sabato 5 maggio 2018

Lo sguardo circospetto, assunto appena varcata la soglia.

La boccuccia chiusa, ma non serrata, a significare che "Ok, io posso pure fidarmi di te, ma bada a non farmi arrabbiare o ti aizzo contro la mia feroce belva"

La suddetta, feroce belva, è in braccio a lei.

L'espressione cagnesca di chi è pronto a dare la sua vita, per difendere la piccola padrona. Lo sguardo feroce del miglior amico dell'uomo quando entra in un ambiente che non conosce, ed è pronto ad attivarsi in modalità berserk, se solo trovasse un minimo accenno di pericolo.

E, al contempo, lo sguardo dolce e sereno di un pupazzetto di pelouche.

Ma

Io so

So che lui è vivo. So che lui e la padrona si parlano, interagiscono, condividono opinioni filosofiche. So che prendono il tè su un piccolo tavolino con le tazzine giocattolo (a casa loro, non certo qui in albergo). Magari lei non crea assurdi pupazzi di neve nel cortile di casa -essendo americana, ogni casa ha il cortile, ne sono assolutamente convinto- o trasforma semplici e banali scatole di cartone in improbabili quanto fantasmagorici trasmutatori di materia o duplicatori di persone, ma quello che ha in braccio non è un semplice cagnolino di pelouche. E' un cane vero. Il suo migliore amico. Proprio come Hobbes non è una tigre di pezza, ma una vera tigre in carne, ossa, artigli e battute sagaci, che parla e gioca con Calvin.

-Annie, chiedi al signore il numero di camera- le dice la mamma nella propria lingua, con lo sguardo benevolo e dolce di ogni madre quando la propria prole scopre nuovi, strani mondi.

Annie osserva, sempre con espressione sospettosa, quello strano, nuovo mondo, che non è altro che il sottoscritto, e nella sua dolce testolina si chiede se può classificarlo di classe M. Decide per il si. Pronuncia il numero della camera. Prendo la chiave, mi sporgo sul bancone e gliela passo.

-Grazie-

-Prego-

Poi si rivolge al cagnolino e gli dice -Dai Charlie, andiamo in camera a giocare-

E schizzano su per le scale, lei e Charlie, mentre io mi sciolgo nel guardarla e sentirla.

E niente, i genitori mi ringraziarono della premura, ma non poteva essere altrimenti. Non solo perchè erano una famiglia americana che comprò una camera tripla nell'albergo dove lavoro, contribuendo al fatturato dell'azienda e al mutuo dei lavoratori della stessa, sottoscritto compreso, ma anche e soprattutto perchè le mie figlie hanno già passato quell'età. Durante la quale anche loro, e tutti noi, avevamo un animaletto finto, non importa se un pelouche o un pezzo di plastica, con cui giocavamo, dialogavamo, litigavamo persino. Magari non lo ricordiamo più, ma c'è stato.

Bill Watterson ha sempre avuto ragione.

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