Ogni tanto bisogna muoversi, darsi da fare, tentare qualcosa.
Perchè a stare fermi, ad aspettarsi aiuto da chissà chi, o che un qualcosa ci piova dal cielo, si otterrà solo una soluzione: di rimanere statici in quella stessa situazione.
E comunque, non aspettatevi gratitudini.
Ho passato due giorni sul Pratomagno con le ragazze e, almeno il primo giorno, la moglie. Il classico, immancabile, inevitabile pic-nic tra noi quattro con passeggiata pomeridiana sulla cima della montagna. Da lassù, con la visione delle vallate del Casentino da una parte e del Valdano dall'altra, la vita assume moltissimi colori ed una vivacità inarrestabile. Una Pepelandia dove i Biechi Blu non sono arrivati nè mai arriveranno.
Poi la moglie è tornata a valle causa lavoro, mentre io ho avuto la fortuna di restare un altro giorno con le ragazze ed i loro nonni paterni strafogandomi di pizza preparata nel nostro forno. Ed infatti non ho dormito molto a causa dello stomaco impegnato a ballare L'Hip Hop. Ma questa è una questione che non ci interessa.
Mio padre mi accompagna a Strada (in Casentino) dove prendo la Sita, altrimenti detta corriera, in direzione Firenze. Salgo con un bel "buongiorno", prontamente ricambiato dall'autista, perchè un saluto come si deve è sempre cosa buona e giusta, in un mondo educato e cordiale. Ma poi mi siedo e dedico la mia mente al culto indefesso delle chitarre dei mai abbastanza compianti Jeff Healey e Gary Moore.
Ad uno dei paesi lungo la strada, salgono una ragazza e la figlia. Si mettono nei seggiolini accanto a dove sono io, solo dall'altra parte del corridoio centrale. La bambina, direi poco più di 5 anni, mi osserva curiosa da dietro due sfere di color nero pece, la pelle color ambra e la bocca leggermente aperta, quasi stupefatta, forse non abituta alla visione di un indigeno sorridente. Non so darti torto, ragazzina, mi metto nei tuoi panni, il mondo mi va stretto e vedo da che pulpito arriva la morale. E pazienza se non conosci Bennato e molto probabilmente preferisci i cantanti del subcontinente da cui provieni.
Più a valle, poco prima del traguardo, fermata di Compiobbi, ed altri passeggeri in salita. Anche questi di colore ma da un altro continente, stavolta molto a sud del Mediterraneo, sono un'intera famiglia di 5 persone. Due ragazzine eccitatissime si precipitano a bordo e si siedono pazienti in fondo. La madre agguanta l'ovetto dal passeggino e sale. Poggia un momento il suddetto oggetto sul seggiolino accanto al mio. L'occupante, neanche un anno, mi osserva anche lui con lo stesso tipo di occhi della bimbetta indiana che mi guardava prima, la stessa boccuccia aperta stupefatta, la stessa innocenza di chi osserva il mondo e scopre cose nuove.
Mi incanto, a guardare questo altro sguardo, così simile a quello della bimba indiana malgrado i paesi d'origine distino migliaia di chilometri, sotto la visione divertita della madre, che non mi accorgo subito che il bus non riparte.
Fuori, il padre di famiglia, che ho già soprannominato Ordell Robbie, è in evidente e palese difficoltà con il passeggino. L'autista si arrabbia e lo invita a sbrigarsi, ma Ordell si infervora a sua volta, e sale sul mezzo con il passeggino ancora aperto, piazzandolo nello spazio riservato ai clienti in carrozzina.
L'autista esce dalla sua postazione di guida e va a redarguirlo sul fatto che lì, il passeggino, non ci può stare. L'altro replica a voce alta, ed entrambi danno vita ad un coro da decollo di airbus sulla pista principale di Heatrow. Poi l'autista termina che "non si parte fino a che tutti gli oggetti non sono al loro posto e le persone a sedere", dopo di che torna al suo posto e telefona non so a chi, se la centrale o l'Enterprise. La corriera resta lì, piantata come la Concordia sullo scoglio ma per lo meno dritta.
Un silenzio irreale scende dentro tutto il pulman, a parte l'autista che bofonchia un "io non riparto" a non so chi e il parlottare di Ordell con la moglie di qualcosa che, per quel che ne so, potrebbe essere la sistemazione di un passeggino come il calcolo differenziale dei vettori di potenza.
Non posso rimanere lì tutto il giorno, anche se sono solo le 11 del mattino e non entrerò in turno che tra 12 ore. Ho dormito quasi niente causa ingurgitamento di quantità spropositate di pizza fatta in casa e quindi necessità impellente di raggiungere casa, la doccia e molto riposo. Mi alzo e vado a vedere 'sto passeggino, mentre il resto del bus se ne resta seduto come se la cosa non li riguardasse, forse contenti di osservare la fermata della Sita di Compiobbi. Senza chiedere il permesso comincio ad aggeggiare, lui mi lascia fare e continua a discutere con la moglie. Una signora si affaccia dal suo sedile e comincia a darmi consigli "prova a pigiare quel bottone", che tento anche volentieri, ma serve solo ad allungare ed accorciare le maniglie.
Il problema dei passeggini è questo: ognuno di loro ha i suoi bottoni, i suoi comandi, i suoi meccanismi, che sono completamente diversi da tutti gli altri. Anche se sono della stessa marca. E sono ormai passati eoni da quando ne avevamo uno anche noi. Già la mia memoria è quella che è, figuriamoci aggeggiare su un trabiccolo con modalità completamente differenti. In breve, non ci cavo un ragno dal buco. A complicare il tutto, l'autista, cui ormai ho affibbiato il nome di "triceratopo frenetico", si alza nuovamente e va a redarguire Ordell Brown per non aver ancora fatto i biglietti, il quale reagisce urlando proprio come i personaggi di Samuel L. Jackson che li avrebbe fatti non appena messo a posto il passeggino. E mentre questi due deficienti sbraitano come ossessi, io sono lì che cerco di chiuderlo. Poi, come una luce in fondo al tunnell, arriva in mio soccorso una ragazza che "tu prova tirare leva che io preme qui", e magicamente il passeggino si ritrae su sè stesso dimezzando l'ingombro.
"Ecco fatto, ora sbrigati a metterlo al suo posto, altrimenti ci si mette casa, a Compiobbi". E Ordell, senza neanche un grazie, prende l'apparecchio, scende, apre lo sportello dei bagagli e lo ficca lì dentro. Poi finalmente va a pagare i biglietti a triceratopo frenetico proseguendo entrambi nelle loro fisime urlate. E quando finalmente si riparte, ecco che i passeggeri davanti, purtroppo della mia nazionalità, si mettono a discutere con triceratopo su "questa gente", dando vita a discorsi che fanno venire in me il fremito di dirottare il bus su Milano al nobile scopo di praticargli il bunjee-jumping in una piazza del capoluogo meneghino. Ve ne siete stati lì fermi senza fare un bel niente ed ora vi mettete anche a sputare sentenze. No grazie, ne ho abbastanza di questa merda. Mi riappiccico le cuffie e piazzo al massimo volume una qualsiasi chitarra, da Mark Knoplfer a Joe Satriani. Qualsiasi cosa, basta che mi assordi.
Quando finalmente arriviamo alla mia fermata, afferro lo zaino nel portaoggetti in alto, poi abbasso un attimo lo sguardo: la bimbetta indiana continua imperterrita ad osservarmi con sguardo curioso ed attento, spero a riprova che "costui è diverso da tutti quegl'altri". Non posso non sorridere e declamare un "ciao".
La madre, che solo ora mi rendo conto d'una bellezza speciale come solo le indiane sanno essere quando vogliono, con quella pelle così ambrata e quei capelli corvini che perdercisi dentro darebbe un significato speciale ad un'intera esistenza, invita la figlia a ricambiare, ed entrambe mi abbagliano con due doppie file di denti bianchi. Un'espressione così leggera e soave di serenità da meritare cittadinanza seduta stante, senza se e senza ma, alla faccia delle differenze di casta indiane e del mancato ius soli italico. Fiero della mia creazione di Ius risus (creato sul momento col traduttore, è valido a tutti gli effetti) ho percorso la strada di casa senza neanche accorgermi del sole bruciante del mezzogiorno d'Agosto. Ma stavolta con in cuffia il melodioso pianoforte di Bruce Hornsby.
A volte basta davvero poco, per sentirsi appagati.
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