Portiere d'albergo. Vorace lettore. Scrittore a tempo perso. Giocatore da tavolo. Nemico di un gatto. Depresso cronico. Attendo l'arrivo dei Vogon o, in subordine, il ritorno di Vladimir Ilic Ulianov.
giovedì 27 maggio 2021
domenica 23 maggio 2021
"I toscani hanno devastato questo paese" Piccola rubrica di storie toscane.
Parte terza.
Ugo il Grande
"Ciascun de la bella insegna porta
del gran barone il cui nome e 'l cui pregio
la festa di Tommaso riconforta
da esso ebbe milizia e privilegio"
Dante, Paradiso XVI 126-130
La Tuscia divenne, ai tempi degli imperatori Ottone (I, II e III) un territorio strategico. Bastava che il Marchese inviasse un pò di soldati sui passi appenninici, e qualsiasi esercito rimaneva bloccato dall'altra parte. Quindi agli imperatori occorreva un uomo di fiducia che permettesse il passaggio. Un "conductus" per accompagnare il "Theodisco" nel suo viaggio verso l'incoronazione a Roma.
Ugo rispondeva a queste caratteristiche. Sempre fedele all'Impero, il Marchese seguì gli imperatori Ottoniani (o Liudolfingi) sostenendoli ove necessario. Quando si trattò di aiutare lo stesso Impero, non esitò a manovrare il suo esercito di agguerriti toscani fino a Capua, per sostenere il principato longobardo alleato dell'Imperatore; dimostrando, se mai a quei tempi ce ne fosse stato bisogno, che la legione toscana, la temibile "tyrrhenia juventus", era una forza militare di prim'ordine. E lo stesso Ottone III lo volle al suo fianco durante l'incoronazione a San Pietro (996). Gli storici hanno trovato i vecchi diplomi imperiali dove si cita lo "strenuissimo marchese, nostro fedele dilettissimo" (lo so che ci trovate un paragone tra l'imperatore Palpatine e Darth Vader, razza di nerd che non siete altro!)
Forse l'unico momento di contrasto con l'imperatore avvenne nel 1001. Ottone III si trovava a Roma, quando le famiglie nobili della città, che volevano riprendere il controllo dell'elezione al soglio pontificio, fomentarono la popolazione. Ottone si trovò assediato dai romani nel suo palazzo sull'Aventino, proprio quando aveva scarsa protezione, e se la vide brutta. Per sua fortuna la "tyrrhenia juventus" si trovava poco distante, e piombò subito a Roma mettendola d'assedio. Ugo, prima di lanciare la sua milizia in un assalto che avrebbe certamente portato a un vero massacro, cominciò una trattativa per il rilascio dell'imperatore, e grazie alle sue buoni doti diplomatiche, riuscì nell'intento. Ebbene, questo all'imperatore non piacque affatto. Lui avrebbe voluto una presa e saccheggio dell'Urbe, anche a costo di essere ucciso lui stesso dai romani inferociti. E probabilmente anche la legione toscana non bramava che di assaltare Roma, metterla a sacco e fare bottino. Ma andiamo avanti.
Il marchesato di Ugo fu uno dei più fulgidi, nella storia della Tuscia. Mise un freno alla forza dei signori terrieri locali (gli Aldobrandeschi, i Gherardeschi e i Guidingi -poi conti Guidi- su tutti) e riuscì a sistemare le beghe tra le città, rendendo il suo territorio particolarmente pacificato. Poche gabelle (cioè poche tasse) e un'attenta gestione della spesa pubblica rese la Tuscia benestante -per gli standard dell'epoca, ovviamente- e perciò lui profondamente amato. Un "gran barone", per usare le parole dell'Alighieri che lo mette, e non poteva essere altrimenti, in Paradiso. Secondo la leggenda, lo stesso Ugo amava girare a cavallo per le campagne da solo, senza scorta, e chiedere alle persone che incontrava cosa pensassero del Marchese. A quei tempi, non esistendo i social, solo pochi nobili conoscevano la vera identità, quindi nessun contadino o mercante immaginava di trovarselo di fronte. Perciò parlavano liberamente, ed erano sempre giudizi enormemente positivi. Al che il nostro Ugo si lisciava i baffi soddisfatto. Almeno, questa è la leggenda.
C'è un'altra leggenda, su Ugo. Benchè non si conosca precisamente la sua data di nascita, presumibilmente il 950-51, il padre Uberto venne esiliato dalla Tuscia per i classici, soliti contrasti con l'autorità imperiale, e ciò accadde proprio quando la moglie Willa era incinta. Le solite malelingue misero in circolo la voce che la moglie Willa fosse rimasta incinta DOPO la partenza di Uberto, al che la leggenda narra che, al ritorno del marchese a Lucca dopo 3 anni, il piccolo venne mandato nella sala consiliare con tutti i membri presenti. E benchè Ugo non avesse mai visto il padre, lui sarebbe andato dritto tra le sue braccia. Presumibilmente anche dicendo "Babbo, babbino", da bravo toscano. In realtà il padre venne esiliato nel 960, quindi il piccolo Ugo doveva avere già tra gli 8 e 10 anni.
Ugo comunque è fedele all'impero e alla Toscana, tant'è che venderà i possedimenti di famiglia nella Lotaringia -ma c'è chi dice il Magdeburgo- per concentrarsi sulla Tuscia. Rinuncerà a guidare anche la contea umbra, benchè anche lì le solite malelingue si affannino a dire che sia stato l'imperatore a fargli dei dispetti perchè invidoso dell'incredibile prestigio accumulato dal Marchese. In realtà anche lui, come Adalberto II, era uno che non voleva lavorare troppo preferendo godersi la vita, in particolare nei piaceri della carne. Anche qui c'è una leggenda: mentre il Marchese si godeva una battuta di caccia nei boschi, gli sarebbe apparsa la Madonna che lo avrebbe ripreso sul suo libertinaggio. Al chè Ugo si sarebbe pentito, dedicato solo alla legittima consorte e finanziato numerosi conventi, in particolare la Badia fiorentina, che peraltro venne fondata dalla madre Willa. Perchè Ugo, a un certo punto, pare che andasse anche a Firenze, segno anche dell'importanza che stava acquisendo questa città. In realtà sembra fosse solo una voce messa ad arte dai fiorentini, perchè dalle poche fonti arrivate fino a noi da quei lontani tempi, Ugo viene dato un pò ovunque in Toscana, in "Lombardia" e anche in "Germania", presso la corte imperiale. Ma a Firenze no.
Poco dopo la liberazione di Ottone III dalla plebaglia romana, Ugo torna nella sua Tuscia e si ferma a Pistoia. Solo che si sente male e, mancando a quei tempi i reparti di pronto soccorso e terapia intensiva, muore dopo pochi giorni. E' il 1001, dovrebbe avere sui 50 anni. E qui sorge l'ultima leggenda su questo straordinario personaggio: perchè i fiorentini intendevano avere il Gran Barone tutto per loro, già a quei tempi volevano prevaricare gli altri toscani, quindi prendono uno che gli somiglia, e lo mettono nel letto. I nobili pistoiesi vanno a trovarlo al capezzale, e questo dice di stare meglio. Poi il giorno dopo si alza, declama che sta bene e di dover lasciare la città per riprendere i suoi uffici di rettore della Marca. E a quel punto i fiorentini mettono il cadavere del povero Ugo su un cavallo, lo legano, gli si piazzano due cavalieri sui lati per scortarlo ma in realtà tenerlo fermo, e lo fanno passare tra le ali di folla dei pistoiesi che lo acclamano credendolo ancora vivo. Lasciata la città, vanno di corsa a Firenze per seppellirlo nella Badia fiorentina, dove riposa tutt'ora. Ovviamente è una leggenda, molto più probabile che i fiorentini siano scappati alla chetichella col cadavere fresco. Difficile pensare che i pistoiesi avrebbero ceduto all'onore di avere Ugo sepolto nella loro città. A favore di Firenze, poi!
Sono stato a trovarlo, un paio di settimane fa. Alcuni secoli dopo il decesso l'artista Mino da Fiesole ne realizzò un bel monumento funerario, ma il Gran Barone è ancora lì dal 1001. La foto però l'ho presa da wikipedia perchè non potevo usare il flash in chiesa. E poi perchè rovinare la bella atmosfera oscura che vi regna?
Ma per far capire bene quanto deve essere stato importante la figura di Ugo per i toscani di quei tempi, basterà solo accennare che lo scudo araldico del Barone era formato da 7 righe di colori alternati bianco e rosso. Colori che vennero subito adottati da molte città toscane, pur con simboli loro, e sono tutt'oggi i colori ufficiali della regione.
Ugo è vivo, e lotta insieme a noi.
sabato 22 maggio 2021
-Le invio la mail con il riepilogo di tutte le informazioni che le ho appena dato, così poi decide con calma. In questo periodo facciamo una procedura diversa, più elastica. Nel caso le cose dovessero tornare a peggiorare, le restituiremo il bonifico.
-Speriamo davvero di no! Aspetto la sua mail. E non avevo mai trovato una persona così gentile, grazie.
Emozioni da rientro.
mercoledì 19 maggio 2021
"I toscani hanno devastato questo paese" Piccola rubrica di storie toscane.
Parte seconda.
Adalberto il Ricco e la "pornocrazia"
Nella parte prima ho parlato di Bonifacio II, Marchese della Tuscia su nomina imperiale. Dopo i buoni risultati nella lotta ai pirati saraceni, Bonifacio si schiera con l'Imperatore Ludovico il Pio nella lotta di questi col figlio Lotario I e altri parenti-serpenti aspiranti a governare pezzi dell'Impero del fu Carlo Magno. Ludovico si invaghisce di una bella e giovane nobile bavara, Giuditta, e la sposa contro il parere dei figli di primo letto (Ermengarda era morta da pochi mesi, lì si faceva in fretta a trovarsi nuove consorti, specialmente se le novelle spose erano molto giovani). Ovviamente la Giuditta si darà da fare affinchè i suoi figli abbiano la loro fetta d'Impero, e Lotario, che è figlio di Ermengarda, la fa esiliare in un monastero a Tortona. Ma a quel punto Bonifacio II varca gli appennini, la libera e la riconsegna a un felicissimo Ludovico (pare mettesse parecchio impegno, nei suoi doveri coniugali. Pio si, ma fino a un certo punto). Ma Lotario se la lega al dito e fa cacciare Bonifacio dalla Marca di Tuscia, spedendolo a fare l'anonimo messo imperiale a Barcellona (che a quei tempi non era certo la vivace città odierna).
Il figlio Adalberto riesce comunque a rimanere a Lucca e farsi nominare Marchese. Ora, la Toscana di quei tempi era un luogo fortemente rurale, dove la campagna è la vera fonte di ricchezza e le città più grandi, Pisa e Lucca, arrivano appena ai 10.000 abitanti.
A differenza di tante altre zone della penisola, la Tuscia ha un'identità molto ben definita, sia territorialmente che culturalmente. Per dire: la Lombardia, in quei lontani anni, viene usata per indicare tutta la regione padana, da Torino fino a Verona, e le identità proprie di queste regioni nasceranno molti secoli dopo. La Calabria, addirittura, era l'odierna Puglia, mentre la vera Calabria si chiamava Bruzia. Tutto il meridione della penisola è frammentato con ducati longobardi, possedimenti bizantini e piccoli insediamenti saraceni, che poi si prendono la Sicilia.
La Tuscia invece rappresenta un caso a parte. Delimitata a nord da un arco appenninico che ne delimita fisicamente il confine, ha proprio un suo territorio abbastanza ben deliniato, a parte alcune eccezioni. Sostanzialmente, è ancora la vecchia provincia romana Tuscia et Umbria creata da Diocleziano. Si sfalda quando arrivano i longobardi, che creano il ducato di Spoleto, che include parte dell'Umbria meridionale e la Valeria (L'Abruzzo), mentre la Tuscia vera e propria comprende anche tutta la parte dell'attuale Lazio settentrionale fino a Roma. Al tempo dei longobardi, la Tuscia ha due ducati, Lucca e Chiusi. Tutto il resto sono gastaldati decisamente modesti.
Quando Carlo Magno assedia Pavia e si prepara a prendersi il regno di Desiderio, incontra il papa Adriano I, il quale gli ricorda un accordo fatto con il padre Pipino: voi franchi conquistate tutto, poi a me, Papa di Santa Romana Chiesa, date la parte sotto gli appennini, mentre voi ve ne state a nord, dalla Lombardia in su.
Carlo Magno non ci pensa proprio a fare una campagna militare così impegnativa per poi dare tutto il territorio al papa, tantopiù che se i franchi provano tanto tanto ad affacciarsi un pò più a sud, longobardi e bizantini mettono da parte le loro diatribe per allearsi. No, grazie. Ma ovviamente non lo dice in maniera diretta. Fa orecchie da mercante, ma di mollare per intero la Tuscia proprio no. Si limita a "tagliare" un pò, più o meno una linea che va dalla val Tiberina fino a Grosseto. Di sotto se lo può tenere il papa, di sopra è parte dell'Impero. Grosso modo, è lo stesso attuale confine della regione Toscana. Adriano I ci rimane male, ovviamente. I papi, per trovare dei politici che eseguissero indefessi i loro ordini, hanno dovuto aspettare la DC.
Ma torniamo ad Adalberto. Il Marchese conosce la situazione geografica, e ne approfitta per decidere la politica imperiale. Quando dalla "Germania" devono scendere sotto gli appennini, che sia per farsi incoronare imperatore dal papa, oppure deporre lo stesso dal seggio Vaticano e metterci un altro più accomodante, o ancora per combattere a sud (ducati longobardi, possedimenti bizantini, saraceni, non c'è che l'imbarazzo della scelta) lui può schierare il suo esercito sui passi appenninici e bloccare l'accesso. Nasce quindi la figura del conductus, colui che, di buon grado, permette all'Imperatore di attraversare la Tuscia per arrivare a Roma. Non di rado lo stesso Marchese accompagna il futuro Imperatore verso l'incontro con sua Santità.
Tanto per fare un esempio, quando Arnolfo di Carinzia deve andare a Roma per farsi consacrare Imperatore, entra in conflitto proprio con Adalberto II. Che manda i suoi soldati a chiudere i passi appenninici, in una sorta di Termopili toscane. Arnolfo quindi deve rimanersene scornato a Pavia. Poi faranno pace, poi torneranno in contrasto, e bla bla bla, è tutto così, manco fosse una fiction d'infima categoria. Nel mezzo ci sono anche altri personaggi (Beregaro I, Lamberto di Spoleto, papi vari), ma lasciamo perdere. Quel che è importante è che avrebbe definitivamente isolato le ingerenze imperiali e lombarde dalla Toscana, rendendola, per i trenta anni che lui la guidò, una specie di principato indipendente. Passiamo però alla parte piccante, che tanto lo so, che non aspettate altro.
Adalberto II è detto il Ricco. Ha la sua residenza ducale a Lucca, e le cronache arrivate fino a noi la danno particolarmente fastosa. La sua forza è tale che tiene sotto controllo i signori della parte sud-orientale della Tuscia (Aldobrandeschi e Berardenghi) mentre le città non sono ancora abbastanza forti da emanciparsi in comune, come avverrà successivamente. E' una Toscana unita e non ancora litigiosa, benchè già Pisa e Lucca non facciano mistero di fare le bizze sui castelli di confine. Ma per il resto comanda il Marchese-Duca. Che verso la fine del IX secolo aveva sposato Berta, vedova del conte di Arles e discendente diretta di Carlo Magno. Ebbene, la Berta, benchè già madre di 4 figli di primo letto -ne avrebbe avuti altri due da Adalberto- pare che fosse una campionessa di pratiche amorose. Altrettanto lo era la figlia Ermengarda, che sposò il duca d'Ivrea, ed esperta si racconta fosse anche Marozia, figlia di una nobile famiglia romana, che sposò in seconde nozze il nuovo Marchese di Toscana Guido, successore di Adalberto II. Queste 3 donne, per almeno un trentennio, comandarono la politica dell'Italia centrale e, in definitiva, pure dell'Italia tutta e dell'Impero, grazie alle loro attività sessuali. In pratica ordinando ai mariti di muovere gli eserciti dove ritenevano fosse necessario. In cambio della loro capacità nel talamo nuziale. E i maschi eseguivano. Insomma, una Toscana a luci rosse.
Tanto per dire: quando Marozia entra in contrasto politicamente con Pietro marchese di Spoleto e papa Giovanni X, la nobildonna istiga Guido a occupare Roma con l'esercito toscano, catturare i due antagonisti e ammazzarli. Il marchese di Spoleto viene brutalmente sgozzato sotto lo sguardo del papa, il quale finisce in cella, ma poi ci ripensano e ammazzano anche lui. Il nuovo papa? Il figlio di primo letto di Marozia, Giovanni XI, messo lì ad appena 21 anni. Ah, la meritocrazia (si nota il sarcasmo?)
Teniamo comunque conto che queste sono dicerie riportate dai cronisti dell'epoca, le uniche fonti da cui gli storici attingono. E questi cronisti erano tutti maschi. Quindi sono da prendere con il beneficio del dubbio, perchè ci sono buone probabilità che fossero dettate da una certa misoginia. Però in quel mondo era facile che queste donne influenzassero i consorti con le loro opinioni. Senza necessariamente essere delle assatanate sessuali.
Insomma, noi toscani, benchè guidati da malgravi, conti e gastaldi franchi, facevamo il buono e il cattivo tempo in quella penisola colma di litigi tra papi e imperatori, e queste milizie pare fossero davvero tremende e agguerrite. A questo punto devo citare il nome, riportato da vari storici, di questa soldataglia. Un nome che deriva dall'antico nominativo che davano i greci degli etruschi (Tirreni) e dalla giovane età di questi soldati. Ora, io sono fiorentino di nascita e tifo calcistico, e mi scoccia, ma mi vedo costretto a scrivere questo nome a causa della mia passione per la storia: il nome era "tyrrhena juventus".
Uomini capaci di sgozzare un conte davanti agli occhi di un papa. Che bei tipini, eh?
venerdì 14 maggio 2021
"I toscani hanno devastato questo paese" Piccola rubrica di storie toscane.
Parte prima.
Bonifacio l'Africano.
Il professor Barbero ha fatto delle bellissime lezioni su Carlo Magno, fondatore del Sacro Impero Romano, e delle sue guerre, in particolare quelle intraprese per arrivare alla conquista del regno longobardo.
Io, nel mio piccolo, ho pensato di andare un pò avanti.
Carlo Magno muore nell'814. Poco prima del decesso aveva nominato Rex Longobardorum il nipote Bernardo, che come tale doveva obbedienza al nuovo imperatore, Ludovico "il Pio". Ma anche se era molto osservante della religione, come dice il suo soprannome, Ludovico non è proprio un mostro di amabilità: entra in contrasto con Bernardo, così lo depone e lo fa accecare. Poi sul trono di Pavia ci metterà il figlio Lotario, che però gli muoverà guerra. Ah, la famiglia.
A sud, passati gli appennini, c'è la Tuscia, la parte più meridionale dell'Impero. Alla conquista del regno longobardo, i franchi cominciano a mandare i propri uomini di fiducia a governare i comitates. Tra questi ci sono i bavari, una popolazione germanica con cui all'inizio si scontrano di brutto salvo poi riappacificarsi. Forse perchè i bavari appaiono molto capaci, e quindi i franchi decidono di tenerseli buoni. Così tanto che gli elementi più importanti sono mandati a fare duchi o conti per tutto l'impero.
Così, dalla Bavaria, arriva questo nobile, Bonifacio, che in qualità di Malgravio (questo il titolo) si installa a Lucca, a quei tempi città della Tuscia popolosa situata in un punto strategico di passaggio e poco distate dal porto principale, Pisa, e si comporta così bene che passa il titolo al figlio, Bonifacio II.
Tutto l'alto medioevo era caratterizzato da chi dovesse comandare veramente, nei territori dell'impero. Almeno ogni 2-3 anni l'imperatore doveva "discendere" in Italia a farsi la sua brava campagna militare sia contro colui che deteneva il potere a Pavia e sia contro il papa che, anche se privo di esercito, era capace di portare notevoli scocciature. Questi germani ce l'hanno sempre avuta la mania di venire in Italia, che abbiano le armi o meno, e per secoli fanno anda e rianda per i passi alpini. Tuttavia, in quei primi decenni del IX secolo, c'era anche il grave problema dei pirati saraceni. Che ogni tanto assaltavano le coste per saccheggiare e fare schiavi. Così l'imperatore dà l'incarico a Bonifacio II: vai e distruggi!
Bonifacio s'impegna: allestisce la flotta e recluta i toscani. Probabilmente è anche un pò timoroso, in questa impresa, perchè Ludovico il Pio sembra proprio il tipo che punisce severamente i fallimenti. Tuttavia l'imperatore gli fornisce carta bianca, quindi è probabile che Bonifacio si senta un vero condottiero e che il tutto assuma anche i toni di una "crociata ante litteram". Dopotutto vanno a combattere i pirati islamici, quindi la spedizione assume un doppio significato, ed è presumibile pensare che i guerrieri imbarcati fossero veramente motivati (leggi anche: assetati di sangue) per difendere le proprie coste e fare un mazzo tanto ai seguaci di Maometto, che da poco meno di un secolo avevano conquistato mezzo mondo conosciuto.
Quindi salpano da Pisa pronti alla pugna, come direbbero su Feudalesimo & Libertà. Girellano per un pò attorno alla Corsica e la Sardegna senza trovare niente, poi finalmente scoprono che i pirati, che colpiscono anche lì, hanno la loro base in Tunisia. Così si dirigono dritti e decisi laggiù, sbarcano dove stava la vecchia Cartagine e devastano tutto. Tornano alla base, e la Tuscia prima, e tutto l'Impero poi, li acclama come vittoriosi. E visto che hanno combattuto in quei territori, il comandante viene pure soprannominato l'Africano, come lo Scipione romano che vinse Annibale il cartaginese.
E' una campagna militare poco conosciuta, rispetto alle tante battaglie terrestri di quell'epoca, ma che a quei tempi rappresentò molto. Lo stretto di mare che separa Corsica e Sardegna venne intitolato proprio al comandante della spedizione (le "bocche di Bonifacio") e la stessa cittadina corsa che si affaccia sullo stretto si chiama Bonifacio, anche se in questo caso sembra in onore di un omonimo. Talmente esaltante è questa vittoria che i pisani ci prendon gusto e cominciano una tradizione marinara che durerà parecchio, e lo stesso Malgravio viene anche nominato Tutor Corsicae. D'altra parte i toscani guidavano la Corsica già ai tempi dei longobardi.
Questa piccola storia l'ho trovata in un bellissimo volume sulla storia della Tuscia che riporta la fonte orignale, gli Annales regni Francorum, che poi sono gli stessi da cui il professor Barbero ha tratto le informazioni su Carlo Magno.
Tuttavia ci sono anche altre fonti. I pisani, ad esempio, cominciano a rivendicare questa spedizione vittoriosa come tutta loro, essendo Pisa il porto di partenza e, presumibilmente, pisani sono la maggior parte dei marinai, tanto che cominciano pure a riferirsi al comandante come "Bonifazio il pisano". Gli danno piena cittadinanza quindi, anche gelosi del fatto che il Malgravio risiedeva a Lucca. Cominciavano già a farsi i dispettucci tra loro, questi toscanacci.
Mille anni dopo emerge però un documento arabo che parla della vicenda dal punto di vista opposto. E gli arabi descrivono gli eventi come vittoriosi per loro: trovatisi improvvisamente invasi da questo gruppo di scalmanati toscani guidati da conti bavari, i saraceni si sarebbero riuniti attorno al loro comandante il quale, sguainata la scimitarra, avrebbe urlato il classico "Allah akbar!" e guidato il contrattacco ributtando a mare gli infedeli. E allora, chi ha ragione?
Le fonti riportano che comunque, dopo la spedizione, le incursioni saracene non si ripresentarono per qualche anno, quindi è presumibile che Bonifacio e i suoi siano riusciti a distruggere navi e infrastrutture portuali in Tunisia per poi reimbarcarsi e togliere il disturbo prima che i locali potessero riorganizzarsi. Comunque i saraceni si sarebbero rifatti: nell'846 avrebbero pure attaccato Roma e saccheggiato San Pietro. Ma d'altra parte il papato continuava a non avere eserciti ("Quante divisioni ha, il papa?" cit.) confidando nella protezione imperiale. Ma questa era ben poca cosa.
Il problema è che, in quegli anni, mentre saraceni, bizantini, vichinghi e ungari imperversavano sui confini, i franchi si davano allegramente alle guerre civili. Prima Lotario contro il padre Ludovico, poi Lotario in un tutti contro tutti con fratello, fratellastro e cugino, tanto che a Fontenoy (841) se le danno di santa ragione e quando ne hanno abbastanza si dividono l'Impero in varie parti (trattato di Verdun) con quella orientale che diventerà la Germania e quella occidentale la Francia. E tanti saluti all'Impero creato da nonno Carlo.
Bonifacio II però dichiara la sua indefessa fedeltà a Ludovico, e quindi Lotario, quando eredita il trono, lo butta fuori dalla Tuscia. Ma il titolo di Malgravio passa prima al figlio Adalberto, e poi al nipote Adalberto II. Che sarà detto "il ricco".
Di costui vi parlo la prossima volta.
lunedì 10 maggio 2021
Ho questo ricordo della Gaia, da piccola.
Uno splendido pomeriggio solare primaverile, quando abitavamo ancora nell'altra casa, usciamo tutti e quattro. Io spingo il passeggino con sopra la piccola, mentre la grande è in piedi sulla pedana. Quindi spingo doppio, ma il percorso, almeno per il momento, è breve. Dopo ci sarà da fare la salita dello Stibbert, necessaria per arrivare al giardino creato lassù da persone perfide e colme di rancore verso l'umanità, ma prima della fatica che mi attende -perchè andare in palestra quando hai figli?- c'è la pausa in gelateria. Proprio lì, accanto casa.
Dal passeggino, la Gaia ci osserva mentre noi altri 3 gustiamo il gelato. Dalle nostre espressioni sembra capire che è una cosa buona. D'altra parte è ancora alle pappette e le sue conoscenze alimentari sono limitate.
Decidiamo che è il momento di farle provare qualcosa di nuovo. Dato che io ho preso il gelato in bicchierino, ne raccolgo un pò nel cucchiaino e lo avvicino alla sua boccuccia.
Lo guarda sospettosa. Poi decide di fidarsi di quell'essere grande e grosso che sembra avere a che fare con la mamma: spalanca le fauci che si richiudono sul cucchiaino.
Lo zucchero che entra a contatto con le papille gustative.
Il potere del glucosio nella crema che fluisce direttamente nel suo cervellino.
Due occhi che si illuminano. Letteralmente.
"Bah-bah-bah-bah!" Che nella sua lingua significa "Ancora-ancora-ancora-ancora!!!"
Quegli occhi che si illuminano sono qualcosa che ho ancora davanti a me. Ogni giorno. Come se fosse appena successo.
Autunno 2019. Prima che arrivasse questo malefico virus e ancora lavoravamo.
Arrivano due ragazze cinesi giovani. E parecchio carine, anche se sul momento noto ben altro.
Hanno prenotato una camera doppia, e una di loro sta spingendo un passeggino. Con dentro il suo occupante, un bimbetto di appena un anno.
Passo oltre al fatto che abbiano un bambino e non ci avessero avvertiti, come fanno tanti clienti. "Tanto sono solo bambini" è il ragionamento che fanno in tanti, troppi. Provo a chiedere, a quella che spinge il passeggino, se vuole la culla, ma sembra non capire: o non parla l'inglese o ha paura di pagare un supplemento (che comunque non gli applicherei). Così decido di assegnargli direttamente la camera con il letto matrimoniale, il bambino dormirà tra loro due.
Sono piuttosto seriose, corrucciate. Tanti turisti sono così, sembra stiano scontando una penitenza, a viaggiare e soggiornare in albergo. Difatti non sembrano affatto interessate nè al mio sorriso nè alla spiegazione della città. Prendono la piantina prima ancora che abbia il tempo di aprirla. E vabbè, pazienza, dopo così tanti anni di onesto portierato alberghiero non ci faccio più neanche caso. Gli chiedo i documenti e comincio la registrazione.
Ma il bimbo osserva curioso le caramelle di cortesia, che teniamo sul bancone a disposizione della clientela. Sono glucosio allo stato purissimo, ma vanno via che è una meraviglia. E le due ragazze cinesi ne approfittano subito.
Ora, io non gli avrei certo dato una caramella, a mia figlia di ancora un anno. La giovane madre invece si. La scarta e la avvicina alla bocca del bimbo. Il quale, sulle prime, osserva dubbioso. Poi apre la bocca e la prende.
Il tempo di contare qualche secondo, un pò più di un gelato, ma anche per lui lo zucchero entra in circolo. E gli occhi si illuminano come quelli della Gaia di tanti anni prima, in questo i bambini sono qualcosa di stupefacente, nella loro similarità. Hanno tutti quell'espressione di sorpresa gioiosa, di scoperta di una cosa bella della vita come la dolcezza: quella data dalla molecola del saccarosio.
Il bimbo si agita sul passeggino e bah-bah-bah-bah, chiede altre caramelle, indicandole.
Io rido, guardo il piccolo cinese che mi fa troppa simpatia, e mi viene spontaneo dirgli, in italiano un pò toscanizzato "Ti garba lo zucchero, eh? E' bono! Yum!" con il dito sulla guancia come facciamo noi della penisola; e allora anche la madre e l'amica ridono. Non capiscono l'italiano, ma la mia teatralità si. Finalmente un pò di serenità, dopo quei visi scuri e tetri.
Alla fine erano persone simpatiche. Entrando e uscendo dall'albergo mi sorridevano sempre, con il bimbo che indicava il cestino delle caramelle e la mamma che gliene prendeva sempre una, sia all'andata che al ritorno. E lui mi guarda con quell'espressione di felicità.
Mi piace pensare che si ricordi ancora di me. Che ogni volta che assapora qualcosa di dolce gli verranno in mente l'ingresso dell'albergo, con il bancone e il portiere che ci sta dietro. Esattamente come la Gaia ricorda ancora il gazebo fuori dalla gelateria.
E far parte della gioia di un bambino è una cosa bellissima.
venerdì 7 maggio 2021
I miei genitori sono nati a Cetica, un piccolo paesello sul Pratomagno; uno di quei posti che ti appaiono all'improvviso svoltando da un costone di roccia e uno pensa "ma chi sono i matti che abitano quassù?". E invece ci abitano. Da secoli. Era addirittura feudo dei conti Guidi, quel tipo di signorotti che rivolgevano parole sprezzanti a Firenze salvo poi, quando dal comune del Giglio inviavano le loro milizie, andargli incontro a braccia aperte e con termini tipo "amici fiorentini, come sono felice di vedervi! Sono sempre stato un vostro fedele vassallo!"
Ma i non nobili abitanti erano, e sono tutt'ora, persone semplici. Vivevano davvero di poco. Coltivavano la terra, raccattavano castagne, abbruciacchiavano la legna per farne il carbone: sacchi pesanti da inviare in città, che usavano per riscaldarsi perchè anche lì, a quei tempi, non avevano ancora il gas ma le stufette.
Ma d'inverno questi lavori non si facevano. E quindi i "ceticatti" si spostavano. Andavano a fare i "pinottolai". In Maremma. Quella zona della Toscana definita con parole non splendide perchè, fino al secondo dopoguerra, vivere lì significava quasi certamente la malaria. E le zanzare sono no-mask, loro la mascherina non se la mettono.
In Maremma però ci sono anche tanti, tantissimi pini. Anni addietro molto più di oggi, perchè col tempo malattie e incendi -dolosi, spesso- hanno ridotto la quantità di piante. Una volta erano tanti veramente. E i pini producono i pinoli, dei semi buonissimi e usati in ambito culinario.
Il problema è che il pino è una pianta decisamente alta. Che va su dritta sparata per parecchi metri. E le pigne se ne stanno tutte in cima, per rimirare bene dall'alto. Gusci sdegnosi che sembrano proprio dirci "Vieni qui, se hai coraggio".
Oggi è facile: abbiamo macchinari che scuotono la pianta e fanno venire giù le altezzose pigne. Ma una volta non era così. Bisognava arrampicarcisi, sulla pianta. Sfidarla e salire su, lentamente, con accortezza su dove si piazzavano i piedi. Poi, quando si era in alto, mettersi nella giusta posizione e, con un lungo rampino che si portava legato alla schiena, agganciare i rami lontano e scuoterli per far cadere le pigne.
In tanti sono rimasti paralizzati, o morti, cadendo da quelle altezze.
Un lavoro tremendo, faticoso, stressante. E mortale.
Oggi non è più così, e siamo grati del cambiamento. Ovviamente i pericoli non sono finiti del tutto. Anche le macchine, come la forza di gravità, possono essere fatali, come hanno dimostrato casi recenti. Ma almeno in questo campo hanno cambiato bene.