domenica 17 novembre 2024

Primo sketch:

Accompagno figlia 2.0 dalla dottoressa. Visita, prescrizione, usciamo per rientrare a casa.

Passiamo di fronte al cinema, a pochi metri dall'ambulatorio. La ragazza apre la bocca, esterrefatta:

«Non posso crederci! Danno Interstellar! Quando?»

Allungo il braccio e punto il dito sul cartellone:

«Oggi. Primo spettacolo tra poco, il secondo stasera. E leggi un po' qui»

Lei sgrana gli occhi, ormai a livello manga giapponese:

«In lingua originale!!! Babbo, dobbiamo vederlo!»

«Ma cosa vuoi vedere, che hai la febbre a 39!»

Due giovani, che sono lì all'ingresso del cinema a fumare una sigaretta elettronica e in procinto di entrare al cinema, ci guardano ridendo:

«È bella vispa, per avere 39 di febbre»

Io, indicandola: «L'ho drogata di Tachipirina»

Ridiamo tutti. Mentre rientriamo a casa, lei cerca di farmi sentire in colpa: «Hai drogato tua figlia e le impedisci di vedere un film bellissimo in lingua originale, sei il babbo peggiore del mondo!»

E le ho pure preparato il brodino caldo.

 

Secondo sketch:

Urge fare una seconda visita dal dottore. “Drogo” la figlia del solito medicinale e, non appena fa effetto, la porto all’ambulatorio. Passiamo nuovamente di fronte al solito cinema.

Lei sgrana gli occhi, poi abbassa le braccia e si lascia andare a un’espressione delusa:

«Ecco, lo sapevo, hanno tolto Interstellar»

«Si, lo hanno tolto» le rispondo «ma guarda cosa c’è adesso»

L’espressione della giovincella si fa, se possibile, ancora più delusa.

«Ecco, mi perdo anche questo!»

«Macché, da qui a martedì ti sarà passata la febbre, no?»

Lei rimane in silenzio, ma noto che una piccola fiammella di speranza si è accesa nei suoi occhi. Io, perfidamente, rigiro il coltello nella piaga:

«Vedi, martedì è in lingua originale»

Voce decisa, autorevole:

«Devo, DEVO vederlo. Martedì starò bene! Perché lo voglio, è deciso»

«Lo hai già visto?»

«Solo in italiano e fino alla scena del ballo»

«Ti manca tutto il resto, soprattutto Mr. Wolf, che risolve problemi»

«Allora martedì veniamo a vederlo!»

Improvvisamente si fa ancora più seria. Lo sguardo su di me si fa accusatore, non le è sfuggito che sono entrato in profonda crisi. Balbetto:

«Ehrrr…. Il martedì è una delle mie serate di giochi da tavolo…»

Lei rimane un attimo in silenzio, poi prorompe nella sua arringa finale:

«Preferisci giocare ai giochini con i tuoi amici invece di portare tua figlia a vedere Pulp Fiction in lingua originale. Sei il babbo peggiore del mondo»

…..

Forse riesco a organizzare la serata gioco da tavolo per lunedì o mercoledì, che sono comunque libero.

Uffa però!

venerdì 1 novembre 2024

A me piace lavorare con gli americani. La maggioranza di quelli che viene a Firenze sono persone curiose, intelligenti, empatiche. Ma devo ammettere che a volte danno prova di un’ingenuità che mi sorprende sempre. E sì che faccio questo lavoro da 25 anni.

1. Famiglia di quattro persone, genitori e figli. La signora è in sedia a rotelle. Cammina con molta difficoltà, ma comunque all’ascensore vuole andarci a piedi, ovviamente sostenuta dalla figlia, quindi si alza ed entrambe si avviano verso l’ascensore. Hanno anche affittato una sedia con motore elettrico, ma ha le ruotine troppo piccole, per poter girare agevolmente a Firenze.

«Perché in questa città ci sono tutte queste pietre, per terra?»

«A noi italiani piace la tradizione, manteniamo la pavimentazione in stile, come era in origine»

«E poi alcune strade sono strette, il marciapiede è impossibile, per una sedia a rotelle»

Allargo le braccia. Che altro posso fare? La città è fatta così, da millenni. E lui se ne esce con:

«Dovete metterci l’asfalto»

 

2. Poco prima della mezzanotte, ho il check-in di una signora con nome coreano e cognome anglosassone, americana fino al midollo, della mia età. Entra sola, senza bagagli.

«Buonasera e benvenuta al ******. È in auto, scommetto»

Rimane piacevolmente sorpresa; è sempre una buona cosa far capire, ai clienti, che abbiamo già notizie su di loro perché si sentono rassicurati. In realtà sapevamo -ce lo aveva detto lei, tramite messaggio- che sarebbe atterrata tardi, a Firenze, e dalla vetrata avevo visto che era scesa da un’auto fresca fresca di noleggio. Afferro la prenotazione, le confermo le date del soggiorno, le ricordo della tassa relativa e chiamo il collega che, celere, scende per andare all’auto a prendere i bagagli. La signora esce con lui, poi torna con la borsa e la figlia, una quattordicenne profondamente taciturna e introversa. Il mio collega porta dentro le valigie e poi va a parcheggiare l’auto nel nostro garage.

Afferro il foglio con le informazioni del garage e la ragguaglio su come funziona, in particolare sul pagamento.

«Per arrivare qui ci ho messo tanto tempo! Ma voi come fate, a guidare così? Le strade sono tutte strette…»

«Aspetti di guidare di giorno e vedrà»

Spalanca la bocca, in un misto di incredulità, terrore e raccapriccio. La rassicuro che, in centro, non le servirà. Alla partenza, col navigatore, potrà raggiungere la meta -un agriturismo da qualche parte del Chianti, con piscina, il fatto è avvenuto quest’estate- e aggiungo:

«Vedrete che sarà divertente e molto bello. La nostra campagna offre scenari incantevoli»

Cambia espressione in un bel sorriso colmo di grandi aspettative e si volta verso la figlia.

«Hai sentito? Sarà una bella vacanza!»

E la quattordicenne la osserva con una faccia che dice “Ma perché mi hai portato con te?”

 

3. Mi chiamano da una camera. Alzo la cornetta e chiedo cosa posso fare per loro.

«Avete dell’acqua calda? Vogliamo farci un tè»

«Ehm… signore, dovreste avere il bollitore, sul tavolino, con tanto di bustine per il tè»

«Si, ce lo abbiamo»

«Bene, potete utilizzare quello»

«Ma… dobbiamo riempirlo d’acqua?»

«…ehm… ovviamente. Noi forniamo due bottigline d’acqua gratuite, a tutti i clienti ogni giorno. Se le avete finite, ve ne posso far portare su un’altra» Dovrebbero pagarle, le bottiglie in più, ma per una volta evitiamo i troppi sbatti. E poi voglio fare il gentile, essere cordiale, tanto più che il bar è chiuso.

«Aspetti, chiedo a mia moglie» colei che comanda e decide, ovviamente. Ma gli rispondo subito:

«Comunque l’acqua del rubinetto è potabile»

«Veramente?» Con il tono da incredulo. Mi sembra impossibile che questi siano andati sulla Luna. Poi mi ricordo che sono pure stati capaci di votare Trump.

«Le assicuro di sì» gli rispondo.

«Aspetti un attimo, per cortesia» Quindi si mette a parlare con la moglie. E sento lei, incredula, che dice «really?», ma almeno si fidano. Il tipo riprende la cornetta e mi comunica che faranno così: l’acqua della cannella e il tè di cortesia, che abbiamo in tutte le camere.

Su fidatevi, che in questa penisola abbiamo costruito gli acquedotti quando gli inglesi andavano nudi a caccia di marmotte.

 

Comunque, quando s’impegnano, sono strani forte.

Però sempre simpatici.

sabato 26 ottobre 2024

In piena notte, qualcuno cerca di aprire la porta. Accorro e apro.

«Buonasera, mi scusi se la disturbo» (dice in inglese)

Il fatto che si scusi del disturbo me lo rende già simpatico. La buona educazione prima di tutto.

«Buonasera a lei, nessun disturbo»

«Non sono di qui, sono inglese. Ho bisogno di un’informazione: il navigatore mi dice che qui in zona c’è il “parcheggio gratuito”, ma non lo trovo»

Al di là del fatto che specifichi che è inglese, cosa che mi interessa relativamente perché fornisco lo stesso credito a chiunque se mostra la dovuta gentilezza, strabuzzo gli occhi alle sue parole. Free parking, parcheggio gratuito? In centro a Firenze? Glielo richiedo, forse ho capito male.

«Si si, parcheggio gratuito, me lo dava il navigatore»

Rimango veramente interdetto e comincio a pormi domande assurde su come sia possibile. Forse la nuova sindaca è improvvisamente impazzita e distrutto le porte telematiche della ztl? Ho attraversato un universo parallelo dove esistono parcheggi gratuiti in pieno centro? Il navigatore di costui è settato per il 1954, quando si parcheggiava pure sotto all’ingresso del Duomo e a Hill Valley cadevano fulmini sul municipio?

«Mi sembra molto strano, signore. Siamo nel centro di Firenze, non esistono parcheggi gratuiti. I pochi posti disponibili sono riservati a chi ci vive e ha un permesso apposito, rilasciato dal Comune»

«Beh, mia moglie è italiana»

«Di Firenze? Allora deve sapere come funziona…»

«No, non è di Firenze, ma italiana»

«Ehm… non è sufficiente per parcheggiare in centro. Bisogna viverci, che si sia italiani o no»

«Lei abita qui vicino, in via ********»

«Se abita qui, in centro, dovrebbe sapere come funziona. Bisogna farsi rilasciare il permesso dal Comune, per i residenti nel centro»

«E quindi…. Se non ho il permesso non posso lasciare l’auto qui?» Il qui è la piazza davanti all’albergo.

«A suo rischio e pericolo»

«Possono… farmi la multa? Non è la mia, è a noleggio»

Annuisco con aria greve. Che altro posso fare? Potrebbe anche essere la batmobile, la multa te la becchi, eccome.

Se ne va, sconsolato. Io richiudo.

Mi rimane il sospetto che mi abbia raccontato un sacco di balle; che costui sperasse veramente che un anonimo portiere notturno gli mostrasse la luce: il free parking.

Mi spiace ciccio, non arrivo a tanto; non ho questi immensi poteri.

sabato 12 ottobre 2024

Ognuno di noi ha delle priorità.

Ero ancora al tre stelle nei pressi della stazione -dove ho speso 20 anni della mia vita lavorativa- e durante un turno pomeridiano avevo davanti a me una signora sudamericana che ascoltava, trepidante, la mia spiegazione sul percorso da seguire per arrivare alla sua tanto agognata meta: il mitico e strabordante museo degli Uffizi, pieno zeppo di epiche opere d’arte e fulgido esempio del Rinascimento, fiore all’occhiello di una città che a quei tempi, almeno culturalmente, dominava il mondo.

Dietro di lei stavano il marito e il figlio adolescente, belli massicci ma con visi rubicondi e sorridenti, in profondo e assoluto silenzio. In attesa che lei decida.

Ma improvvisamente, ecco che si palesa la ribellione. I due maschi coalizzati contro colei che, da sempre, porta i pantaloni. Via la revolucion, adelante compañeros! Stavolta la decisione la prendiamo noi.

Come la signora ringrazia sentitamente per le informazioni che le ho appena fornito, marito e figlio, come se fossero soldatini, fanno un passo avanti all’unisono e si piazzano di fronte a me. Lei, occhi sgranati, li osserva completamente sorpresa, come se subdorasse che i due stiano osando contravvenire ai suoi supremi e perentori ordini. Per la prima volta nella vita.

Padre e figlio, sempre sorridendo, si guardano negli occhi con grande complicità, poi il ragazzo esordisce con un tono di palese emozione:

«È vero che qui a Firenze c’è un museo del calcio?»

Sorrido, perché mi mette sempre di buon umore la parola “pelota” che si usa, nello spagnolo, per indicare il gioco del calcio.

«Si, è proprio così»

Posso sentire due sciami di farfalle muoversi vorticosamente dentro i loro stomaci e urlare, in coro, “Ci siamo! Ci siamo!”. Senza dire altro, afferro un’altra piantina, anche se due occhi femminili ci trafiggono e sembrano dire “Non oserà!” verso di me e “Non oserete!” verso consorte e figlio. Ma ormai la solidarietà maschile è lanciata a mille e ho appena aperto, sul bancone, una piantina speciale, quella che contiene pure la periferia di Firenze e che, ai turisti, non serve a niente. Tranne in questo caso. Circolettare, con la penna, il centro tecnico federale di Coverciano, è un’operazione immediata. I due maschi sudamericani sono ormai in religioso silenzio, pendono letteralmente dalle mie labbra.

«Poiché non è in centro, dovrete prendere un autobus, il 10, che parte di fronte alla stazione, pochi metri dall’albergo» (oggi il capolinea è in piazza della Libertà) «La fermata si chiama “Centro Tecnico Federale”, dove si ritrova anche la Nazionale di calcio italiana»

La signora ha ormai assunto un atteggiamento altezzoso che Maria Antonietta scansati proprio. Il disprezzo verso i maschi plebei pallonari è ormai conclamato: «Io vado agli Uffizi» sibila con un tono che evidenzia la profonda seccatura dettata da questa ribellione.

I due maschi alzano la testa dalla piantina, si guardano dritto negli occhi e poi si voltano verso la moglie/madre:

«Ci vediamo a cena»

Non ho udito il “crash” nella testa della signora perché coperto dal coro di una curva da stadio. Lei, senza degnarli di una parola, alza la testa e, cartina alla mano, esce dall’albergo e svolta a destra. I due maschi della famiglia, con una felicità che provavo solo quando ero in Fiesole dopo un gol di Batistuta, vanno a sinistra.

Dopo alcune ore di turno, quando sta per approssimarsi il momento del cambio e sono in fremente attesa del mio collega notturno, la famigliola allegra per 2/3 rientra per il giusto e meritato riposo. In realtà sono convinto che anche la signora, dentro di sé e malgrado la fila e la lunga visita agli Uffizi, sia allegra e lieta, ma sul momento non lo mostra. Anzi, pare piuttosto seccata di essere stata lasciata sola. Chiede la chiave e sale le scale.

Ma i due maschi amanti della “pelota” erano al settimo cielo. Entusiasti, stettero mezz’ora davanti al bancone a descrivermi la bellezza di maglie in lana e palloni in cuoio marrone, come andavano decenni fa, l’emozione a vedere le coppe del mondo -copie, ovviamente-, le divise di tante squadre nazionali -compresa della loro- di tanti anni addietro e la commozione provata davanti a quelle del grande Torino.

Due bambini felici. Con la loro priorità, come dicevo all’inizio.

E sono sicuro che anche il caro Alessandro Filipepi, altrimenti detto Botticelli, avrebbe compreso.

Forse.

sabato 14 settembre 2024

Elegante

Ventiquattrore

L'uomo d'affari italico che parla infilando una parola d'inglese in mezzo a 3 italiane.

Ma quando è in giornata, riesce anche nel 50-50.

Si sofferma in portineria con collega abbigliato di egual divisa ed eguale valigetta. Gli uomini in nero, versione de noartri. E uno di loro ha pure un accento nordico che mi par di avere di fronte il mai abbastanza compianto Guido Nicheli. Ma poi si salutano. Il Nicheli esce, non dorme da noi, il nostro cliente mi chiede la chiave. La riceve insieme al sorriso del portiere.

Prende la chiave, il sorriso lo getta nella sua pattumiera mentale.

Pattumiera che riempie per intero la sua scatola cranica

Perché

Si ferma davanti all'ascensore

 Si gira

 Mi guarda

 E mi rivolge queste stupefacenti parole:

 «Il time limit per il FALL-OUT?»

 ….

 «Mezzogiorno» risponde la statua di sale che ha appena sostituito il portiere.

 Fa per alzare un dito. Anticipo la domanda:

 «Abbiamo uno stanzino bagagli, qui in basso, se deve partire nel pomeriggio»

 «Thank you my friend»

 Si volta ed entra nell'ascensore.

 La statua di sale continua a fissare un punto lontano come un 8 in posizione orizzontale.

 'unglielapossofà.

domenica 8 settembre 2024

Della mia famiglia non sono l'unico ad aver lavorato in albergo.

L'8 Settembre 1943, il soldato semplice Giosuè Mugnai si trovava dislocato a Sarajevo, come parte delle truppe d'occupazione del Regno di Yugoslavia da parte delle forze dell'Asse, di cui questo nazioncina faceva parte.

Mio zio, allora poco più che diciottenne, proveniva da Cetica; un piccolo villaggio del Pratomagno, quella catena montuosa che per l'Arno rappresenta una vera scocciatura perché gli tocca di aggirarlo prima di passare per Firenze e dirigersi verso il Tirreno. Cetica è un gruppo di casupole abbarbicato su un declivio montuoso dove per secoli si sopravviveva consumando farina di castagne (dopo il XV secolo arrivarono anche le patate. Non c'è mai stata grande fantasia, nella dieta di questi montanari). Gli unici eventi storici vissuti da quella comunità furono:

- il transito, dopo il passo della Consuma, dell'esercito guelfo fiorentino verso la piana casentinese, dove si sarebbe scontrato con le truppe ghibelline di Arezzo in quel di Campaldino (11 Giugno 1289). Dato che il villaggio era feudo dei conti Guidi, a quei tempi ghibellini e avversari, non mi stupirei se la soldataglia fiorentina si fosse data a qualche forma di saccheggio seguito da brutali stupri. E non mi sorprenderebbe neanche se venisse fuori che ho un po’ di DNA in comune con Dante Alighieri (il quale, ai tempi, era un cavaliere dell'esercito fiorentino e partecipò alla battaglia);

- il tentativo, da parte delle truppe della Wermacht il 29 Giugno del '44, di sterminare senza nessuna pietà tutti gli abitanti del paese. Tentativo in parte fallito perché l'unico modo per arrivare lassù era tramite una mulattiera. Non potendo usare autocarri, e tantomeno mezzi blindati, per piombare di sorpresa nel paese, i crucchi si fecero scoprire dando modo ai partigiani del posto di contrastarli (al prezzo di gravi perdite); ciò permise agli abitanti di fuggire nei boschi. Le mie nonne mi raccontavano di quando, quel giorno, scapparono tutti, con i figli piccoli appresso o direttamente in braccio. I fratelli di mia madre lo ricordano ancora (mio padre aveva appena 3 anni). Purtroppo vi fu chi non ce la fece. Tutt'oggi, se salite sul paese dalla parte di Pagliericcio, potete vedere una lapide con i nomi di un pastore e il figlio giovanissimo, uccisi sul posto senza remore.

Da questo paesucolo così isolato (ancora agli inizi degli anni '50 c'era solo la mulattiera. Quando mia madre contrasse una malattia esantematica, l'unico modo per una visita e le cure necessarie fu, da parte di mio nonno materno, di caricarla sul mulo e portarla giù a Strada in Casentino; perché a quei tempi i vaccini non esistevano e la morte era sempre incombente) mio zio si trovò catapultato in un luogo a lui ignoto. Distante un migliaio di chilometri da casa, in mezzo a persone che parlavano una lingua a lui astrusa e piazzato lì da un regime che non comprendeva assolutamente.

Una dittatura le cui necessità non erano modernizzare una nazione dove molti luoghi, come Cetica, vivevano ancorati al medioevo. #primagliitalianiuncazzo. La precedenza, per i gerarchi, era al proprio tornaconto e il dichiarare guerra a gente che non ci aveva fatto niente. Spedire a combattere, in posti sconosciuti, ragazzi il cui destino segnato da secoli era zappare la terra per seminare patate, raccogliere castagne, tagliare alberi nelle foreste casentinesi, preparare carbonaie. Una vita semplice, modesta, inevitabilmente breve e che nessuno, sul pianeta, era intenzionato a migliorare. Tanto meno i loro concittadini in camicia nera.

Il fatto che oggi il colore della camicia sia cambiato, non vi illuda: è sempre lo stesso tipo di persone. Che prima intontivano la gente con gli slogan e le urla belluine alla radio, ma che oggi si sono adeguati agli strumenti moderni: i blog e gli hastag.

Ma sempre le stesse immense teste di cazzo rimangono.

Catapultato in questa realtà assurda e assolutamente priva di senso, era inevitabile che molti giovani della sua età si rivolgessero alla parte politica opposta. Oggi possiamo anche dire che non fosse poi tanto meglio, ma come si dice in questi casi: "col senno di poi son piene le fosse". E anche di parecchi giovani italiani.

Quel giorno Giosuè Mugnai decise che era giunto il momento di tornare al paesello, e, non potendo attraversare l'Adriatico, si incamminò verso nord con l'intenzione di aggirarlo.

Non fece molta strada. Due ustascia croati, a quel tempo alleati della Germania, lo pestarono ben bene. Poi gli puntarono una pistola alla testa. All'ultimo momento, per un caso estremamente fortuito, decisero che non valeva la pena di sprecare una pallottola per quell'italiano, e lo mollarono ai tedeschi.

Deciso a sopravvivere a qualsiasi costo, mio zio saltò giù dal treno che doveva portarlo chissà dove ma che non prometteva niente di buono. Fece una scelta di campo ben precisa e andò sui monti, dove si aggregò ai partigiani serbi. Lì trovò altri suoi connazionali che avevano fatto la stessa scelta, dando vita alla brigata Garibaldi.

Un giorno, mentre si trovavano in un momento di pausa, gli fu ordinato di mettersi in riga. Di lì a poco arrivò un'auto da cui scese il maresciallo Tito. Il futuro capo della Repubblica Socialista di Yugoslavia passò in rassegna tutto il reparto.

Non so cosa abbia pensato quell'uomo di quegli italiani pallidi, smunti e sporchi che fino a poco tempo prima combatteva ferocemente e ora se li ritrovava alleati. Forse li considerava solo come utili pedine della sua guerra, o magari era sinceramente ammirato dalla scelta di quegli uomini. Non lo so, non lo sapremo mai. Mio zio non mi parlava molto degli episodi di guerra. Non erano mai momenti piacevoli, ma atti violenti, brutali, sanguinosi. Mi descriveva soprattutto le facce della povera gente che viveva su quei monti, anche loro persone semplici che sopravvivevano del poco che offrivano quei posti. Così simili a lui e così gettati in un mondo di prevaricazioni, violenze, morte. E malgrado ciò, dividere quel pochissimo che avevano con quegli stranieri. Anche per questo sopravvisse; tornò da laggiù con la pelle, una medaglia dello stato Yugoslavo e una discreta passione per il comunismo. In ordine decrescente di importanza.

Tornato in Italia, mio zio andò a vivere in Liguria. Per la precisione a Chignero, una frazioncina del comune di Rapallo. Dista 5 chilometri, e sono tutti di montagna. In Liguria è così, basta fare pochi metri e sei già sui monti. A differenza del Casentino, sono tutte valli profondamente scoscese, ripide, profonde. La strada che porta su è tutta fatta di tornanti che sembra la salita dello Stelvio, solo che è tutta immersa nel bosco. Ogni tanto ci sono degli slarghi per permettere alle auto di passare affiancate. Perché altrimenti è una corsia unica. E sull'esterno si apre un precipizio che aspetta solo di veder cadere l'auto dei cattivi in un film di James Bond o Indiana Jones.

Chignero sono 4 casette abbarbicate su questo precipizio. Tutte fatte in pietra e con pavimenti in legno. Al piano terreno la stalla con le caprette. Sopra, i bipedi. Quando andavamo a trovarlo dormivamo in una di queste case, abitata da una vecchietta che doveva rasentare il secolo d'età, un unico solitario dente e una parlata incomprensibile. Ci aveva abitato anche lui, i primi anni che era arrivato in Liguria. Ricordo che su un armadio di questa casa, al piano di sopra, aveva appeso il poster di una squadra di calcio: una rarissima foto a colori, per gli anni '50, e ormai quasi totalmente sbiadita, anche se si capiva che aveva quel colore così magico: il Viola. La Fiorentina del primo scudetto, 1955-56: il sorriso contratto di Sarti, l'espressione un pò stralunata di Chiappella, i baffetti di Julinho, lo sguardo serio e la pelle ambrata di Montuori. Ero affascinato da quella foto, quel simbolo identitario così forte e unico piazzato in quell'angolo remoto di Liguria. Ogni anno che andavamo a trovarlo mi aspettavo di non trovare più quell'immagine appesa a un armadio che doveva risalire all'ottocento. Invece, puntualmente, era ancora lì, e dormivo in quella stanza sotto lo sguardo vigile e premuroso di 11 gigliati, il prato verde del campo di gioco e la Maratona stracolma di fiorentini.

In una di queste casette di Chignero abitava quella che sarebbe diventata mia zia Linda. All'inizio c'era profonda diffidenza, da parte della famiglia di questa giovane e bella ragazza ligure, riguardo a questo toscano. Elemento che veniva da fuori, quindi sospetto. Parlava strano. Uno straniero! Oltretutto con idee politiche altamente riprovevoli. Uno che oggi sarebbe respinto, ecco. A dirimere la questione ci pensò il parroco: in un mondo dove non solo non esistevano i social, ma pure la sip faticava a mettere telefoni fissi ovunque, il curato del paesello ligure scrisse una lettera al suo corrispettivo in Toscana, chiedendo informazioni su questo tipo. E il prete di Cetica rispose che si trattava di un'ottima persona, brava, attiva, proveniente da una solida famiglia di indefessi lavoratori. E sono assolutamente certo che fu una risposta sincera, che lo credeva veramente. Malgrado tutto. Perché quando c'erano le elezioni il PCI, a Cetica, prendeva una percentuale che la Bulgaria scompare a confronto, e a parte un paio di altri partiti, c'era sempre un solo, singolo e solitario voto al movimento sociale. E sapevano TUTTI di chi era quel voto. E però il prete missino scrisse bene di quel ragazzo, raccomandandolo.

Guareschi ha sempre avuto ragione, maledetto baciapile.

La Liguria possiede dei luoghi di una bellezza straordinaria, qualcosa che rasenta il trascendentale. Uno di quei posti che, come Ischia, Capri, il Colosseo e il centro di Firenze, sono entrati nell'immaginario mondiale come "L'Italia da sogno". E chiaramente frequentati da persone estremamente danarose e potenti. Presidenti, divi di Hollywood, principi stranieri. Negli anni '50 e successivi ci fu un certo boom, una scoperta, di queste località, e subito iniziò l'industria e l'offerta turistica. Mio zio entrò, appunto, a lavorare in albergo. In particolare ricordo che era allo Splendido di Portofino. Una di quelle strutture ricettive dove anche una notte nella camera più piccola e infelice ha un costo pari a diverse rate di un mutuo. E lì si trovò ad avere a che fare con quella clientela. Mi parlò della principessa di Persia, la moglie dello Scià poi scacciato dalla rivoluzione komeinista, che non era mai contenta della pulizia della camera, e lo costringeva ad andare tutti i giorni in stanza a pulire, pulire, pulire. Ma anche gli altri non erano da meno. A un certo punto si stufò di tenere il conto di queste persone che potevano vantare titoli sui quotidiani. Tutta gente che non si scomoda neanche a prenotare e ha un esercito di galoppini e/o portaborse per il "lavoro sporco": contattare l'albergo, trasportarli sul posto, andare a lamentarsi al ricevimento perché "Sua Maestà non gradisce la camera, vorrebbe la suite" e mi immagino il portiere che gli risponde che non è possibile perché la suite l'aveva già presa Cary Grant. Altro che recensioni, era proprio un altro mondo. Esseri umani che trattavano gli altri esseri umani come pezze da piedi. Ok, non tutti (non Cary Grant o James Stewart, anche se non ricordo di quali divi si trattava) ma quasi certamente le "altezze reali". Mi raccontava soprattutto di quelli che, come mancia, davano pochi spiccioli. Da qualche parte ho ancora una piccola scatola di legno con dentro le monetine che mi regalava: centesimi americani, penny inglesi e altre frazioni di vecchie valute europee.

Non era alla reception, lavorava come facchino. Mi piace immaginarlo con una divisa color pastello con i bottoni dorati e che doveva stargli davvero larga (è sempre stato secco come un chiodo). Io lo vidi solo in borghese. Era sempre vestito elegante, con giacca, cravatta e pantaloni con la riga perfetta. Si radeva tutte le mattine. Apparteneva a quella generazione per la quale essere uomini significava eleganza e rasatura a puntino. Ma aveva anche un sorriso spontaneo, pieno di gioia di vivere. A Rapallo lo conoscevano tutti. Passeggiavamo nelle vie del centro (Rapallo è d’una bellezza epica) e tutti lo fermavano per salutarlo. E salutare quei "toscani" venuti a trovarlo. E poi dicono male dei liguri.

Ecco, è con quel modo di ridere che aveva, che mi piace ricordarlo, anche se non c’è più da quasi trent’anni e la zia Linda da quasi dieci.

Il primo Mugnai a lavorare in albergo.

domenica 1 settembre 2024

Anche se ormai sono un notturno fisso, non posso non dimenticare gli italo-americani. Qualcosa di epico, che rendono davvero l'idea del perché vengano realizzati, negli Stati Uniti, serie tv con personaggi che assomigliano più alle "macchiette" nei film dei Vanzina -o l'attuale presidente della nostra compagine calcistica-

Un pomeriggio estivo, durante un 15-23, scende le scale un cliente italo-americano di mezza età: sandalo, pantaloncini avana e canotta fantozziana con tanto di regolamentare macchia d'unto sul panzone prominente. 

Un tamarrone di quelli unici. 

Ha in braccio un enorme pacco stracolmo di biancheria. Si stravacca sul divano della hall neanche avesse portato il masso di Sisifo. Riprende fiato, poi mi guarda e, dopo una lunga pausa, mi chiede:

"Lei parlare ingles?"

"Yes" 

"E dimmi... dove stare qui laundry?"

Non sapevo se rispondergli in inglese od in italiano, alla fine ho fatto anche io un mix di italenglish che se mi sentiva una qualsiasi delle mie insegnanti mi moriva di crepacuore. Oppure mi saltava alla gola modello Homer sul figlio Bart.

Gli fornisco le informazioni e lui, ripreso il saccone, esce e si dirige verso la lavanderia automatica. Lavata la sua roba, rientra e ringrazia con un "denghiù" di biscardiana memoria. Non so come riuscissi a trattenere le risate, ma era simpatico e gentile, che è sempre ciò che conta. 

Dopo una mezz'oretta esce con la moglie: lei una signora distinta, anche vestita abbastanza elegantemente. Lui sempre con la canotta macchiata ed un particolare che mi ha riempito di gioia: sigaretta appoggiata sull'orecchio. Mi ha salutato con l'occhiolino "Noi andiamo mangiare".

Un mito!