Saponetta
No, non le saponette dell'albergo
Saponetta è il soprannome che viene dato, causa Gialappa's band, ai portieri che si lasciano sfuggire il pallone dalle mani.
Pallone che, inevitabilmente, finisce in rete.
Si, era uno dei miei soprannomi. Ok, lo so, non è il massimo per un portiere. Sei lì che ti inginocchi e spingi le braccia verso il basso ad accogliere una palla in arrivo, normalmente dovuta da un tiro senza pretese o da un semplice rimpallo di gioco tra l'attaccante avversario ed uno dei tuoi difensori quando, ooops, preso da una sorta di sicumera che ti fa pensare "ma dai, questa è facile, ci riuscebbe pure il portiere titolare nel Brasile dell'82" non chiudi le braccia e non stringi i palmi, e quella ca**o di sfera rotola sotto alle tue gambe. E passa sotto.
E quel che ti arriva alle orecchie, prima ancora che la palla gonfi la rete, sono le urla dei tuoi compagni che ti maledicono fino alla 37^ generazione, quando i tuoi lontani avi si facevano fare a pezzi dall'Alighieri ed altra soldataglia fiorentina in quel di Campaldino (erano aretini), e se ne vengono fuori che "Oh Mugna, o che tu c'hai messo in quei guanti? I'sapone?"
E così diventai Saponetta.
Non sempre comunque.
Ricordo una partita. Non so perchè quella, non era un incontro decisivo. Solo una semplice, normale, classica partita di calcio a 5. Uno dei tanti in un campionato amatoriale dove i partecipanti non sono remunerati come tra i professionisti. Non hanno neanche un rimborso spese. Si pagano tutto da soli: l'equipaggiamento di gioco, il campo, l'associazione sportiva che organizza i tornei, l'arbitro, il pallone. Si telefonano per organizzarsi il trasporto ("Ti faccio uno squillo quando parto di casa, fatti trovare giù" a quei tempi non c'erano i cellulari, ci si chiamava sul vecchio fisso) e riempivamo le auto con borsoni pesanti quanto un panzer, dove dentro avevamo divisa e scarpette (e guanti, nel mio caso), accappatoio, shampo, biancheria di ricambio. Quest'ultima veniva, in ordine d'importanza, come buona ultima. Se veniva dimenticata a casa, pazienza, dopo la doccia ci si rimetteva quella usata -e zeppa di sudore- della partita. Tanto eravamo tra rudi omaccioni. Mica avevamo appuntamenti galanti per cui può essere necessario doveroso e puntuale lavaggio delle parti intime. Quantità immense e stratosfriche di testosterone che ritrovavi pure sul tavolo della pizzeria del dopo partita, assieme alle briciole di pane.
Sto divagando. Dicevo: ricordo questa partita
La squadra è sempre il Coverciano '88 (ho giocato, in 25 anni di calcio a cinque prima di appendere i guantoni al chiodo, in queste 3 squadre: Coverciano '88, Longobarda e Soteropolitani; compagini, sono fiero di dirlo, tutt'ora attive. Nel mezzo c'è stata anche, nel 2007, una partita degli albergatori contro le vecchie glorie della Fiorentina -al Bozzi- benchè non sia una cosa di cui vantarsi troppo visto che in quell'occasione non ero in porta e mi davano via anche Chiarugi e Desolati, che hanno quasi 30 anni più di me).
Sto divagando ancora.
Dicevo:
ritrovo al buon vecchio classico campetto di Cascine del Riccio, Firenze molto a sud, posto in una vallata stretta e boscosa dove, anche in Luglio, permane una cappa di freddo umido che si prova solo nelle vallate più remote degli Urali. A Gennaio.
E quella sera piove a raffica.
Scendere dall'auto in un parcheggio sterrato significa già infilare fino al ginocchio in un pantano che sarebbe perfetto se fossimo nel prato di Woodstock e davanti si trovasse un palco con sopra Hendrix, ma in quel contesto no, non era proprio il massimo. Però, quando si hanno vent'anni e si è uomini, tutto quel che interessa è di giocare.
E sotto una pioggia scrosciante il pallone assume un certo gusto agrodolce, un sottile piacere perverso, un discreto senso dell'epicità. Lottare, sotto l'acqua, ti fa sentire ancora più guerriero, più rude, più maschio.
Cominciammo quindi una partita di calcio a cinque amatoriale, tra ragazzi di poco più di vent'anni, all'inizio di un decennio che non vedeva ancora gli industriali brianzoli scendere in politica ed i comunisti osare ancora autodefinirsi tali pur avendo smesso di esserlo da 50 anni; dove le guerre, tanto per cambiare, si svolgevano in Iraq (è dai tempi degli akkadici che in Iraq si combatte, sarà mica quella striscia di terra tra Tigri ed Eufrate, a portare sfiga?); in una città derubata -Sai icchè? L'è nova- e dove il massimo del divertimento sportivo era riempire di monetine il centro tecnico di Coverciano in una contestazione possibile solo se si assapora l'orgoglio di questa città (duemila lire in pezzi da cento. Fumati in 30 secondi).
La squadra, appunto, era il Coverciano '88, così chiamatasi perchè i fondatori sono, guarda che caso eh?, di questo quartiere di Firenze. Io arrivai un paio di anni dopo proprio perchè, ad un certo punto, bisognava pur trovare qualcuno che stesse tra i pali. Anche solo per incolparlo dei gol presi.
E lì nacque la leggenda di Saponetta. Ma non quella sera.
Torniamo un attimo al parcheggio:
il percorso che va dall'auto fino alla struttura che contiene gli spogliatoi viene fatto di corsa, con il borsone sulla testa. Per non bagnarsi. Per mantenersi asciutti i vestiti. Più che il corpo.
Perchè una volta cambiati, una volta che si ha indosso maglia, pantaloncini, calzettoni e scarpette (e nel mio caso, i guanti), ogni remora crolla. Ogni paura dell'acqua di scioglie come neve al sole: abbiamo l'occorrente, possediamo abiti appositi fatti per sporcarsi, infradiciarsi, sdrucirsi se è il caso (e che saranno posti in lavatrice da mani materne ed amorevoli la mattina dopo). Usciamo sotto le gocce d'acqua in "slowmotion", una lentezza quasi solenne, gravida di epicità ed eroismo, come prima di noi erano soliti fare solo i gladiatori che entravano all'interno del massimo anfiteatro dei loro tempi, anche se il nostro è un pezzo di erba sintetica circondato da una rete sdrucita in più punti e l'unico suono animale che si sente è il gracidare dei rospi del fosso lì vicino.
Noi umani bipedi e loro anfibi zampettanti al culmine della loro esistenza. Entrambi ad assaporare l'acqua che scorre sulla pelle.
Tranne uno.
Di una decina di anni in più, e per questo visto come un Matusalemme ma un pò più vecchio, lui ha l'ombrello.
Ed una giacca -gli Dei lo perdonino- con le toppe ai gomiti.
I nostri avversari hanno un allenatore.
In partite come queste, pretendere di fare l'allenatore, ed ancora di più, di fornire indicazioni tecniche, è utopico, una speranza vana come credere veramente che Trump alzi le tasse a quelli ricchi come lui per poter dare copertura santaria ai poveri.
Sotto la pioggia scroscante, giocare a pallone diventa una comica. L'erba sintetica ha il magico potere, quando è zuppa d'acqua, di dare ancora più forza alla sfera. Tu calci, la palla rimbalza sul terreno e schizza via ad una velocità che se avesse dentro un flusso canalizzatore, tornerebbe indietro nel tempo. La leggi della fisica, su campi del genere, non valgono più. Quindi il controllo di palla non esiste. E' impossibile, futile, superfluo, tutto qui. Tu ci provi pure, a controllarla, ma quella sfugge via, finendo tra i piedi di un avversario. Il quale tenta lo stesso gioco e la riperde, rendendotela. Magari cadendo, perchè per quanto le scarpette possano essere appena acquistate ed avere sotto una zigrinatura nuova di zecca, scivolare e cadere è praticamente certo.
Una partita di carambola, questo diventa.
Qualsiasi pretesa di schema crolla, sepolta sotto a movimenti possibili solo nello Shaolin Soccer.
In quelle condizioni fare il portiere è veramente penoso. Anche un tiro lento lento da metà campo che si voglia tentare di bloccare con le mani può rivelarsi fatale, e l'unica sicurezza è calciarlo via, più forte e lontano possibile.
Poi, a metà primo tempo
un avversario ha improvvisamente campo libero a causa della caduta di uno dei miei. Si prodiga in avanzamento incontrastato sulla fascia, a velocità da bradipo, sotto al diluvio imperante. Un attimo di equilibrio, un suo compagno che brucia sullo scatto il difensore avversario, il lancio millimetrico sul piede di questo che colpisce con il piattone; un tocco forte e secco dal limite dell'aria.
Normalmente tiri del genere sono quasi impossibili da prendere. Anche se la porta da calcetto è corta, pure la distanza da cui arrivano i tiri avversari è tale. Ed io sono il portiere che sono
eppure
la mano sinistra che scatta, con la velocità dell'X-1 di Chuck Yeager, ed il palmo della stessa che impatta con la sfera; il corpo che si muove, con la stessa rapidità, da verticale ad orizzontale, ma a 50 centmetri dal suolo; la ricaduta sul terreno e lo "ciaf", come se mi fossi buttato in piscina, la palla che rotola fuori dal campo. Il tutto dura meno di un secondo.
Istinto allo stato puro.
Ma soprattutto
"Cosa ha presto questoooo!!!!"
Che non arriva dalla tua panchina, ma da quella avversaria.
Grosso errore.
Perchè più dei complimenti che arrivano dai propri compagni di squadra in quei rari casi in cui un portiere di una squadretta amatoriale compie un intervento prodigioso, niente esalta maggiormente delle imprecazioni di sorpresa e disappunto degli avversari. Sono un'iniezione mentale di adrenalina purissima.
Andammo al riposo in vantaggio di un gol. Alla ripresa, altri due interventi di puro spettacolo portieristico, compresa una presa plastica al sette. Ed ogni volta, urla di disappunto degli avversari, con in particolare le imprecazioni del loro allenatore.
Che per le mie orecchie, erano musica dolcissima.
Raddoppiamo. L'allenatore avversario comincia ad emettere sbuffi di vapore e schiuma di rabbia. Poi, verso la fine, pallone fortissimo tirato da appena due metri di distanza e ancora una volta parato, la palla che rimbalza sulla linea di porta ad un passo dall'inferno, o dal paradiso, se lo si guarda dal punto di vista degli avversari. E lì, proprio nel momento in cui l'attaccante sta per calciare, disteso a terra compio l'ultimo e definitivo scatto di reni, le braccia che si allungano, le mani che contrastano il pallone proprio sul tiro, e poi urla e imprecazioni perchè "tutte, le prende tutte", mentre il bomber (ogni squadra ha uno che viene soprannominato bomber, senza reali meriti sportivi, e noi non eravamo da meno) si fa scappare una risata ed esclama "grandissimo mugna".
E poi non rammento molto altro, se finì 2-0 o riuscimmo a segnarne un altro. Sono passati più di vent'anni. Ho un vago ricordo di un avversario, a fine partita, che mi addita e che "Ora ti si fa l'antidopinghe, così ti squalifihano!", della risata sguaiata di Jacopo mentre mi prende la testa con le mani, di Stefano che "Oh mugna, o icchè t'ha preso stasera?", di Gianca che "qualsiasi cosa fosse, la prendi anche la prossima settimana"
Non avevo preso niente. Semplicemente, anche un ragazzo di vent'anni che non ha una formazione calcistica decennale alle spalle e gioca al pallone per il puro piacere di farlo, può avere i suoi momenti di gloria, le sue serate di classe, l'incredibile e stupefacente capacità di esibire interventi e giocate che pure Holly e Benji, se li vedessero, esclamerebbero "Ma neanche nei nostri cartoni animati, vedi queste assurdità". Quella sera toccò a me. Era il mio momento, semplicemente. Capita, nella vita. Magari anche un paio di volte. Questa è quella che ricordo meglio. Ricordo anche le urla del loro "mister" provenire dallo spogliatoio degli avversari, che li infamava di brutto. Ed i miei compagni a dire "ma perchè si arrabbia così? Non hanno giocato male. E' il mugna stasera che s'è drogato e gliel'ha prese tutte, sennò vincevano"
Su tutte le altre serate.... beh, caliamo il classico velo pietoso.
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