

Panico. Per quanti anni uno lavori in albergo, questo sentimento aleggia perenne, in un portiere, diurno o nottunro che sia. Il timore di aver lasciato una camera in vendita malgrado il completo, c'è sempre. E si tratterebbe di scusarsi profondamente per il disguido, cercargli una sistemazione e prendersi infamie in una lingua sconosciuta fino alla 7^ generazione.

Ma come mi mostrano la prenotazione sul loro cellulare, dal costo approssimativo di uno stipendio da ministro dell'interno, noto che la data di arrivo è x+1.

Questi due pirla hanno prenotato per il giorno dopo.

Com'è ovvio quando si ha a che fare con questo tipo di persone, se ne vengono fuori che siamo già a x+1 (saranno state le 3 di notte) e quindi dovevo procurargli subito una camera. Immanentemente.

In certi casi, essere privi della mano sinistra al fine di installarvi una motosega, potrebbe essere particolarmente utile. A parte dover poi ripulire la hall dal sangue e pezzi di membra umane.

Con calma e pazienza, provo a spiegargli che quella attuale è la notte tra il giorno x e il giorno x+1, mentre loro hanno prenotato una camera per la notte DOPO, tra x+1 e x+2, e che questa sarebbe stata disponibile dopo il check-out dei clienti attualmente a dormire. Il che significa dopo mezzogiorno.

Imprecano con il patetico inglese che mischiano nella loro lingua, ma hanno capito benissimo. Provano a inistere, ma li rimbalzo perchè siamo pieni.

Benchè la prenotazione sia non rimborsabile (e, anche se non lo fosse, sarebbe comunque in penale) c'è sempre la possibilità di una cancellazione gratuita, purchè avvenga entro un'ora. Per permettere, a chi sbaglia, di rimediare. Gliela faccio cancellare. Se ne vanno senza un grazie.

La settimana dopo mi capita la stessa cosa. Stavolta si presenta un nero rasta alto quanto Shaquille O'Neal e che esordisce in perfetto accento british. Quando gli faccio notare il problema si colpisce la fronte con la mano, una botta che a me avrebbe procurato una commozione celebrale. Si scusa dell'errore e che è stato profondamente stupido ma preso dal panico dal non trovare dove dormire a causa di un forte ritardo nel volo. Aiuto anche lui a cancellare senza penale, e dato che si era mostrato gentile e comprensivo, mi sono sbattutto un pò chiamando un albergo nelle vicinanze. Perchè, casualmente, Fabrizio mi aveva chiamato due ore prima informandomi che gli si era liberata una camera. Lo richiamo: l'aveva ancora.

Il sentirsi "Thank you, boy" come direbbero solo nella city, ripaga davvero tanto. Tantissimo. Anche se poi, nello stringermi la mano, mi ha devastato il metacarpo.


 

2. A questa stessa ora entrano due ragazzone americane con una quantità di abbigliamento appena al di sopra della soglia di attenzione da parte della buoncostume e le risate sguaiate di chi ha appena ingerito la produzione annuale di alcool di tutto il comprensorio di Montalcino.

-Oh, ecco il nostro uomo-

-No, sono solo il portiere-

-Ma sei tu quello che può aiutarci, vero?-

-Dipende dalla richiesta. Ma tenete conto che sono sposato, sono al lavoro e sono vecchio-

-Ahahah, che simpatico. Ma noi vogliamo qualcosa di buono-

-Tutti vogliono qualcosa di buono alle 2 del mattino-

Una di loro appoggia i gomiti sul bancone, posizione particolarmente dannosa al mio cuore, benchè mi sforzi di osservarla negli occhi. Maledettamente azzurri.

-Doe cappuccinisss!- (detto proprio così. Tutto il resto, ricordatelo, lo sto traducendo)

-Questo si può fare-

A cui segue un doppio "Yeah!", e i palmi delle loro mani che sbattono tra loro.

-Seguitemi al bar-

-Adoro il cappuccino, oggi ne ho bevuto uno buonissimo-

-A che ora?-

-Oh, saranno state l'una... dopo la pizza più buona del mondo (giuro, riporto tradotto così come lo ha detto). Voi italiani bevete sempre il cappuccino, vero?-

-A qualsiasi ora giorno e della notte!- (perchè distruggere i sogni della gente?)

Usare una macchina del caffè è la cosa più facile e piacevole del mondo. Davvero, è banale e stupendo al tempo stesso. Andrebbe messo come ora di studio a scuola, se non sei capace la bocciatura non basta: ti dovrebbero confinare in Kamchatka. A Novembre. In bermuda. E' una delle più belle e profonde. Mi piace, davvero, sganciare il portafiltro, sbatterlo a testa in giù nella cassettiera per svuotarlo, appoggiarlo nella macina dosatrice e tirare la levetta per farci scendere la polvere. E poi, mentre quel buonissimo e meraviglioso liquido bollente scende nella tazzina, montare il latte. Con entrambi i rumori assieme a mischiarsi nel timpano uditivo, il caffè che cola e il latte che cresce. Fischi, sbuffi, piccoli crepitii, tutti assieme appassionatamente a comporre il concerto di un rito sacro, macchina geniale creata da un popolo che sarebbe meraviglioso, se soltanto riscoprisse il piacere di gustarsi queste piccole gioie della vita, invece di avvelenarsi l'animo con le sciocchezze e le banalità tipo "E allora il PD?"

Ma ho un problema.

Afferro il bricco del latte, che noto presente sopra il banco del frigo e non dentro. Apro il coperchio.

Vengo assalito dall'ondata fetida di un caseificio accanto a una discarica.

Dentro, non posso fare a meno di buttarci l'occhio, pezzi di roba bianca che galleggiano.

Le ragazzone americane continuano a parlare tra loro, neanche cerco di ascoltarle con perniciosa curiosità, come mio solito. Sto maledicendo quelli delle colazioni che lasciano le cose con questa sciatteria.

Svuoto il bricco e lo ficco nel lavandino, inondandolo d'acqua. Sotto al banco del bar ne afferro uno pulito. Apro il frigo, speranzoso.

Aimè, è presente un solo cartone. Ed è latte di soia.

Ora, io sono felice che esista il latte di soia. Per i poverini che non riescono a digerire il latte animale, è importante avere un alimento che il loro corpo possa assorbire. E' assolutamente giusto. Ma per noi che il latte possiamo digerirlo, questa roba è imbevibile. Almeno, io non lo sopporto.

Ma nel frigo del bar ho solo questo. Confido tutto nelle loro papille gustative rintronate dall'alcool. Verso il latte voltato di spalle alle ragazze, in modo che non leggano il cartone, infilo il bricco nel vaporizzatore, giro la manopola e monto. Per quel che monta 'sta roba. Verso nelle tazze. Passo alle ragazze.

E al primo sorso, se ne escono fuori così:

-Mmmmhhhhh.... è così buono! Il miglior cappuccino di sempre! (dice proprio così: best cappuccino ever)

-Veramente?-

-Si, mai bevuto uno così buono-

-Delizioso. Ah, adoro l'Italia!-

E dopo avermi detto il numero di camera affinchè potessi addebitare, salgono su serene e felici.

 

3. Quasi (sottolineo il quesi) mi convinco che abbia ragione il padrone assoluto del governo italico:

Gli stranieri sono un problema.

Sono le 6.30.

Manca poco, pochissimo, al ritorno a casa. All'ingresso dentro le lenzuola di casa, al riposo mattutino, alla dormita giornaliera. Ma il portiere di notte è troppo instupidito dalla stanchezza, per riuscire a contare il tempo che manca all'arrivo della collega in turno di mattina. Va avanti per inerzia. Riscrivere le consegne. Stampare le prenotazioni. Inserirle sul gestionale. Si lavora in confusione, senza un filo logico, una continuità.

Entra questo tizio.

Alto due metri, secco allampanato, dall'età approssimativa di un paio di secoli. Che se gli chiedessi di parlarmi di moti di piazza e rivolte di popolo, non mi parlerebbe del '68, ma del 1848.

Gli piazzo il mio buongiorno, a cui non reagisce in alcun modo. Si guarda attorno, poi afferra una matita posata sul bancone. Pongo altre domande, da cui arriva un ostinato mutismo. Improvvisamente prende i fogli con le partenze del giorno e -orrore!- comincia a scriverci sopra! Cerco di riprendermele e costui inizia a urlarmi addosso.

In TEDESCO!

-Ok, va bene! Vuoi scrivere? Dai prendi questo e scrivi qui!- Gli mollo la lista delle partenze del giorno prima, quella di verifica e controllo, mentre mi riprendo, a forza, le altre, preziosissime. E il matto -perchè ormai tale ho compreso essere- inizia a scribacchiare roba a me sconosciuta in caratteri Fraktur, e continuando a parlare nel suo idioma roba tipo -Merkel und Adenauer! Kartoffen! Panzerschreck! Mannschaft!-

-Sisi, vabbene tutto, quel che ti pare, basta che scrivi il tuo compitino e ti levi 3 passi dai.... tutti io, i matti, li devo trovare. C'avete la calamita, che vi atttira qui dentro? Oh, bravo, ecco finito (gli faccio l'applauso e afferro il foglio), la mi figliola piccola scrive molto meglio di te. Ora che hai fatto, quella è la porta. Schnell!-

Schnell lo capisce. Urla ancora più forte. La tranvia al curvone di piazza Dalmazia è silenziosissima, a confronto. getta la matita sul bancone e se ne va, seguitando a sbraitare.

Solo ora mi accorgo che era arrivata l'Aida, delle colazioni. Che ha assitito a tutta la scena senza scomporsi. Come se non la riguardasse neanche. Sangue freddo balcanico che mi aiuterebbe. Perchè sono madido di sudore e sto tremando come una foglia sull'albero. In autunno.

-Ma che voleva?-

-Rompere il .....- mentre, gomma alla mano, cancello le assurdità teutoniche. Scripta volant, altrochè.

-Tutti da te arrivano-

-Si, ma ora li rimandiamo da Frau Angela e poi chiudiamo il Brennero-
 
E ride. Almeno lei riesce a prenderla con serenità.