C'è stato un periodo della mia vita durante la quale venni colto da un incredibile, appassionato, strepitoso amore per la pallacanestro.
Ancora alle superiori, poco più che quindicenne, mi accorsi come mi piacesse palleggiare il pallone a spicchi. Sentire il tocco morbido delle mani sulla superfice rugosa e passarla di mano in mano facendola rimbalzare sotto le gambe. Ogni sabato pomeriggio andavo in uno splendido campetto in tartan di una scuola media. Una semplice, modesta scuola media con un campo da basket che avrebbe fatto l'invidia di un franchigia NBA, per non parlare dei canestri e delle strutture addirittura rivestite in gomma piuma. A dir poco esagerato. Ma strepitoso. Scavalcavo il cancello e giocavo. Dalle 14 fino alle 16 palleggiavo e tiravo, anche se pioviscolava o sotto i 40 gradi estivi ("non uscite nelle ore più calde" vale solo per bambini e anziani. Non conta se giochi a basket o vai in bici da corsa). Poi alle 16 arrivavano altri coetanei/e e si dava vita a solenni e interminabili partite. In quell'età durante la quale anche dopo 6 ore di intensa attività fisica non senti minimamente la stanchezza.
Tutti ragazzi adolescenti o giù di lì, tutti accomunati dalla passione per una palla da lanciare in un cesto. Tutti poco più alti di 1.70 ma comunque decisi a imparare i fondamentali. Ottenere un 50% di relizzazioni da due e 33% da tre. E posso orgogliosamente affermare che ci riuscivamo. E' un'emozione bella e intensa, quella di lanciare palloni e sentire il tipico fruscio del canestro. E poi, anche nel calcio, ho comunque scelto l'unico ruolo dove si possono usare la mani.
A Firenze, in quegli anni, arrivò un giocatore strepitoso: J.J. Anderson.
I suoi movimenti sinuosi erano qualcosa di incredibile. Come mai un giocatore del genere fosse finito nel piccolo campionato italiano, invece che non nella NBA, per me era un mistero assoluto e imperscrutabile. Ricordo partite dove realizzava 30 e passa punti. Miglior realizzatore italiano, ed eravamo ultimi. Anni d'altalena tra A1 a A2, ma J.J. restava con noi. Una volta eluse il suo marcatore, prese palla in corsa, si bloccò, si alzò in aria di non so quanto ma avrei potuto passare sotto senza chinarmi e, torcendosi in aria di 180 gradi, lanciò da almeno mezzo metro dalla linea di 3 punti. Canestro e sirena, Milano, la grande, potente, inaffondabile corazzata Milano, battuta di 1. Io ero in estasi mistica. Il palazzetto di Firenze, semplicemente, venne giù.
Erano gli anni fortunati durante i quali l'NBA era in chiaro. Si potevano ammmirare gli epici scontri dei Lakers contro Boston. L'avvento dei pistoni di Detroit. L'era di Chicago.
In quegli anni venne alla ribalta un giocatore strepitoso: John Stockton. Un playmaker incredibile, con una capacità di palleggio che io non riuscivo neanche lontanamente a immaginare fosse possibile. Stockton penetrava le difese avversarie come un coltello nel burro, scansando giocatori talmente più alti e grossi, rispetto a lui, che semplicemente spariva. Ma il pallone, magicamente, appariva in mano a Karl Malone, che la schiacciava a canestro. E poi giocavano negli Utah Jazz, che hanno la maglia Viola. Non potevo non fare il tifo per loro, anche se quelli erano gli anni di Michael Jordan, e Utah perse due combattutissime finali proprio contro i Bulls. Stockton e Malone sono tra i giocatori più forti dell'NBA a non aver mai vinto il titolo. Tutt'oggi, Stockton è quello che ha realizzato più assist di sempre.
Sono in albergo. Abbiamo una prenotazione a nome Stockton.
Ammetto che sono un pò emozionato al pensiero che magicamente possa apparire, proprio lì davanti al bancone dell'albergo dove lavoro, il più grande playmaker della storia della pallacanestro, ma la vedo difficile. Insomma, anche se una vacanza a Firenze se la concedono tutti, una volta nella vita, immaginò che lui andrebbe in qualcosa di più che non un semplice 3 stelle. Dignitoso e pulito quanto si vuole, ma pur sempre un 3 stelle. In ogni caso non sono il tipo che si esalta per i vip in albergo. Ne ho visti diversi e non mi è mai importato di nominarli, nel blog. Ma Stockton mi risveglia le emozioni cestistiche. La grande passione per questo sport e anche la nostalgia di quando ero un adolescente instancabile, pieno di energie e di voglia di correre, di sentirmi vivo, di mettere alla prova il mio fisico e le mie abilità.
Si presenta questa famiglia che riconosceresti a miglia di distanza venire dagli States: padre, madre e 3 figli, ragazzi grandi e grossi come armadi.
Il capofamiglia, forse qualche anno appena più di me, esordisce con i dettagli della prenotazione, una doppia superiore e una tripla, e il cognome. E lì non posso non accennare:
-Stockton. Come il playmaker-
-Si, è mio fratello-
E indica uno dei suoi figli, che per l'appunto ha una t-shirt blu scuro con l'inconfondibile logo dei "Jazz". E la mostra con orgoglio, felice che le gesta sportive di suo zio siano ancora note a vent'anni, e migliaia di chilometri, di distanza.
Tranquilli, sereni, felici di essere in vacanza. Una bella famigliola americana che si è anche scusata perchè nella prenotazione avevano indicato la tripla come matrimoniale più letto singolo, e invece volevano 3 letti singoli, essendo 3 figli. E noi li abbiamo accontentati ma con la premessa che "dovremo mettervi su piani diversi". E i due coniugi a ribattere, comunque sorridendo, che "anche meglio, metteteli lontano da noi". Che bello, il mondo, quando trovi persone così. Manca solo di tornare a quando giocavo a basket. Giovane e pieno d'energie.
"Forever young", come diceva quella canzone.
E pazienza, se ero pieno di brufoli.
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