E se mi venite a
dire che DA QUI è già stato utilizzato, ricordate che si dice
“citare”. Non copiare.
Un 3-4 di millenni
fa, una popolazione di origine polinesiana giunse in un arcipelago.
Decise che il posto gli piaceva, e vi si stabilirono.
Parlavano una loro
lingua, ma non avevano ancora una scrittura. Poi, dalla costa del
continente, giunsero dei tipi che disponevano, oltre che d'un
linguaggio, pure di una scrittura.
-Nooo, bada ganzo!
Adottiamolo anche noi!-
-Alla grande!
Dai!-
E così gli
antenati dei giapponesi adottarono gli ideogrammi cinesi. Solo che,
ad un certo punto, sortì fuori un problemino:
-Ma... a me 'un mi
riesce di coniugare i verbi e gli aggettivi (in giapponese gli
aggettivi si coniugano). O come si fa?-
-Mmmmhhh.... gli'è
un bel problema...-
-O se si facesse
un alfabeto apposta per le coniugazioni?-
-Genio!-
E così i giappi
crearono l'Hiragana, alfabeto sillabico. Ogni suono corrisponde ad
una sillaba.
Poi arrivarono
anche i gaijin occidentali, ed i nipponici, per giapponesizzare quei
nomi e parole nuove, crearono un ulteriore alfabeto chiamato
Katakana. Ma questo ci interessa meno.
Il punto è:
quando sono stato in Giappone a studiare questa straordinaria,
stupefacente, meravigliosa lingua, mi rifiutai, fin dall'inizio, di
imparare qualsivoglia ideogramma. Gli scarabocchi, io, li ho gà
fatti da piccolo, vade retro. Mi limitai ai soli due alfabeti:
hiragana e katakana. Eliminai, al principio di tutto, qualsiasi altro
sistema. Io, coi giappi, ci devo parlare al bancone. Non ci devo
scrivere un trattato. Non dobbiamo mandarci letterine amorose. Vabbè,
è successo. Ma tengo a precisare che la Sara non la conoscevo
ancora. Fatto sta che, in quei due mesi di Sol Levante, le mie
difficoltà linguistiche le ho trovate. Eccome.
Nara, Luglio 1999
Vagabondano per la
città.
Li trovi ad ogni
angolo, a dozzine.
Non lavorano.
Non parlano la
nostra lingua.
Elemosinano cibo.
Sono la piaga di
questa cittadina.
Si chiamano しか.
Shika.
Il termine
giapponese per daino.
Il sogno proibito
di mio padre: branchi di daini che girellano paciosamente tra le
case, incuranti dei bipedi e delle loro automobili. Probabilmente
perchè, tra i giapponesi, c'è una tremenda carenza, se non proprio
totale mancanza, di cacciatori toscani quale è, appunto, mio padre.
Mi fermo a sedere
in un chiosco di souvenir, proprio fuori dal Toda-ji (a chi
interessasse, è la costruzione in legno più grande al mondo).
Pervaso dalla fame atavica che colpisce i maschi italici dopo un paio
d'ore di astinenza da cibo (ed il sottoscritto in particolare), provo
a cercare qualcosa da mangiare, ma tutto quel che si trova
all'interno sono oggetti riguardanti il Toda-ji, altri tempi di Nara
o tutto il Giappone. Ogni cosa a beneficio dei turisti, il 90% dei
quali sono giapponesi. Prima che il locale venga invaso dal contenuto
di un pullman delle dimensioni dell'Arkadia che si era appena fermato
nel vicino parcheggio, esco e mi metto a sedere su una panchina.
E lì, accanto,
magia delle magie, una macchina venditrice. Una delle decine di
migliaia di cui è pervaso il paese, e che in quel momento non
trovavo, probabilmente nascoste per farmi patire ancora più fame.
Invece, eccola. Piccola, strana, diversa dalla altre, contiene solo
un tipo di cibo, degli strani biscotti rotondi, ed una sola scritta.
しか の たべもの
Ma io ho fame,
importassai dei tuoi ideogrammi. Eccoti i maledetti 100 yen, dammi i
biscotti.
E mentre mi sto
godendo questo frugale pasto, ecco che i turisti giapponesi venuti da
Tokyo, o Fukuoka, o l'Hokkaido, per quel che ne so, allo scopo di
vedere Nara esattamente come farebbero milanesi e siciliani con
Firenze (almeno fino a che i lungarni reggono...), escono dal negozio colmi di souvenir appena acquistati, mi
guardano e scoppiano, letteralmente, a ridere. Tutti nessuno escluso.
E mi stanno praticamente dando del bischero. ばかがいじん.
Una parte che, a me, è sempre riuscita benissimo, non solo in
Giappone.
Rifletti marce, ce
la puoi fare. E' hiragana.
たべもの =
cibo
しかの たべもの
=
cibo per daini.
….
Mi sto pappando il
mangime dei quadrupedi.
Ok, va bene. La
mia figura a bischero l'ho fatta. Diamo i biscotti ai legittimi, poi
mi metterò a cercare un posto che venda mangiare vero.
In quel momento
passa uno dei quadrupedi, e gli allungo un biscottino. E lui, o lei,
non sono stato a sottilizzare, si fionda e, delicatamente, lo
addenta. Avevo paura si mangiasse anche la mano che lo stava
sfamando. Invece no. Era un bravo daino, ormai avvezzo al sistema,
che azzannava solo l'estremità scoperta, non quella tenuta dal
bipede dotato di pollici opponibili.
Solo che un altro
daino, a distanza, vede la scena. Cibo. Gratis. E si fionda, a
velocità warp, verso lo stolto umano che offre nutrimento senza
niente in cambio se non una carezza sulla testa pezzata. E poi un
altro. Ed un altro. Escono dalle fottute pareti! Mi trovo circondato,
senza neanche accorgermene, da una mandria di daini. Belli, carini
quanto lo si voglia, ma fottutamente insistenti. Vogliono il loro
cibo, il loro たべもの.
Ma perchè non ve ne tornate a casa vostra, cioè nel bosco, a
pascolare e procurarvelo per conto vostro? Ve ne approfittate perchè
sapete che non ho il porto d'armi come il mi'babbo.
Scappo,
perchè ho finito i biscottini. E non ho voglia di spendere altre
monetine da 100 yen per questi fannulloni pezzati. Peccato che sono
anche dei deficienti, e non capiscono che non ho più niente, perciò
vengo inseguito da tutta la mandria desiderosa di altro mangime,
neanche stessi suonando un piffero magico. E dietro di me, un'altra
mandria, i giapponesi del torpedone gigante, cominciano a ridere a
crepapelle della scenetta offerta dallo stupido イタリア人.
E, per rendere la cosa più umiliante, a ridere si aggiungono anche i
gestori del negozio di souvenir.
E' stato il
momento in cui ho odiato il Giappone con tutte le mie forze. Almeno,
fino a che non ho compreso l'assurdità della situazione, e ci ho
riso anche io.
Kyoto, Luglio
1999.
Descrivere i
templi di Kyoto in due righe è come voler parlare dei monumenti di
Firenze in 10 minuti: futile ed impossibile. Sono qualcosa di così
meraviglioso che si finisce nello scadere nel mieloso. Quando ci si
trova di fronte all'incredibile bellezza del Kinkaku-ji, dopo aver
percorso una leggera salita, si rimane così estasiati che qualsiasi
parola non rende giustizia. E' stupendo. Punto. Stai lì, lo guardi e
ti assale una pace interiore che non hai provato, e mai proverai, per
il resto della tua esistenza. Mi manca. Mi manca così tanto, quella
meravigliosa pagoda dorata.
Ma non sono i
monumenti il punto focale di questo racconto.
Alla faccia della
mia mania del risparmio, arrivato a Kyoto in tardissima serata, provo
ad andare in uno degli alberghi nei pressi della stazione. Per una
volta niente ostello, come l'anno scorso (sono stato in Giappone due
mesi: Luglio '98 e '99). E' tardi, è lontano... entriamo e facciamo
quel che fanno i turisti con me: vorrei una camera. Quanto costa?
Ebbene, non
costava tanto. La banconista, di cui ricordo il bellissimo e soave
sorriso, mi propone, per una sola notte, due possibilità: la camera
in stile occidentale e quella in stile giapponese.
Neanche a
pensarci: quella giappa. Voglio il futon, la cosa migliore inventata
da voi nipponici dopo i robottoni e MarioBros. Sborsai subito gli yen
necessari e mi profusi in un inchino neanche fossi stato al cospetto
dell'Imperatore. Ovviamente, gli detti anche la brochure dell'albergo
dove lavoravo. Due chiacchiere con questa collega, e salii in camera.
Le camere in stile
giapponese sono, brutalmente, così:
il pavimento.
basta.
Minimalismo
totalitario.
Lo adoro da matti.
Buttai giù il
megazaino e lo aprii per prendere il cambio di biancheria intima;
quindi, scendere a lavarmi. Il bagno, in Giappone, è pubblico anche
in albergo: prima ci si lava ben bene per eliminare ogni particella
di sporco, ci si sciacqua per togliere il sapone, e poi ci si immerge
nella mega vasca, accanto ad altri clienti dell'albergo, la cui acqua
è alla temperatura di un forno Siemens in piena attività. Feci
anche due chiacchiere, con questi altri clienti (ovviamente ero nel
bagno maschile, quindi eravamo tra rudi omaccioni) che, come fanno
tutti i giappi, si meravigliarono di trovare un italiano lì, e della
mia capacità con la loro lingua (sono gentili all'inverosimile: lo
sanno che sono un cane, ma diranno sempre じょずですね.
Grazie per questa piccola bugia. Vi adoro).
Ma torniamo una
attimo indietro. Sono ancora in camera. Prima di fare il bagno, ho
bisogno del wc. Una stanzetta grande quanto quella delle barbie, ma è
tutta per me.
Faccio scorrere la
porta ed entro. Ci si sta appena. Da un lato, lavandino e specchio.
Dall'altro, il wc.
La famiglia dove
soggiornavo, durante la settimana, mi aveva avvertito che, in
Giappone, avrei potuto trovare wc particolarmente tecnologici. Loro,
per la propria magione, avevano preferito una cosa semplice, ma
questa roba, mi dicevano, va alla grande qui.
Ora ce l'avevo
davanti.
La sedia del
capitano Kirk; solo, con la buca.
Mi siedo un
momento: controlli a destra e sinistra.
Mancherebbe solo
una cloche con un bottone per fare fuoco. Potrei stare qui ore a
giocarci, urlando “Capo rosso a rosso3, ho un nemico in coda!”.
Torno in camera e,
dallo zaino, ne estraggo un libro: kanji.
Tengo a precisare
che non l'ho mai comprato: era un regalo di una ragazza cinese,
compagna del corso di lingua. Gli spiegai che non era necessario, ma
lei insistette. Qualcosa, sicuramente, gli regalai anche io.
Ora avevo il libro
tra le mani. Ok, torno al wc.
Per prima cosa, lo
uso per quello che è: un wc.
La carta igienica
c'è, ok. Fino a qui, tutto bene. Ma lo diceva pure il tipo che
cadeva. A quel punto, essendo questo il Giappone e mancando, come
ovunque fuori dalla penisola, il bidet, vediamo come utilizzare i
mega comandi.
Apro il libro e
comincio a decifrare. Mi sembra di essere Howard Carter dentro la
tomba di Tutankhamon.
Quando penso di
aver capito, comincio a digitare sui comandi. A quel punto sento un
“bzzzz” piuttosto inquietante, dopo di che caccio un urlo che
deve avermi sentito anche la banconista giù al piano terra.
Un getto di acqua
bollente mi aveva colpito proprio agli zebedei. Avevo sbagliato sia
la temperatura che la direzione del getto.
Mi ritrovo
spiaccicato contro la porta scorrevole del bagnetto, mentre l'acqua
forma un arco che va a finire proprio sullo specchio del lavandino,
di fronte al wc. Quando alla fine smette, il bagno è completamente
allagato, ed io sono bagnato fradicio. E, sul volto, un'espressione
di puro terrore.
Mai più.
DA QUI
Firenze, un paio
di mesi fa.
Al bancone, la
Caterina. Bionda proca... vabbè, più o meno. E' brava, ci sa fare.
Ha solo il difetto di agitarsi come uno gnu quando sente la carica
del leone. Ed il leone, nel suo mondo di terrore, è sempre
all'attacco.
Io nel retro,
ufficio prenotazioni. Ormai, sono fisso in castigo.
Betty, detta
scendiluce, cameriera nigeriana. Chiamata anche Bob Marley, perchè
racchiude il suo cesto di capelli ricci in un berrettino multicolore.
2 giorni fa venne a trovarci extra lavoro, nel marsupio la piccola:
un pezzetto di fondente purissimo. Mi guardava con due pupille dello
stesso colore, e la boccona aperta come mostravano le mie quando gli
facevo i versetti a deficiente che solo gli adulti possono fare. Così
bella che, se non sapessi che mi beccherei una manata in pieno viso,
vorrei correre dalla Sara a proporle di farne un'altra, per vedere
altri due occhioni che mi guardano in quel modo così magico, come
solo le bambine di pochi mesi sono capaci di esprimere.
Quel giorno
comunque era in turno, su ai piani, a pulire le camere.
E chiama al
bancone, da una di queste camere.
La Cate risponde,
e lei esordisce con queste incredibili parole:
-Manda su facchino
qui sedere rotto-
…..
-Co...come hai
detto, Betty?-
-Tu manda su
facchino qui sedere rotto-
Voi capirete che
una dichiarazione del genere NON è proprio quel che uno si aspetta
di sentirsi riferire da una cameriera.
La Betty insiste.
Anche piccata, come ogni volta che gli si chiede di ripetere quel che
sta dicendo, perchè il suo italiano, malgrado sia qui da anni, è
tutt'ora così stentato che a confronto il mio giapponese è madre
lingua. Ed a lei, questa cosa, indispettisce alquanto (a tutte le
cameriere indispettisce alquanto il sentirsi dire “Cosa? Non ho
capito”; e vale anche per le madrelingua italiane).
La Cate non
capisce, ma poi ha l'illuminazione:
-Betty....
mi stai dicendo che è rotta la seggetta del water?-
-SII
QUI SEDERE ROTTO, TU CHIAMA FACCHINO LUI SALE SU RIPARA CIAO- e
riattacca.
Non
credo ci sia altro da dire. Anzi, si, perchè sentendo la Cate ridere
come una matta, sono andato al bancone a farmi riferire questo evento
ilare. Provate ad immaginarvi due portieri ed un facchino dietro al
banco, a ridere senza riuscire a smettere. E invitano il facchino a
salire su a riparare il sedere rotto, e lui che, ridendo, controbatte
“si, prendo il set da cucito e ci penso io”.
La
Betty, se la 'un ci fosse, bisognerebbe inventalla.
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