Alle 5
del mattino, rientra in albergo un indiano. Il classico bramino, casta
immensamente superiore che tratta il resto del mondo come robetta
insignificante. Io poi, che sono occidentale, sono poco più di un’intoccabile.
Senza
dire un buonasera o altro cenno di saluto, che a me lavoratore notturno e pure
di etnia diversa è assolutamente negato, mi riferisce soltanto di preparare il
conto perché lui e il suo collega partiranno a brevissimo (“very short time”,
dice proprio così).
Prendo
atto, lo saluto -non arriva nessuna risposta- e stampo il pro forma del conto.
Lo piazzo sul bancone e torno alle mie faccende notturne, in attesa che costoro
si palesino con i bagagli a pagare e richiedere il taxi per l’aeroporto. Dato
che vado nel retro ad archiviare le classiche tonnellate di pratiche, metto sul
bancone il campanellino, che presumo sarà furiosamente suonato quando scenderanno.
Invece
non succede niente.
Un’ora dopo,
mentre attendo che arrivino i miei colleghi a cambiarsi per prendere il loro
servizio mattutino e permettermi di andare a dormire, rientra in albergo il suo
collega. Che evidentemente non era in camera. E si porta dietro 3 amici.
Si
mettono al bar, chiaramente chiuso e con le luci spente. So già cosa mi
aspetta. Comincio a contare mentalmente ma non arrivo a 3 che sento come un
fischio.
“Ehi, my
friend!”
Quando
hanno bisogno, diventiamo subito “amici”.
Mi
avvicino e lui mi porge la mano stringendo con una forza che non lascia scampo
al metacarpo.
“Io e i
miei amici vorremmo bere qualcosa”
“Ehm… il
bar è chiuso”
“Proprio
non ci può servire niente?”
“Mi
spiace, devo stare alla reception”
“Allora
facciamo così: questa è la chiave della camera, di sopra ho una bottiglia di
whisky. Vada su a prendermela”
“…..”
“Sul tavolino
ho una bottiglia di Blu Label, la prende e me la porta qui”
“Ehrrr… è
la sua camera, deve farlo lei”
“Dai, vai
su a prender…”
“Devo
stare alla reception”
Mi svincolo.
In quel momento arriva Er Libanese (il vero nome è Matteo, io elargisco
soprannomi a profusione) a cui lui pone la stessa richiesta e ottiene la stessa
risposta. E’ camera tua? Vai su a prenderti la tua bottiglia.
Sconsolato,
e probabilmente incacchiato con tutti gli italiani dai tempi dei marò, l’indiano
sale su e scende dopo poco con la sua bottiglia. Chiede dei bicchieri e, a quel
punto, glieli diamo. Non ci mettiamo a fare il bar, ma 4 bicchieri non si
negano a nessuno.
A quel
punto, dalla camera, arriva la chiamata dell’indiano che era rientrato alle 5.
Che dal letto ha visto il suo amico arrivare, prendere la bottiglia e uscire
nuovamente.
“Il mio
collega è giù?”
“Si, con
degli amici”
“Non deve
bere”
“Non
possiamo mica proibirglielo”
Dopo un po'
scende. In canotta e mutande.
Assisto a
questa scena surreale dove due indiani discutono, nella loro lingua e con
abbigliamenti così diversi, del mettersi a bere whisky alle 6.45 del mattino,
prima di fare i bagagli e andare all’aeroporto. Fino a che quello in mutande
non se ne torna su con un’evidente furia rabbiosa che non deve aver avuto
precedenti dal tentativo d’invasione dell’India da parte di Alessandro il Grande.
L’altro, finalmente
contento, versa il whisky ai suoi amici e beve.
Non so
com’è andata a finire, ma secondo me, sull’aereo, è scoppiata la guerra civile
indiana.