Lo sguardo circospetto, assunto appena varcata la soglia.
La
boccuccia chiusa, ma non serrata, a significare che "Ok, io posso pure
fidarmi di te, ma bada a non farmi arrabbiare o ti aizzo contro la mia
feroce belva"
La suddetta, feroce belva, è in braccio a lei.
L'espressione cagnesca di chi è pronto a dare la sua vita, per
difendere la piccola padrona. Lo sguardo feroce del miglior amico
dell'uomo quando entra in un ambiente che non conosce, ed è pronto ad
attivarsi in modalità berserk, se solo trovasse un minimo accenno di
pericolo.
E, al contempo, lo sguardo dolce e sereno di un pupazzetto di pelouche.
Ma
Io so
So che lui è vivo. So che lui e la padrona si parlano, interagiscono,
condividono opinioni filosofiche. So che prendono il tè su un piccolo
tavolino con le tazzine giocattolo (a casa loro, non certo qui in
albergo). Magari lei non crea assurdi pupazzi di neve nel cortile di
casa -essendo americana, ogni casa ha il cortile, ne sono assolutamente
convinto- o trasforma semplici e banali scatole di cartone in
improbabili quanto fantasmagorici trasmutatori di materia o duplicatori
di persone, ma quello che ha in braccio non è un semplice cagnolino di
pelouche. E' un cane vero. Il suo migliore amico. Proprio come Hobbes
non è una tigre di pezza, ma una vera tigre in carne, ossa, artigli e
battute sagaci, che parla e gioca con Calvin.
-Annie, chiedi al
signore il numero di camera- le dice la mamma nella propria lingua, con
lo sguardo benevolo e dolce di ogni madre quando la propria prole scopre
nuovi, strani mondi.
Annie osserva, sempre con espressione
sospettosa, quello strano, nuovo mondo, che non è altro che il
sottoscritto, e nella sua dolce testolina si chiede se può classificarlo
di classe M. Decide per il si. Pronuncia il numero della camera. Prendo
la chiave, mi sporgo sul bancone e gliela passo.
-Grazie-
-Prego-
Poi si rivolge al cagnolino e gli dice -Dai Charlie, andiamo in camera a giocare-
E schizzano su per le scale, lei e Charlie, mentre io mi sciolgo nel guardarla e sentirla.
E niente, i genitori mi ringraziarono della premura, ma non poteva
essere altrimenti. Non solo perchè erano una famiglia americana che
comprò una camera tripla nell'albergo dove lavoro, contribuendo al
fatturato dell'azienda e al mutuo dei lavoratori della stessa,
sottoscritto compreso, ma anche e soprattutto perchè le mie figlie hanno
già passato quell'età. Durante la quale anche loro, e tutti noi,
avevamo un animaletto finto, non importa se un pelouche o un pezzo di
plastica, con cui giocavamo, dialogavamo, litigavamo persino. Magari non
lo ricordiamo più, ma c'è stato.
Bill Watterson ha sempre avuto ragione.
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