Della mia famiglia non sono l'unico ad aver lavorato in albergo.
L'8 Settembre 1943, il soldato semplice Giosuè Mugnai si trovava dislocato a Sarajevo, come parte delle truppe d'occupazione del Regno di Yugoslavia da parte delle forze dell'Asse, di cui questo nazioncina faceva parte.
Mio zio, allora poco più che diciottenne, proveniva da Cetica; un piccolo villaggio del Pratomagno, quella catena montuosa che per l'Arno rappresenta una vera scocciatura perché gli tocca di aggirarlo prima di passare per Firenze e dirigersi verso il Tirreno. Cetica è un gruppo di casupole abbarbicato su un declivio montuoso dove per secoli si sopravviveva consumando farina di castagne (dopo il XV secolo arrivarono anche le patate. Non c'è mai stata grande fantasia, nella dieta di questi montanari). Gli unici eventi storici vissuti da quella comunità furono:
- il transito, dopo il passo della Consuma, dell'esercito guelfo fiorentino verso la piana casentinese, dove si sarebbe scontrato con le truppe ghibelline di Arezzo in quel di Campaldino (11 Giugno 1289). Dato che il villaggio era feudo dei conti Guidi, a quei tempi ghibellini e avversari, non mi stupirei se la soldataglia fiorentina si fosse data a qualche forma di saccheggio seguito da brutali stupri. E non mi sorprenderebbe neanche se venisse fuori che ho un po’ di DNA in comune con Dante Alighieri (il quale, ai tempi, era un cavaliere dell'esercito fiorentino e partecipò alla battaglia);
- il tentativo, da parte delle truppe della Wermacht il 29 Giugno del '44, di sterminare senza nessuna pietà tutti gli abitanti del paese. Tentativo in parte fallito perché l'unico modo per arrivare lassù era tramite una mulattiera. Non potendo usare autocarri, e tantomeno mezzi blindati, per piombare di sorpresa nel paese, i crucchi si fecero scoprire dando modo ai partigiani del posto di contrastarli (al prezzo di gravi perdite); ciò permise agli abitanti di fuggire nei boschi. Le mie nonne mi raccontavano di quando, quel giorno, scapparono tutti, con i figli piccoli appresso o direttamente in braccio. I fratelli di mia madre lo ricordano ancora (mio padre aveva appena 3 anni). Purtroppo vi fu chi non ce la fece. Tutt'oggi, se salite sul paese dalla parte di Pagliericcio, potete vedere una lapide con i nomi di un pastore e il figlio giovanissimo, uccisi sul posto senza remore.
Da questo paesucolo così isolato (ancora agli inizi degli anni '50 c'era solo la mulattiera. Quando mia madre contrasse una malattia esantematica, l'unico modo per una visita e le cure necessarie fu, da parte di mio nonno materno, di caricarla sul mulo e portarla giù a Strada in Casentino; perché a quei tempi i vaccini non esistevano e la morte era sempre incombente) mio zio si trovò catapultato in un luogo a lui ignoto. Distante un migliaio di chilometri da casa, in mezzo a persone che parlavano una lingua a lui astrusa e piazzato lì da un regime che non comprendeva assolutamente.
Una dittatura le cui necessità non erano modernizzare una nazione dove molti luoghi, come Cetica, vivevano ancorati al medioevo. #primagliitalianiuncazzo. La precedenza, per i gerarchi, era al proprio tornaconto e il dichiarare guerra a gente che non ci aveva fatto niente. Spedire a combattere, in posti sconosciuti, ragazzi il cui destino segnato da secoli era zappare la terra per seminare patate, raccogliere castagne, tagliare alberi nelle foreste casentinesi, preparare carbonaie. Una vita semplice, modesta, inevitabilmente breve e che nessuno, sul pianeta, era intenzionato a migliorare. Tanto meno i loro concittadini in camicia nera.
Il fatto che oggi il colore della camicia sia cambiato, non vi illuda: è sempre lo stesso tipo di persone. Che prima intontivano la gente con gli slogan e le urla belluine alla radio, ma che oggi si sono adeguati agli strumenti moderni: i blog e gli hastag.
Ma sempre le stesse immense teste di cazzo rimangono.
Catapultato in questa realtà assurda e assolutamente priva di senso, era inevitabile che molti giovani della sua età si rivolgessero alla parte politica opposta. Oggi possiamo anche dire che non fosse poi tanto meglio, ma come si dice in questi casi: "col senno di poi son piene le fosse". E anche di parecchi giovani italiani.
Quel giorno Giosuè Mugnai decise che era giunto il momento di tornare al paesello, e, non potendo attraversare l'Adriatico, si incamminò verso nord con l'intenzione di aggirarlo.
Non fece molta strada. Due ustascia croati, a quel tempo alleati della Germania, lo pestarono ben bene. Poi gli puntarono una pistola alla testa. All'ultimo momento, per un caso estremamente fortuito, decisero che non valeva la pena di sprecare una pallottola per quell'italiano, e lo mollarono ai tedeschi.
Deciso a sopravvivere a qualsiasi costo, mio zio saltò giù dal treno che doveva portarlo chissà dove ma che non prometteva niente di buono. Fece una scelta di campo ben precisa e andò sui monti, dove si aggregò ai partigiani serbi. Lì trovò altri suoi connazionali che avevano fatto la stessa scelta, dando vita alla brigata Garibaldi.
Un giorno, mentre si trovavano in un momento di pausa, gli fu ordinato di mettersi in riga. Di lì a poco arrivò un'auto da cui scese il maresciallo Tito. Il futuro capo della Repubblica Socialista di Yugoslavia passò in rassegna tutto il reparto.
Non so cosa abbia pensato quell'uomo di quegli italiani pallidi, smunti e sporchi che fino a poco tempo prima combatteva ferocemente e ora se li ritrovava alleati. Forse li considerava solo come utili pedine della sua guerra, o magari era sinceramente ammirato dalla scelta di quegli uomini. Non lo so, non lo sapremo mai. Mio zio non mi parlava molto degli episodi di guerra. Non erano mai momenti piacevoli, ma atti violenti, brutali, sanguinosi. Mi descriveva soprattutto le facce della povera gente che viveva su quei monti, anche loro persone semplici che sopravvivevano del poco che offrivano quei posti. Così simili a lui e così gettati in un mondo di prevaricazioni, violenze, morte. E malgrado ciò, dividere quel pochissimo che avevano con quegli stranieri. Anche per questo sopravvisse; tornò da laggiù con la pelle, una medaglia dello stato Yugoslavo e una discreta passione per il comunismo. In ordine decrescente di importanza.
Tornato in Italia, mio zio andò a vivere in Liguria. Per la precisione a Chignero, una frazioncina del comune di Rapallo. Dista 5 chilometri, e sono tutti di montagna. In Liguria è così, basta fare pochi metri e sei già sui monti. A differenza del Casentino, sono tutte valli profondamente scoscese, ripide, profonde. La strada che porta su è tutta fatta di tornanti che sembra la salita dello Stelvio, solo che è tutta immersa nel bosco. Ogni tanto ci sono degli slarghi per permettere alle auto di passare affiancate. Perché altrimenti è una corsia unica. E sull'esterno si apre un precipizio che aspetta solo di veder cadere l'auto dei cattivi in un film di James Bond o Indiana Jones.
Chignero sono 4 casette abbarbicate su questo precipizio. Tutte fatte in pietra e con pavimenti in legno. Al piano terreno la stalla con le caprette. Sopra, i bipedi. Quando andavamo a trovarlo dormivamo in una di queste case, abitata da una vecchietta che doveva rasentare il secolo d'età, un unico solitario dente e una parlata incomprensibile. Ci aveva abitato anche lui, i primi anni che era arrivato in Liguria. Ricordo che su un armadio di questa casa, al piano di sopra, aveva appeso il poster di una squadra di calcio: una rarissima foto a colori, per gli anni '50, e ormai quasi totalmente sbiadita, anche se si capiva che aveva quel colore così magico: il Viola. La Fiorentina del primo scudetto, 1955-56: il sorriso contratto di Sarti, l'espressione un pò stralunata di Chiappella, i baffetti di Julinho, lo sguardo serio e la pelle ambrata di Montuori. Ero affascinato da quella foto, quel simbolo identitario così forte e unico piazzato in quell'angolo remoto di Liguria. Ogni anno che andavamo a trovarlo mi aspettavo di non trovare più quell'immagine appesa a un armadio che doveva risalire all'ottocento. Invece, puntualmente, era ancora lì, e dormivo in quella stanza sotto lo sguardo vigile e premuroso di 11 gigliati, il prato verde del campo di gioco e la Maratona stracolma di fiorentini.
In una di queste casette di Chignero abitava quella che sarebbe diventata mia zia Linda. All'inizio c'era profonda diffidenza, da parte della famiglia di questa giovane e bella ragazza ligure, riguardo a questo toscano. Elemento che veniva da fuori, quindi sospetto. Parlava strano. Uno straniero! Oltretutto con idee politiche altamente riprovevoli. Uno che oggi sarebbe respinto, ecco. A dirimere la questione ci pensò il parroco: in un mondo dove non solo non esistevano i social, ma pure la sip faticava a mettere telefoni fissi ovunque, il curato del paesello ligure scrisse una lettera al suo corrispettivo in Toscana, chiedendo informazioni su questo tipo. E il prete di Cetica rispose che si trattava di un'ottima persona, brava, attiva, proveniente da una solida famiglia di indefessi lavoratori. E sono assolutamente certo che fu una risposta sincera, che lo credeva veramente. Malgrado tutto. Perché quando c'erano le elezioni il PCI, a Cetica, prendeva una percentuale che la Bulgaria scompare a confronto, e a parte un paio di altri partiti, c'era sempre un solo, singolo e solitario voto al movimento sociale. E sapevano TUTTI di chi era quel voto. E però il prete missino scrisse bene di quel ragazzo, raccomandandolo.
Guareschi ha sempre avuto ragione, maledetto baciapile.
La Liguria possiede dei luoghi di una bellezza straordinaria, qualcosa che rasenta il trascendentale. Uno di quei posti che, come Ischia, Capri, il Colosseo e il centro di Firenze, sono entrati nell'immaginario mondiale come "L'Italia da sogno". E chiaramente frequentati da persone estremamente danarose e potenti. Presidenti, divi di Hollywood, principi stranieri. Negli anni '50 e successivi ci fu un certo boom, una scoperta, di queste località, e subito iniziò l'industria e l'offerta turistica. Mio zio entrò, appunto, a lavorare in albergo. In particolare ricordo che era allo Splendido di Portofino. Una di quelle strutture ricettive dove anche una notte nella camera più piccola e infelice ha un costo pari a diverse rate di un mutuo. E lì si trovò ad avere a che fare con quella clientela. Mi parlò della principessa di Persia, la moglie dello Scià poi scacciato dalla rivoluzione komeinista, che non era mai contenta della pulizia della camera, e lo costringeva ad andare tutti i giorni in stanza a pulire, pulire, pulire. Ma anche gli altri non erano da meno. A un certo punto si stufò di tenere il conto di queste persone che potevano vantare titoli sui quotidiani. Tutta gente che non si scomoda neanche a prenotare e ha un esercito di galoppini e/o portaborse per il "lavoro sporco": contattare l'albergo, trasportarli sul posto, andare a lamentarsi al ricevimento perché "Sua Maestà non gradisce la camera, vorrebbe la suite" e mi immagino il portiere che gli risponde che non è possibile perché la suite l'aveva già presa Cary Grant. Altro che recensioni, era proprio un altro mondo. Esseri umani che trattavano gli altri esseri umani come pezze da piedi. Ok, non tutti (non Cary Grant o James Stewart, anche se non ricordo di quali divi si trattava) ma quasi certamente le "altezze reali". Mi raccontava soprattutto di quelli che, come mancia, davano pochi spiccioli. Da qualche parte ho ancora una piccola scatola di legno con dentro le monetine che mi regalava: centesimi americani, penny inglesi e altre frazioni di vecchie valute europee.
Non era alla reception, lavorava come facchino. Mi piace immaginarlo con una divisa color pastello con i bottoni dorati e che doveva stargli davvero larga (è sempre stato secco come un chiodo). Io lo vidi solo in borghese. Era sempre vestito elegante, con giacca, cravatta e pantaloni con la riga perfetta. Si radeva tutte le mattine. Apparteneva a quella generazione per la quale essere uomini significava eleganza e rasatura a puntino. Ma aveva anche un sorriso spontaneo, pieno di gioia di vivere. A Rapallo lo conoscevano tutti. Passeggiavamo nelle vie del centro (Rapallo è d’una bellezza epica) e tutti lo fermavano per salutarlo. E salutare quei "toscani" venuti a trovarlo. E poi dicono male dei liguri.
Ecco, è con quel modo di ridere che aveva, che mi piace ricordarlo, anche se non c’è più da quasi trent’anni e la zia Linda da quasi dieci.
Il primo Mugnai a lavorare in albergo.
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