Ognuno di noi ha delle priorità.
Ero ancora al tre stelle nei
pressi della stazione -dove ho speso 20 anni della mia vita lavorativa- e
durante un turno pomeridiano avevo davanti a me una signora sudamericana che
ascoltava, trepidante, la mia spiegazione sul percorso da seguire per arrivare
alla sua tanto agognata meta: il mitico e strabordante museo degli Uffizi,
pieno zeppo di epiche opere d’arte e fulgido esempio del Rinascimento, fiore
all’occhiello di una città che a quei tempi, almeno culturalmente, dominava il
mondo.
Dietro di lei stavano il marito
e il figlio adolescente, belli massicci ma con visi rubicondi e sorridenti, in profondo
e assoluto silenzio. In attesa che lei decida.
Ma improvvisamente, ecco che
si palesa la ribellione. I due maschi coalizzati contro colei che, da sempre,
porta i pantaloni. Via la revolucion, adelante compañeros! Stavolta la
decisione la prendiamo noi.
Come la signora ringrazia
sentitamente per le informazioni che le ho appena fornito, marito e figlio,
come se fossero soldatini, fanno un passo avanti all’unisono e si piazzano di
fronte a me. Lei, occhi sgranati, li osserva completamente sorpresa, come se
subdorasse che i due stiano osando contravvenire ai suoi supremi e perentori
ordini. Per la prima volta nella vita.
Padre e figlio, sempre
sorridendo, si guardano negli occhi con grande complicità, poi il ragazzo
esordisce con un tono di palese emozione:
«È vero che qui a Firenze c’è
un museo del calcio?»
Sorrido, perché mi mette
sempre di buon umore la parola “pelota” che si usa, nello spagnolo, per
indicare il gioco del calcio.
«Si, è proprio così»
Posso sentire due sciami di
farfalle muoversi vorticosamente dentro i loro stomaci e urlare, in coro, “Ci
siamo! Ci siamo!”. Senza dire altro, afferro un’altra piantina, anche se due
occhi femminili ci trafiggono e sembrano dire “Non oserà!” verso di me e “Non
oserete!” verso consorte e figlio. Ma ormai la solidarietà maschile è lanciata
a mille e ho appena aperto, sul bancone, una piantina speciale, quella che
contiene pure la periferia di Firenze e che, ai turisti, non serve a niente. Tranne
in questo caso. Circolettare, con la penna, il centro tecnico federale di
Coverciano, è un’operazione immediata. I due maschi sudamericani sono ormai in
religioso silenzio, pendono letteralmente dalle mie labbra.
«Poiché non è in centro,
dovrete prendere un autobus, il 10, che parte di fronte alla stazione, pochi
metri dall’albergo» (oggi il capolinea è in piazza della Libertà) «La fermata
si chiama “Centro Tecnico Federale”, dove si ritrova anche la Nazionale di
calcio italiana»
La signora ha ormai assunto un
atteggiamento altezzoso che Maria Antonietta scansati proprio. Il disprezzo
verso i maschi plebei pallonari è ormai conclamato: «Io vado agli Uffizi»
sibila con un tono che evidenzia la profonda seccatura dettata da questa
ribellione.
I due maschi alzano la testa
dalla piantina, si guardano dritto negli occhi e poi si voltano verso la
moglie/madre:
«Ci vediamo a cena»
Non ho udito il “crash” nella
testa della signora perché coperto dal coro di una curva da stadio. Lei, senza
degnarli di una parola, alza la testa e, cartina alla mano, esce dall’albergo e
svolta a destra. I due maschi della famiglia, con una felicità che provavo solo
quando ero in Fiesole dopo un gol di Batistuta, vanno a sinistra.
Dopo alcune ore di turno,
quando sta per approssimarsi il momento del cambio e sono in fremente attesa
del mio collega notturno, la famigliola allegra per 2/3 rientra per il giusto e
meritato riposo. In realtà sono convinto che anche la signora, dentro di sé e malgrado
la fila e la lunga visita agli Uffizi, sia allegra e lieta, ma sul momento non
lo mostra. Anzi, pare piuttosto seccata di essere stata lasciata sola. Chiede
la chiave e sale le scale.
Ma i due maschi amanti della “pelota”
erano al settimo cielo. Entusiasti, stettero mezz’ora davanti al bancone a
descrivermi la bellezza di maglie in lana e palloni in cuoio marrone, come
andavano decenni fa, l’emozione a vedere le coppe del mondo -copie, ovviamente-,
le divise di tante squadre nazionali -compresa della loro- di tanti anni addietro
e la commozione provata davanti a quelle del grande Torino.
Due bambini felici. Con la
loro priorità, come dicevo all’inizio.
E sono sicuro che anche il
caro Alessandro Filipepi, altrimenti detto Botticelli, avrebbe compreso.
Forse.
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