Non voglio fare la vittima nell'affermare che il nostro lavoro di portieri d'albergo sia più a rischio di tanti altri. Sicuramente meno di medici e infermieri, e uguale a chi lavora nei negozi, nei ristoranti, nei taxi. Noi che lavoriamo al pubblico non possiamo assolutamente sapere se colui a cui abbiamo appena stretto la mano e ci saluta sorridente, dopo un soggiorno a Firenze, abbia nel suo organismo la peste bubbonica o semplicemente non si sia lavato le mani dopo essere stato alla toilette. Quando possibile, si corre in bagno a lavarsele, ma non possiamo fare a meno di toccare il bancone, la tastiera del computer, quella del pos e la cornetta del telefono, che teniamo vicino alla bocca.
E non mi va neanche di parlare delle innumerevoli cancellazioni che stiamo ricevendo in questi giorni.
La vita va avanti. Ho bisogno di parlare di cose belle, felici, rilassanti. Dimenticare lo stress e piccole delusioni come l'annullamento dell'incontro che avrebbe dovuto avere luogo in settimana con Amelie Nothomb, una delle mie scrittrici preferite.
Domenica ero in turno di mattina. Avrei voglia di una scusa per spendere una quantità esorbitante di soldi in qualcosa. Mi arriva tramite mia figlia, che ha bisogno di un libro da leggere, consigliato a scuola.
Il libro ce l'ho, letto quando avevo proprio la sua età, ma sepolto da qualche parte nella casa di montagna, assieme a centinaia di altri volumi. Quindi ho la scusa per andare in libreria. A fine turno timbro, saluto il collega e mi dirigo, rapido come uno Shinkansen, in un luogo che reputo quasi sempre vuoto. Soprattutto la domenica pomeriggio.
Invece c'è un caos pazzesco di gente tirata a lucido come neanche agli incontri di meetic, strisce color bianco/rosso a delimitare la sala principale del negozio, un tipo di colore grande quanto un armadio con badge di riconoscimento e occhiale scuro modello man in black a impedire l'accesso in zona rossa.
Chiedo, a due tipe che avranno la mia età ma abbigliate come ragazzine al prediciottesimo, il perchè di tutto questo assembramento, e mi fissano quasi scandalizzate dalla mia ignoranza: Piero Pelù presenta il suo ultimo album.
Come diceva quella battuta: non ce l'ho con Dio ma con il suo fan club. Lo stesso potevo dire io domenica. Urla e cori da stadio assordanti. E alcuni reparti non accessibili. Mi è sempre piaciuta la sua musica, ma ormai ho quell'età che mi rende insopportabile ogni tipo di assembramento. E non per il virus, sono contento che la gente se ne freghi e si ritrovi in massa. Semplicemente, a me piace il silenzio. E però, mentre cerco il libro per la Camilla e guardo altri volumi per me, Piero dice anche cose interessantissime e intelligenti, in particolare su come, quando lui era giovane, la Firenze degli anni '80 fosse una città dove il rock visse un momento felice, quasi magico. Litfiba. Diaframma. Dennis and the Jets. E' vero. Me lo ricordo. Ero ancora troppo giovane per quelle notti fiorentini di rinascimento rock, ma la musica arrivò, alle mie orecchie.
Ma con tutto il bene che posso volere a Piero, non sopporto il chiasso dei suoi fan. Di chi cerca assolutamente di essere in prima fila per fotografarlo. Prendo i libri che volevo, pago ed esco. Passo davanti al Duomo, che vale sempre una foto, e mi fiondo in una cioccolateria. Scatto una foto e poi, finalmente, posso rilassarmi sorseggiando una bevanda alla temperatura di fusione del piombo e leggere qualche estratto di quel che ho appena acquistato.
E lì, finalmente rilassato dopo 7 ore di turno alberghiero, mi sento felice. Sereno. Appagato con il mondo.
E sono l'unico, in quella sala, a leggere sulla vera carta.
Ma, in fondo, che importa?
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